Lyudmyla Khersonska, “non tacere, grida”

приходит война – ты не молчи, кричи.
сволочи, кричи, твари, кричи, палачи,
не делай вид, что ничего не происходит,
не бойся тревожить всех,
тормоши, буди – когда война, разбудить не грех.
кричи на всю страну, на все другие страны кричи,
окна пошире раскрой, не глотай ее, не молчи,
не жри ее втихаря, проклятую, не давись.
остался где человек? отзовись!
если человек ушел, так бывает, что закончился человек,
казалось на наш век хватит, не хватило на век,
прячет голову в плечи, в голове прячет глаза,
он не против, он, практически, за.
так ты его, человека, расталкивай со всех сторон,
пусть не молчит, пусть тоже кричит он,
пусть не делает вид, что не произошло ничего.
даже последнего человека, верни его,
поверни лицом к реальности, лицом к войне,
объясни человеку, она не за окном, не вовне,
рядом с ним, там, где работа и дом,
рядом с немым, молчащим, выдавливающим фразу с трудом,
научи его говорить, по слогам кричать.
только не надо молчать. о войне не надо молчать.

quando arriva la guerra – non tacere, grida,
grida bastardi, grida bestie, carnefici,
non fingere che nulla stia succedendo,
non aver paura di disturbare alcuno;
quando c’è la guerra, non è peccato svegliarsi.
grida al paese intero, grida a tutti gli altri paesi,
spalanca le finestre, non ingoiarla, non tacere,
non mangiarla in segreto, non soffocarti.
c’è ancora l’uomo? Rispondi!
senza uomo, l’umanità è condannata.
Sembravano abbastanza per il nostro secolo, ma non abbastanza per un secolo,
nasconde la testa tra le spalle, nella testa nasconde gli occhi,
non gli importa, acconsente.
allora scuoti l’uomo in tutti i modi,
che non taccia, che gridi anche lui,
che non finga che nulla stia succedendo.
anche se fosse l’ultimo uomo, riportalo in sé,
che affronti la realtà, che affronti la guerra,
spiega all’uomo che non è fuori dalla finestra, non è lì fuori,
è proprio qui, accanto a casa sua e al suo lavoro,
accanto al suo tacere, il suo muto tacere che a stento si rompe,
insegnagli a parlare, a gridare in sillabe.
ma non tacere, sulla guerra non puoi tacere.

Traduzione di Greta Caseti Continua a leggere

Per la prima volta in mostra i capolavori simbolisti di Marie–Charles Dulac

Marie-Charles Dulac, pregare con il paesaggio

di Fabrizio Fantoni

  

È in corso a Roma presso la galleria Aleandri Arte Moderna (piazza Costaguti 12), la mostra “Marie-Charles Dulac, pregare con il paesaggio”.

L’esposizione, curata da Federico De Melis, si propone di rileggere l’opera del grande pittore simbolista Dulac collocandola nel panorama culturale europeo di fine du siècle. Artista visionario ed innovatore Dulac ebbe – a seguito di una conversione religiosa che lo portò a divenire  terziario francescano  – innumerevoli contatti con l’Italia, dove soggiornò a più riprese tra il 1895 ed il 1898 durante i suoi pellegrinaggi sulle orme del Santo di Assisi. Morì a Montmartre ad appena 32 anni, lasciando un corpusridotto di opere in cui spiccano i piccoli paesaggi mistici dell’ultimo periodo e due suites litografiche più una incompiuta.

Nella mostra presso la Galleria Aleandri sono esposte, per la prima volta in Italia, tutte le litografie che compongono la suite intitolata Le Cantique des Créatures: capolavori della grafica del tardo Ottocento in cui il paesaggio si interiorizza e si fa materia spirituale attraverso un uso innovativo del colore e della tecnica litografica, arte in cui Dulac fu indiscusso maestro.

Le nove litografie de Le Cantique sono accompagnate da un nutrito gruppo di opere di artisti che ebbero rapporti di amicizia e di stima con Dulac e che illustra la vivacità del contesto culturale in cui egli operò.

 

Intervista a Simone Aleandri
Fondatore della galleria Aleandri Arte Moderna

di Fabrizio Fantoni

 

Come è nata l’idea di una mostra su un artista così poco conosciuto dal pubblico italiano?

 

La genesi della mostra è certamente la comune passione per Marie-Charles Dulac che alcuni anni fa ho scoperto di condividere con il curatore Federico De Melis, appassionato ed esperto studioso di arte francese fin du siecle.

Dulac è un artista molto raro che incontrai per la prima volta sul catalogo della mostra “Il luogo ideale” a cura di Jean-David Jameau-Lafond tenutasi presso il Museo d’Arte di Nuoro nel 2007 (la rassegna giunse a Nuoro da Pamplona, inaugurata nel 2006 con titolo Un Páis ideal: el paisaje simboliste en France) e dedicata alla pittura “brumosa” e simbolista francese che si contrappose a quella impressionista nella Parigi  della seconda metà del XIX secolo.

La Galleria che porta il mio nome è storicamente molto legata al Simbolismo europeo ed italiano a cui, nei passati quindici anni, sono state dedicate molte mostre personali e di ambiente.

Rimasi fortemente colpito dalla qualità visionaria, poetica e tecnica delle opere di  Marie-Charles Dulac, così maturai il desiderio di dedicare una mostra al pittore francescano.

De Melis invece incrociò l’artista in una galleria parigina che esponeva un suo “Paesaggio spirituale” e intraprese un personale percorso di riscoperta e di indagine che culminò in un bellissimo articolo a lui dedicato e pubblicato sulle pagine di  Alias  (Il Manifesto).

Da quel momento cominciò un lavoro sistematico di ricerca di opere che si rivelò molto difficoltoso per via della rarità dell’artista dovuta alla sua prematura scomparsa a soli 32 anni e ad un approccio del pittore con l’arte sobrio e non ossessionato da una ricerca di produzione massiccia.

Dopo circa un anno intercettammo a Parigi il portfolio Le Cantique des Creatures collazionato da un raffinato raccoglitore che riunì quindici esemplari facendo dialogare le Planche litografiche stampate ad un colore (edite in sessanta copie, 1894) con quelle arricchite da un secondo tono (venti esemplari, 1894) e permettendo di instaurare un confronto diretto fra le tavole.

Da questo nucleo iniziale abbiamo poi costruito un contesto storico arricchendo l’esposizione di opere di altri artisti legati alle temperie umane e culturali di Marie-Charles  Dulac.

Come ho già anticipato precedentemente, fatta eccezione per la mostra itinerante che sbarcò a Nuoro nel 2007  in cui Dulac era rappresentato da un nucleo significativo di opere, questa è la prima occasione in cui si può ammirare la produzione litografica del visionario francescano in Italia.

Certamente è la sua prima mostra personale ed è accompagnata da un esaustivo catalogo che introduce la rassegna delle opere attraverso una lettura critica e biografica a cura di Federico De Melis che entra nel merito delle vicende umane ed artistiche del pittore con una scrittura ispirata e molto documentata.

Abbiamo inoltre approfondito la tecnica litografica come Dulac la praticò nell’ultimo decennio dell’ottocento e fatta un po’ di chiarezza nella celebre cartella evocante il Cantico, in merito ai diversi toni di stampa e ai criteri adottati per la tiratura, nell’intento di fornire un contributo reale e significativo agli studi sull’artista.

Il volume si chiude con una sezione in cui sono state tradotte, per la prima volte nella nostra lingua, alcune lettere che Dulac scrisse dai suoi pellegrinaggi in Italia, congiuntamente ad un toccante testo di commiato dell’amico Joris-Karl Huysmans (lo scrittore fece di Dulac un vero punto di riferimento e nel suo romanzo La Cathédrale, 1898, entrò nel merito della suite litografica con toni entusiastici) con cui l’intellettuale ricordò Marie-Charles  dopo la sua morte.

Qual è ruolo che Marie-Charles Dulac rivestì nella cultura figurativa della sua epoca?

 

Dulac fu un artista molto amato dalla sua cerchia, oggetto di un piccolo culto, e considerato un vero innovatore della tecnica in cui si espresse con più forza, la litografia. Le sue opere dovettero circolare molto nei colti ambienti parigini e destarono grande ammirazione negli ultimi anni della sua vita (Marie-Charles si spense nel dicembre del 1898) ed in quelli successivi.

Odilon Redon di lui disse: «Era unico fra tutti coloro che plasmano il proprio spirito nella tela». Dagli studi sono emerse delle interessanti e suggestive correlazioni con opere, di artisti anche molto importanti, che sembrano derivare dai fogli di Dulac, fra i quali L’idol noire (1900-1903) di František Kupka. Il capolavoro del praghese, francese di adozione, sembra infatti ricalcare la visione prospettica ed atmosferica della planche IV del portfolio francescano (1894) sostituendo la silhouette nera dell’albero su cui tutti gli elementi della composizione convergono con quella della sfinge che ne occupa i medesimi ingombri.

Già Francesco Parisi nel suo volume dedicato alla produzione giovanile e preraffaelita di Giovanni Guerrini (artista noto per aver disegnato negli anni trenta il profilo della Palazzo della Civiltà di Roma, E 42) riscontrò la derivazione di una litografia dell’artista italiano da alcuni paesaggi del francese. La riscoperta di Dulac e la sua ricollocazione in un posto d’onore dell’arte europea è già in corso da alcuni anni, grazie all’impegno di Jumeau-Lafond che, fra le altre fatiche, sta lavorando ad un catalogo ragionato dell’opera. Il nostro obiettivo è di sensibilizzare la sua conoscenza sul territorio italiano, così caro e amato da Dulac, e porre il nostro paese in un ruolo primario all’interno di tale riscoperta attraverso un lavoro di ricerca che ci ha condotti ad inaugurare, presso i nostri spazi, la prima mostra personale retrospettiva del pittore su scala mondiale. Continua a leggere

Alessandro Santese, “Vento nelle mani degli uomini”

Alessandro Santese

A N T E P R I M A      E D I T O R I A L E

 

Il 21 aprile 2022 esce con Nicola Crocetti Editore, il secondo volume di poesie di Alessandro Santese:  Vento nelle mani degli uomini

Con la sezione Dimenticate contenuta nella nuova raccolta di versi, Alessandro Santese, nato a Roma nel 1990, nel 2019 ha vinto il Premio Poesia Città di Fiumicino per l’Opera Inedita, da una giuria composta da Milo de Angelis, Fabrizio Fantoni, Emanuele Trevi, Luigia Sorrentino. Presidente Gianni Caruso. Ci fa piacere proporre per la prima volta su questo blog in anteprima editoriale una scelta di quattro poesie fra molte altre, con le quali Alessandro ha vinto il Premio, poesie poi pubblicate in plaquette con la mia Prefazione – qui sotto riportata –  Edizioni Corte Micina, 2019 come previsto dal Regolamento del Premio.

(Luigia Sorrentino)

 

Alessandro Santese
da Dimenticate

Perché ogni cosa venga dal fuoco
per ritornare al fuoco

Orizzonte delle intersecanti

Tutto il tempo saremo
che ci siamo promessi
un giorno
come le cose che ci dicemmo a bassa voce, tra le mani
congiunte, per paura che il mondo ce le rubasse,
in un refolo:
entrerai nel gelo del ferro stringendolo all’infinito
come un figlio
di cui senti le frasi nel sonno cadere a manciate
come le ossa
la neve
del corpo piccolo un giorno al fondo di un cortile
che si diventa:

e sono grida bianche
cresciute dentro
a una a una che
sollevano la carne a un volo che precede
il dolore e lo scavalca,
ciò che dilegua la ridda delle ombre che s’assiepa
e distingue luce da
luce, momento vero e finale da momento: cola
un rivolo dai seni del latte
alla bocca che sanguina
ancora
un verso e giunge a voi, che rovesciaste lo spasmo
della testa contro la pietra del nulla
per troppo amore della vita
trovando il silenzio che non risponde
e dunque risponde:

sdraiato, ricordo, mi vedo
vedo il bambino che guarda sdraiato e cieco
il cielo, che sente addosso
come una imminenza.
All’improvviso, e vede. Bambino e sdraiato io, ti vedo.

Stare felici nei giorni non era stare qui.

Oh lingua che si sfa e voi, oh; vento.

 

Ma credete, vi prego

Ma credete, vi prego, a questo gelo che chiude
gli occhi solo un attimo ed è per sempre, al corridoio
immerso nelle dieci della mattina
che si colma d’una radio feroce, e le finestre, ognuna, ogni fiore
che poi tocchi, credete
al gesto che d’improvviso sa il diluvio nel respiro
poi un caldo minerale
e si entra
a poco a poco nell’ombra,
i piedi scalzi, il fermaglio,
la maglia e la terra,
questo schianto prolungato delle voci
alle tue porte, e prima, prima ancora
dell’asfalto, del suo grido che incontra una notte
su una tangenziale il bacio delle lamiere,
dei nomi l’ultima verità, e li spoglia, per tutti,
Alessio e Giulia in questo unico
esatto gelo del corpo, sposi,
e voi, che vi amerete nella gioia
e nella malattia,
nel dolore e nel terrore, vi prego, finché un bianco viscerale
vi chieda ancora alla luce, al prodigio
d’un grumo che chiamate parola
e sarà ogni cosa, tutto
come la via che portava
e riportava ogni giorno
al lavoro, che si faceva insieme, per venirti a riprendere
con gli occhi stanchi, per quel guizzo
che ti attraversava un attimo il viso,
sedendoci per lo spavento,
mettendoci accanto, sui sedili, entriamo, amore, entriamo
nell’ombra.

 

Io sono il morbo

Io sono il morbo
che t’ossessiona
gli occhi e tritura
il passato nelle maree dei senza volto,
dei mai vissuti, il bastone adesso
ha chiuso il cerchio
come la testa lanciata
nelle mani: è ora di entrare
e lasciarci tutto,
saranno cancellati anni
e preghiere l’intera terra del corpo
se nervi pulsano
saranno sradicati
uno, ad uno.

Io sono il ventre disseccato
che m’appartiene
il verme nella nuca trapunta
dalla mosca,
io sono del tempo
che non fa testimoni e scrive
formule malcerte sulla sabbia. Ora senti le bocche loro
aperte nel buio
dal sale, il collo torcersi oltre i vetri
dai balconi: si girano al temporale,
lo sanno vicino, sporgono
la fronte alla benedizione della pioggia. Continua a leggere

Boris Khersonsky, “quanti balconi crollati”

Il poeta ucraino Boris Khersonsky a Civitella Ranieri nel 2022

по городу носят взрывчатку в пластиковых пакетах
хозяйственных сумках и маленьких чемоданах
топчут асфальт и брусчатку мы узнаем об их секретах
после взрывов и это просто уточнение данных

сколько окон выбито сколько балконов упало
есть ли убитые или все живы здоровы
только напуганы тем что мирной жизни не стало
случилась война а законы войны суровы

или их просто нет и взрывы вошли в привычку
не встаем из-за столика только вздрогнем и лица мрачнее
враг выбирает оружие как вор подбирает отмычку
а дверь открыта и так говоря точнее

trasportano esplosivi in giro per la città
dentro sacchetti di plastica, borse e valigette
calpestano l’asfalto e il selciato e conosciamo i loro segreti
solo dopo le esplosioni e l’appurare dell’accaduto

quante finestre infrante quanti balconi crollati
è morto qualcuno o sono tutti vivi e vegeti
con la sola paura che non ci sia più vita tranquilla
la guerra accade e le leggi della guerra sono crudeli

o chissà non ci sono più leggi e le esplosioni sono ormai la norma
non ci alziamo da tavola ma incupiti trasaliamo
il nemico sceglie le armi come il ladro sceglie il grimaldello
quando in realtà la porta è già aperta

Traduzione di Greta Caseti Continua a leggere

Moira Egan, “Amore e morte”

Moira Egan Credits ph. Eric Toccaceli

Love & Death

Looking back, I presupposed love,
I suppose. At least, I felt a whiff of death
each time she left. She had a theory: that sex
was the only path to the truth. Philosophy,
religion, physics – the other,
traditional pursuits – had it all wrong. Only poetry

came close, but who can live on poetry?
Too sweet by far, though one can learn to love
it, to breathe, to eat it like candy. Still, other
nutrients are necessary: death
comes from such monotony. (Her philosophy,
though sweetly spun, was never so refined as her sex.)

And it was, after all, the pure white sex
between us that drove me to poetry.
How else to express the brazen philosophy,
the teleology of flesh beyond love,
the ontology of sex that can lead to death?
And we’ve all heard stories of others

who’ve actually died from it: The other
becomes the self, the sex
that binds us, wrist and foot. The little death
claws at your throat, your cry like poetry:
an eerie diction I grew to love.
“I’ll never read philosophy

again.” I embraced you, your strange philosophy,
and, forsaking all others,
turned to tell you of my love.
Which you call merely sex.
Is there solace in Poetry?
Just then I longed for Death.

Or did I? You arrive like Death,
tricked out in black, and burn my philosophy
books. Pale lips still pouty with poetry,
you tell me, of course, that I wasn’t just another,
and I, of course, believe you: You left because the sex
felt so much it hurt almost like love.

When we last made love, you left another
scar. And philosophy feels like death to me,
and I can’t find any poetry in sex.

Amore & morte

Ripensandoci, presupponevo amore,
credo. Quantomeno, sentivo un soffio di morte
ogni volta che lei se ne andava. La sua teoria: il sesso
è l’unica via verso la verità. Filosofia,
religione, fisica – gli altri
percorsi tradizionali – tutto sbagliato. Solo la poesia

ci andava vicino, ma chi riesce a vivere di poesia?
Troppo, troppo dolce, anche se si può imparare l’amore
per lei, e respirarla, mangiarla come un bon bon.
Ma altre sostanze nutrienti sono necessarie: la morte
scaturisce da questa monotonia. (La sua filosofia,
fine tessitura, mai raffinata quanto il suo fare sesso.)

Ed è stato, dopo tutto, il puro sesso
candido tra noi che mi ha spinto alla poesia.
Come spiegare altrimenti la sfrontata filosofia,
la teleologia della carne oltre l’amore,
l’ontologia del sesso che può portare a morte?
E le abbiamo sentite tutti le storie di altri
che davvero ne sono morti: l’altro
diventa il sé, il sesso
che ci lega, mani e piedi. La piccola morte
ti artiglia la gola, il tuo urlo è poesia:
misterioso tuo manifestarsi che ho imparato ad amare.
“Non leggerò mai più filosofia”.

Ti ho abbracciata, e anche la tua strana filosofia,
e, abbandonando tutte le altre
mi sono convertito e ti ho detto del mio amore.
Che tu chiami puramente sesso.
C’è conforto nella Poesia?
In quel momento bramavo Morte.

O no? Tu vieni come la Morte,
adorna di nero, e i miei libri di filosofia
li bruci. Pallide labbra ancora immusonite di poesia,
mi dici, certo, che io non ero solo un altro
tra i tanti e, certo, ti credevo: te ne sei andata perché il sesso
lo si sentiva tanto che faceva male quasi come l’amore.

L’ultima volta che abbiamo fatto l’amore hai lasciato un’altra
cicatrice. E la filosofia la sento simile alla morte,
e non riesco a trovare alcuna poesia nel sesso.

 

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Federico Carrera, “Tentativi di vita”

Federico Carrera, per gentile concessione

                         

Ad Andrea

Sul finestrino correva una goccia,
l’ho scambiata, voltandomi,
per un uccello che spiccava il volo
dai campi incolti di questo novembre.

Moristi, Andrea, e c’era la neve. Guarda:
ora tutto è cambiato questo clima bugiardo
che prova a nascondere l’aria di morte invernale
sotto coltri variopinte di foglie ammassate
e io mento quando dico che ancora ricordo
la tua voce che dico soave, ma che era
forse diversa, più roca, più cupa.

Andrea, moristi e di te mi rimangono
scarsi frammenti di pellicola muta,
sbiadita dal tempo, come quei film
che a te piacevano tanto

*

Gli amanti si scontrano
quando i baci esplodono
e passando e ripassando
sotto al portone di casa tua
si feriscono con gli occhi
si disarcionano gli sguardi

gli amanti si scontrano
se muovi leggera la mano
se avvertono intorno a te
un qualche rumore strano
escono fuori dai nascondigli
azzardano l’accusa calibrano

il moschetto della gelosia.
Ma gli amanti si scontrano
violenti anche con te che
non volente li lasci passare
li illudi li inganni rispetti il cliché
della donna severa sicura di sé.

*

Tenue sofferenza di inizio gennaio,
preghiera mancata, con le ginocchia
sulla sabbia – la ricerca di dio
nei luoghi che non calpesta. Dentro
la tensione metafisica dell’attimo,
appare lontano, ai confini della spiaggia,
un pargolo, nuovo demiurgo – piange
per le onde che sotterrano. Ma ecco
che d’improvviso appare una voce
che si muove tra le cose e si scorge
il cavallo bianco dentro la foresta scura,
mezzo-alluvionata, con qualche placido
dominicano a fare da Caronte tra la riva
del fiume e quella del mare.

*

Milano centrale ed è un dolore,
un amore che parte uno che porta
i segni dell’antico e un cambio
verso Torino campi deserti a maggese
paludi del fiume autostrade battute –
nessuno. Un vecchio film francese,
mi piace e c’è la pioggia, nuvole sparse:
ma i monti appaiono limpidi all’orizzonte
nonostante le mie poche virtù e scarse.

Selezione di testi da Tentativi di vita (Edizioni Effetto, 2021) Continua a leggere

Angelo Saso, “Scolpiti nell’aria”

Angelo Saso, per gentile concessione

La terra è in tempesta

 

La terra è in tempesta
È tempo di ripiegare le vele
Di cercare riparo
Sotto una coltre di muschio
Una coperta di neve.

La terra è in tempesta
Mare di rami
Nudi come falangi
Le radici scoperte
Ondeggiano
Si tendono
Stridono.

Il cielo vuoto rimbomba
Di preghiere non dette
La terra è in tempesta.

 

Fuochi lontani

 

Non ho nulla
Da offrirti
Se non il mio sguardo
E la nostalgia
Del respiro delle stelle.

Ascoltalo
Quando la notte sorge
Alta nel tuo cielo.

Riempiti gli occhi
Con il battito Dell’universo.

Fuochi lontani
Nello specchio dell’orizzonte
Segnali di luce
Per navi fantasma.

Sulla pelle la rugiada
Che profuma
Di terra.

 

La strada

 

La strada chiama all’alba
Offre rugiada e silenzio
Fango e raggi radenti
Portaci i sogni notturni
Non aver paura di sporcarli di terra
Di impastarli di nuvole e polvere.
La strada
È la via dell’essenza.
Sei tu senza il vuoto
Che ti riempie la vita.

 

Finis Terrae

 

Ho visto
La mia anima in viaggio
E l’ho seguita.

Tra guglie di bellezza
Ho visto
La terra colore del pane.

Ho respirato
Distese di grano
Verde nel vento
Della primavera.

Ho visto
Il dio dei tulipani
E ciuffi di capperi
Tra le pietre sbrecciate
Di quel che resta
Di gloriose mura.

Ho visto
La polvere delle carovane
E la schiuma del Bosforo
Nell’aria impregnata
Di suoni e di spezie
Dai colori lontani.

Ho parlato
Le lingue dei marinai
Bruciati dal sole.

Sono stato mercante
E gran sultano
E schiavo sanguinante.
Nel solco bianco delle chiglie
Tra il battito delle triremi

Ho visto
L’inizio del mare
E la fine del mondo. Continua a leggere

Tra dolore e ricordo, la morte di chi resta

Luigia Sorrentino credits ph. di Gerardo Sorrentino

Su “Piazzale senza nome” di Luigia Sorrentino
di Federico Carrera

 

Il senso autentico e profondo dell’ultima raccolta di poesie di Luigia Sorrentino – Piazzale senza nome, edito da Pordenonelegge-Samuele Editore nel settembre del 2021 – è tutto racchiuso, non richiesto ma non celato, nelle prime pagine della silloge, in quello spazio in cui l’intento autoriale da astratto si fa narrabile.

Proprio in questo delicato luogo di soglia Sorrentino pone una citazione plutarchea in cui la morte dei vecchi è assomigliata a un giungere a destinazione e quella dei giovani a un naufragio (Fr. 205 Sandbach). Questa citazione trova il suo primo controcampo poche pagine dopo, in una breve prosa poetica sapientemente intitolata Morti parallele (il titolo plutarcheo delle Vite parallele viene così rovesciato).

Ed è proprio con questo testo che Sorrentino apre la pista alla lunga schiera di naufragi e di incontri con la morte di personaggi giovani, che sono insieme astratti, come simboli di una generazione, e concreti, come ricordi di persone davvero vissute e davvero smarritesi.

Sotto questo aspetto, Piazzale senza nome è senza dubbio un libro fortemente generazionale, un piccolo poema epico-narrativo sulle sventure di una generazione – gli adolescenti degli anni Ottanta – che si è trovata coinvolta in un insieme di circostanze disperate: droga, incidenti, omicidi, violenza. E i versi di Luigia Sorrentino, nella loro metrica piana e narrativa, assestata intorno all’endecasillabo, evocano con grande potenza una curiosa sensazione di malinconia, che richiama vagamente quel contorcersi di membra proprio dello spleen di baudelairiana memoria.

Le descrizioni lucide e dolenti di Sorrentino si susseguono dunque senza una rigida struttura che le inquadri, in modo che il discorso – così vivo e autentico – non si riduca a banale racconto letterario, ma mantenga la sua potenza espressiva.

Così unitario, eppure così spezzato e frammentario, il racconto di Sorrentino sembra voler raccogliere i cocci di ciò che rimane oggi di questi giovani, dopo il trascorrere di tanta memoria, in un susseguirsi di liriche brevi, ma pungenti ed esatte nell’espressione e nella lingua.

Ciò che colpisce è il fiume di parole che investe il lettore: parole esatte, cariche di ricordo, e che la stessa Sorrentino sembra aver scritto quasi senza controllo, lasciandosi trascinare dall’urgenza del dettato – tanto che i testi sono datati come composti in un biennio, tra il 2017 e il 2018.

Quando sentii per la prima volta Luigia Sorrentino parlare di questo libro, nel contesto del Poesia Festival delle Terre dei Castelli, una sua frase mi ha colpito molto: «la poesia ci parla sempre di una condizione umana precaria». Continua a leggere

Gian Mario Villalta, “Una fantasia vocazionale”

AUTORITRATTO
da un’idea di Luigia Sorrentino
a cura di Fabrizio Fantoni

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di Gian Mario Villalta

Un autoritratto presume la presenza di uno specchio. Non sono uno storico della pittura, ma è sensato immaginare che ci sia una relazione cronologica tra l’arte di fabbricare specchi sempre più perfetti e l’autofigurazione via via più complessa del soggetto che ritrae se stesso sulla tela. Fino alla deformazione e alla moltiplicazione che la fotografia e il cinema, questi nuovi specchi capaci di catturare l’istante, suggeriscono e forse impongono alla presenza di sé e del mondo figurata in una visione bidimensionale.

La parola, d’altra parte, se pure nell’opera di poesia vorrebbe irraggiare e insieme accentrare una dimensione più stratificata e molteplice del tempo, quando viene al servizio di una narrazione che ha obblighi di relazione più stretti con i fatti, le date, le testimonianze, deve decidere per una quota di fiction, che diventa – a proposito di se stessi – inevitabile auto-fiction. E anche in questo caso, quale specchio si decida di scegliere e dove lo si voglia collocare rimane decisivo.

Una via percorribile è quella della cosiddetta “carriera poetica”, che annovera sodalizi, detta la scansione delle pubblicazioni, menziona eventuali riconoscimenti. Però, per quanto mi riguarda, l’espressione “carriera poetica”, la si voglia ridurre a mera concatenazione di eventi o esaltare in termini di biografia leggendaria, appare inadeguata. Mi pare di non aver fatto altro che la stessa cosa, per decenni, pur cambiando nella vita, aggiungendo studi e relazioni umane: aver voluto scrivere una poesia, averci provato, obbedendo a necessità di espressione e di confronto rispetto alla realtà più ampia del mio stare al mondo e a quella intima del quotidiano esistere. Se poi per “carriera” si volesse intendere un progresso ufficiale di risultati raggiunti, non si può certo usare questo nome per la considerazione che pochi hanno avuto in tutto questo tempo per quello che ho scritto. La situazione della poesia nella cultura attuale permette inoltre a pochissimi, credo, e non certo a me, di considerare la sequenza dei propri lavori poetici nei termini di un pubblico riscontro che abbia una qualche importanza.

Resta il fatto che la poesia e la mia vita sono legate sia nei fatti che nella dimensione interiore così strettamente da segnare ogni successiva sequenza temporale, dall’infanzia, all’adolescenza, dalla maturità all’oggi, quando “maturità” è già una parola da usare con indulgenza.

Potrei raccontare di un ragazzo di diciassette anni che già da tempo legge poesie e subisce il fascino della musica allora definita progressive: vorrebbe diventare come quel Peter Sinfield che figura parte creativa dei King Crimson (non solo un “paroliere”) e scrive i testi di In the Court of the Crimson King e di Islands. Quel ragazzo ha letto Montale, sa che ci sono Sereni, Zanzotto, Sanguineti e altri poeti (molti sono stranieri) menzionati nel paginone centrale del poco più che neonato quotidiano «La Repubblica», che acquista ogni giorno. Cerca in biblioteca, legge, compra qualche “Oscar”. Un giorno, in una cartolibreria, è colpito dai versi che compaiono sulla copertina di un piccolo libro. Costa poco. Lo compra. Pochi minuti a piedi e si siede sulla panchina di un parco per leggere. È La terra desolata di Thomas Stearns Eliot, nella “bianca” Einaudi. Legge tutta la sequenza. Rilegge. Quando si alza da quella panchina non lo sa ancora, ma è accaduto: diventerà un poeta.

Oppure potrei raccontare come quel ragazzo, sei anni dopo, arriva alla prima pubblicazione avvenuta “alla macchia”, come si diceva una volta, grazie all’amicizia maturata all’università con Roberto Cresti e Claudio Pasi, autore della precedente, prima pubblicazione, in quella nostra “casa editrice” alla quale avevamo dato un nome: Niemandswort, e collocato la sede presso la Galleria Fabjbasaglia di Bologna (Fabj il cognome di Luciana, la madre di Roberto, che ricordo con affetto).

  Niemandswort era il segno di un’affiliazione: gemmava da Die Niemandsrose, il libro del 1963 che rappresentava allora per noi la riva raggiungibile dell’opera di Paul Celan. Raggiungibile anche praticamente, perché l’opera era disponibile intera in versione francese, quando in italiano circolava solo l’antologia mondadoriana  del 1976. Un numero di «Études Germaniques» a lui dedicato dopo la morte ci aveva permesso di vedere il suo viso in una fotografia.

Avevamo da poco passato la soglia dei vent’anni e a quell’età, quando la vita si rivela nella sete di presente, non è raro che le passioni abbiano bisogno di attraversare enigmi per incamminarsi in un deserto di lontananze. La poesia era per noi quel deserto, o almeno la sua parte più misteriosa, e Paul Celan aveva scritto le parole che ne disegnavano l’enigmatico paesaggio. Perché proprio lui – leggevamo “tutti” i poeti, e molti erano quelli che ci appassionavano – perché proprio Celan allora? Me lo sono chiesto spesso.

So che della memoria ci si può fidare solo fino a un certo punto. E quindi provo a dare la risposta di oggi a quello che posso ricordare (o indovinare?) di allora.

La voce di Celan era quella dell’ultima profanazione possibile, ovvero l’ultima possibilità di scagliarsi contro il sacro, non perché c’era, ma perché non c’era più, dileguato prima che potessimo fare altro che indovinare la sua assenza. Era un modo per chiamare qualcosa o qualcuno che non c’era più e non sarebbe tornato. Per questo “il sonno di nessuno”, che dall’epitaffio sulla tomba di Rilke (Rosa, pura contraddizione. Brama d’essere il sonno di nessuno sotto infinite palpebre), sortiva come “rosa di nessuno” nel titolo di Celan, diventava per noi la parola di nessuno,Niemandswort, ovvero non di un “io” che padroneggiava la lingua per comunicare un contenuto, quanto  l’abitare la lingua stessa con una voce senza nome.

Forse erano soltanto i nostri astratti furori. Ma se guardiamo alle date, un’onda s’era già levata a cancellare il mondo della nostra infanzia e della nostra prima formazione. Quel mondo era gravato per me da due silenzi. Uno pesava sul tempo prima di me, prima che io nascessi, sugli anni della guerra e delle sue conseguenze. La biologia, prima di tutto, e poi i meccanismi della memoria, vogliono che si guardi avanti e non più ritornare sulla paura e sul dolore. Però il taciuto, in famiglia e nell’ambiente del paese dove vivevo, le frasi interrotte al mio arrivo, l’evasività alle domande, erano un velo oscuro su eventi trascorsi ma ancora presenti, che percepivo e, non comprendendo, creava in me un senso di inadeguatezza e di precarietà. L’altro grande silenzio era quello della campagna: trasformati in una fabbrica a cielo aperto, sconvolti dalle ruspe e dai diserbanti, i campi sui quali avevo vissuto l’infanzia e l’adolescenza non risuonavano più dello stormire degli alberi e del canto degli uccelli. Al loro posto i rumori dei motori, dei silos, delle sirene delle fabbriche.

Allora “in nessun luogo si chiede di te” non era solo un verso di quel poeta, ma una voce che diceva prima di tutto l’intima lacerazione del suo stesso significare: si chiede di te, la chiamata non tace, ma i luoghi non hanno più nome né destino.

Perché Celan: perché non pensavamo di fare letteratura – avevamo vent’anni – ma credevamo di doverci giocare sulla parola la posta più alta al tavolo della vita. E scrivevamo quello che confusamente ci pareva potesse corrispondervi, il libro di Claudio meno confusamente del mio, più maturo e compiuto del mio.

Non disponevamo neppure di una vera tragedia, della quale non si parlava, e che soltanto intuivamo: eravamo soltanto nati sulle sue ceneri, che si erano mostrate fertilissime, come sempre le ceneri sono, e cresceva rigogliosa la società dei consumi e del tradimento di ogni ideale (chiedo scusa per quest’ultima parola, imbarazzante, ma allora la si usava, per le ultime volte, ancora).

Potrei raccontare, ancora, la prima uscita “ufficiale”, su «Alfabeta», una pubblicazione allora molto letta e prestigiosa, per interessamento di Antonio Porta. Poi ancora il primo volumetto di poesie (tra i giovanissimi “editori” c’è Davide Rondoni). Più tardi, ancora una volta decisivo, l’incontro con i poeti dei Quaderni italiani di Poesia di Franco Buffoni. Tra questi, Stefano Dal Bianco e Antonio Riccardi sono ancora oggi i miei primi lettori.

Potrei raccontare gli anni “a bottega” da Andrea Zanzotto, i primi libri che hanno avuto un po’ di riconoscimento, l’amicizia con Mario Benedetti.

Sarebbe sempre troppo e troppo poco. Sarebbe sempre amplificare qualcosa e trascurare qualcos’altro. Già nel fare questi nomi mi  pento per aver taciuto molti altri con i quali la vita e la poesia si sono legati in tanti anni, nei quali a un certo punto è diventato importante per me il lavoro svolto nella poesia e con i poeti all’interno delle attività del festival pordenonelegge da più di vent’anni.

Alla temuta laconicità di una sequenza di pubblicazioni, c’è il rischio di contrapporre un romanzo autofinzionale che comporterebbe un numero esorbitante di pagine.

Allora propongo al lettore, già stanco per avermi seguito fin qui, un esperimento: cercare nella memoria e con l’immaginazione di ritrovare il momento più lontano nel tempo, dove collocare la “scoperta” della poesia e del poter essere poeta. Risalire, insomma, alle cause della felice patologia – che fa parte della “fisiologia” di ogni essere umano – e che in me si è così fortemente cronicizzata.

Le premesse: sono stato per sei anni un parlante il solo dialetto. Una lingua più che minore, veneta fuori da Veneto, al confine con la parlata friulana, che ha una forte caratterizzazione locale. Avevo coscienza delle principali differenze tra la lingua che parlavo quotidianamente e l’italiano delle occasioni ufficiali e della radio, ma le opportunità di usare quella lingua si presentavano raramente, e credo che le mie performance – se ci sono state – fossero davvero incerte. Continua a leggere

Dmytro Tchystiak, “l’alba nel riflesso delle magnolie”

Dmytro Tchystiak

КВІТИ (VI)

Світає – чистим шепотом магнолій
Удалині, та вихлюпом у далеч
Ти постаєш із ложа, де мерцями
Розпались ми в потопі (білий біль
І калиновий викрик – нам у серце,
Нічним, бо молодо), таки не постаєш –
Перетікаєш вицвітом-кларнетом,
Так високо, що нота – ніби смерть,
А птахи озиваються звідтіль, і стане
так, немов одного руху досить –
лиш відхили вікно і залелій
над обшир усієї рани світла –
щоб сотворити…
Світає!

Fleurs (VI)

Voici l’aube dans le reflet des magnolias
tremblotants puis tu t’élèves dans l’espace,
tu sors ton lit où nous étions noyés
dans le déluge morbide (avec cette douleur blanche,
ce cri rouge d’obier qui transperçait les jeunes,
les nocturnes), en effet tu ne t’élèves pas,
tu flottes comme cette coulée d’une clarinette
si haut que la note atteint la mort,
et au-delà les oiseaux s’éveillent et te répondent,
et on dirait qu’un seul mouvement suffirait :
par exemple, celui d’ouvrir la vitre et de trembler
au-delà de cette plaie de lumière,
pour créer
l’aube !

 

FIORI (VI)

Ecco l’alba nel riflesso delle magnolie
tremante ti elevi nello spazio
ti alzi dal letto, dove siamo annegati
nel diluvio morboso (con questo dolore bianco,
e il grido rosso del viburno che trafigge i giovani,
i notturni), anzi non ti alzi,
fluttui come questo suono di clarinetto
così alto che la nota raggiunge la morte,
e al di là gli uccelli si svegliano e rispondono
e si direbbe che una mossa sia sufficiente
per esempio, aprire la finestra e tremare
oltre questo taglio di luce
per creare
l’alba!

(Traduzione dalla versione francese di Laura Garavaglia)

Commento di Monica Acito

La poesia di Dmytro Tchystiak si fa corpo, è carne viva e sembra di toccare con mano ogni lettera che ne compone i versi.

Ogni parola pare illuminare la poesia, con dei fasci di luce che accarezzano le righe: il tono è vagamente surrealista, a metà strada tra realtà e mondo onirico. Il lessico è vivo e vibrante, l’autore crea un microcosmo che possiamo sentire sulla pelle: il riflesso delle magnolie, il diluvio morboso, la finestra, la stanza inondata dalla luce del mattino. Continua a leggere

Il dolore esistenziale nell’Onégin di Puskin

Premessa
di Luigia Sorrentino

Con questa recensione di Alberto Fraccacreta, rilanciamo una delle opere principali studiate a scuola in Russia: il romanzo in versi di Aleksander Puskin: Evgenij Onégin. E’ considerato il massimo della produzione letteraria di Puškin, “un’enciclopedia della vita russa e un’opera veramente popolare” che molte generazioni di scrittori e di poeti leggono.

Il romanzo, recentemente ristampato in Italia da Mondadori negli Oscar nella traduzione dello slavista Giuseppe Ghini, ci mette di fronte a un capolavoro assoluto perché come conferma il traduttore con “l’Onégin Puškin ha pronunciato una parola universale, capace di superare e fondere i particolarismi nazionali”. Avvicinarsi alla poesia dell’Onégin vuol dire avvicinarsi al dolore esistenziale e profondo del protagonista, avvertire lo spaesamento di un’epoca, l’insanabile male di vivere (più che mai attuale) che porterà Onégin a rifiutare l’Armonia che Amore e Amicizia potrebbero dargli.

“Amicizia” e “Amore” sono le parole che ricorrono anche in questa bellissima lirica molto conosciuta in Russia di Puškin scritta dal poeta proprio nel periodo dell’Onégin, tra la fine del 1826 e l’inizio del 1827, a sostegno dei decabristi, esiliati in Siberia tra i quali c’erano vari amici e conoscenti del poeta.

La lirica non poté esser pubblicata durante la vita di Puškin, per il contenuto del testo, ma ebbe larga diffusione in Russia circolando di mano in mano.

Ve la proponiamo nello “schizzo di traduzione” di Paolo Galvagni. A seguire la recensione di Alberto Fraccacreta.

1] Во глубине сибирских руд
Храните гордое терпенье,
Не пропадет ваш скорбный труд
И дум высокое стремленье.
Несчастью верная сестра,
Надежда в мрачном подземелье
Разбудит бодрость и веселье,
Придет желанная пора:
Любовь и дружество до вас
Дойдут сквозь мрачные затворы,
Как в ваши каторжные норы
Доходит мой свободный глас.
Оковы тяжкие падут,
Темницы рухнут — и свобода
Вас примет радостно у входа,

И братья меч вам отдадут.

1] Riferimento alla insurrezione, svoltasi a San Pietroburgo nel dicembre 1825 (decabristi – dicembristi).

(Schizzo di traduzione)
di Paolo Galvagni

Nelle profondità dei minerali siberiani
Mantenete la fiera pazienza,
Non svanirà il vostro mesto lavoro
E l’alta aspirazione dei pensieri.

Sorella fedele alla sventura,
La speranza nel tetro sotterraneo
Desterà il vigore e l’allegria,
Giungerà il tempo desiderato:

Amore e amicizia a voi
Arriveranno per le porte tenebrose,
Quando nei vostri covi di lavori forzati
Giunge la mia voce libera.

Pesanti cadranno le catene,
Le prigioni crolleranno — e la libertà
Vi accoglierà gioiosa all’ingresso,
E i fratelli vi daranno la spada.

 

Aleksàndr S. Puškin, Evgenij Onégin, a cura di Giuseppe Ghini  (Mondadori, 2021)

Recensione di Alberto Fraccacreta

 

Il romanzo fondativo della letteratura russa è in versi: l’Evgenij Onegin di Aleksàndr Puškin, composto tra il 1823 e il 1831, in due momenti distinti della vita del poeta. Suddivise in otto capitoli con i Frammenti di viaggio di Onegin, le 389 strofe sono formate ognuna da quattordici tetrametri giambici che hanno recato non pochi grattacapi ai traduttori italiani.

Nel 1923 Ettore Lo Gatto propose una versione in endecasillabi; celebre fu la scelta di Giovanni Giudici di mantenere intatta la serie rimica delle stanze orientando il metro in direzione di un novenario aperto e fluttuante. Continua a leggere

Janis Sinajco, “spezzandosi”

Janis Sinajko

Janis Sinajko

Nella traduzione di Paolo Galvagni

плоть возносится
к небу
чёрными листьями

в глазницах чудовищ
неприкасаем
снег

где

из отяжелевшей руки
яблоко
падает
в твёрдую грязь
разбиваясь

la carne si innalza
al cielo
con foglie nere

nelle occhiaie dei mostri
è intangibile
la neve

dove

da una mano appesantita
una mela
cade
sul fango duro
spezzandosi

***

и после всей тишины

так близко

созвездия

смотрят
как ты наконец-то очнёшься

уже очудовищен

e dopo tutta la quiete

così vicino

le costellazioni

guardano
come finalmente ti risveglierai

ormai mostruoso

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Da una lingua fantasmatica: Amelia Rosselli

Amelia Rosselli Credits ph. Dino Ignani

Di Giuseppe Martella

L’ipotesi che avanzo in quanto segue, con la massima cautela poiché non sono un italianista di professione, è che la lettura delle poesie giovanili in inglese di Amelia Rosselli che appaiono in Sleep ci offra una chiave preziosa per comprendere la peculiarità e il fascino di tutta la sua produzione.

Questi testi appaiono infatti di una inattualità e di una pregnanza sorprendenti, come fossero estratti dalla matrice del tempo, dall’irripetibile età dell’oro della letteratura inglese, fra Cinque e Seicento, fra Shakespeare e John Donne. Per essere poi proiettati sulla tragedia storica del nostro Novecento, sugli incubi kafkiani di questo secolo breve segnato dalla Shoah e da due guerre mondiali. Incubi vissuti sulla propria pelle e divenuti saga familiare della poetessa, traumi psicosomatici che ne hanno segnato insieme lo spaesamento esistenziale e la Stimmung poetica, che si può definire come un consapevole delirio prolungato o anche una meditata atonale “arte della fuga” che si arresterà come è noto con un taglio secco come quello dell’ascia che apre la luminosa sequenza di Sleep: “Pray be away/ sang the hatchet as it cut slittingly/ purpled with blood. The earth is made nearly/ round , and fuel is burnt every day of our lives.” “Prego vattene/ cantò l’accetta mentre acuminata tagliava/ imporporandosi di sangue. La terra è fatta quasi/ tonda, e carburante viene bruciato ogni giorno della nostra vita.” (8)

Fatta questa premessa, voglio sviluppare l’ipotesi che tutta l’opera di Rosselli si possa intendere come “traduzione” da una lingua madre fantasmatica.

Per lingua madre intendo l’inglese, perché sua madre era inglese e le avrà probabilmente sussurrato suoni e parole di questa lingua nella prima infanzia; in quella fase precoce di formazione psichica che Lacan chiama “stadio dello specchio” e che si trova mirabilmente condensata nell’antichissimo mito del bambino Dioniso sbranato dai Titani mentre una nutrice gli regge uno specchio in cui egli può vedere i suoi assassini, coi volti coperti di maschere bianche identiche alla sua, circondarlo danzando per farlo infine a pezzi. E’ il mito della nascita della coscienza individuale dalla nuda vita, dal sentirsi tutt’uno col corpo della propria madre.

La lingua materna (fonica, tattile e gestuale) ci offre perciò l’imprinting originario, il sostrato su cui si innesteranno tutte le lingue in seguito acquisite. I suoi connotati di brusio farfugliante, cantilena, voce-corpo appassionata che detta precocemente la metrica del linguaggio come casa dell’essere (insistendo per essere rimembrata all’occorrenza come ciò che può mutare l’imperativo della legge in un gesto di perdono), appaiono tra le righe di questo mirabile ringraziamento in Sleep: “Pardon in the shape of mother with/ her pale lipstick sticks out/ its tongue at me…And thrice she shifted rule/ into comfort…lisping the three-hatched gum-stuck hole of/ a home: your teats, your mother-/ attitude, your smallest worms, giants/ in the passion.” “Perdono in forma di madre con/ il suo rossetto rosa pallido mi caccia fuori/ la lingua… E tre volte mutò la regola/ in conforto…sondando il campo, farfugliando quel/ buco di casa a tre botole e appiccicato con la/ colla: i tuoi capezzoli, il tuo atteggiamento/ di madre, i tuoi più piccoli vermi, giganti/ nella passione.” (160)

Lingua fantasmatica, però, nel caso della Rosselli, perché la prima parte della sua infanzia fu spesa a Parigi e dunque francese fu il contesto sociale in cui crebbe fino al tragico momento dell’assassinio del padre per mano di sicari fascisti, quando lei aveva sette anni, e all’inizio delle sue peregrinazioni prima in Inghilterra, poi in Nord America e infine in Italia: della sua “fuga di morte” (Todesfuge: Celan) fra le lingue del mondo. Continua a leggere

Carol Ann Duffy, la poesia e la guerra

Carol Ann Duffy

Introduzione
Bernardino Nera e Floriana Marinzuli

Rileggiamo alcune poesie sulla guerra scritte dalla ex Poet Laureate Dame Carol Ann Duffy nel corso della sua carriera artistica dagli esordi nel 1985 ad oggi. Nel contesto di questi componimenti, ovviamente, non sono rinvenibili riferimenti alla più stretta attualità ma ad avvenimenti storici bellici avvenuti nel secolo scorso, come ad esempio: la tregua di Natale nel 1914, rievocata nella poesia The Christmas Truce, che si instaurò liberamente e spontaneamente tra le truppe tedesche, francesi e inglesi in varie zone del fronte occidentale durante la Prima Guerra Mondiale. Anche la poesia The Last Post richiama nei suoi versi questa guerra e la poetessa la rielabora in chiave utopistica, immaginando di poterne esorcizzare gli effetti più efferati e letali ripercorrendo idealmente a ritroso la dinamica reale degli avvenimenti, invece inesorabile e crudele, della storia. Da rilevare nel testo una citazione tratta da una poesia di Wilfred Owen, poeta morto nel 1918 in un’operazione bellica sul fronte occidentale. Nel contesto della poesia Shooting Star, l’io lirico, una donna ebrea, narra la sua orribile esperienza prima di essere stuprata e poi brutalmente giustiziata in un campo di concentramento nazista. Ma è nel testo della poesia The Wound in Time che si può cogliere il lamento accorato della poetessa contro la guerra ed è da evidenziare che tutte le tematiche trattate e gli scenari evocati nelle poesie precedenti anche se diversi si ripropongono sempre uguali a se stessi e si ripetono drammaticamente nel tempo perché l’uomo non impara niente dalla sua storia. Continua a leggere

Jurij Tarnavs’kyj, “La vita in città”

Jurij Tarnavs’kyj

Jurij Tarnavs’kyj
A cura di Lorenzo Pompeo
collaborazione di Alessandro Anil

il poeta ucraino-nordamericano Jurij Tarnavsk’kyj (noto negli Stati Uniti con la traslitterazione Yuriy Tarnawsky) rappresenta una figura chiave nella storia della poesia ucraina novecentesca che, nel corso dei decenni, si è guadagnato un posto di riguardo anche sulla scena letteraria statunitense (a partire dagli anni ‘70 Tarnavsk’kyj scrive e pubblica regolarmente in inglese prosa e poesia).

È nato a Turka nel 1934, piccolo centro nei Carpazi ucraini, attualmente a pochi chilometri dal confine polacco (ma che in quel momento era parte della Polonia). I genitori, entrambi insegnanti, vivevano e lavoravano a Rzeszów (attualmente in Polonia sud- orientale), dove il giovane crebbe in un ambiente bilingue (l’ucraino si parlava in famiglia, il Polacco fuori di casa).

Nel 1944, quando la famiglia era tornata a Turka da quattro anni, Jurij perde la madre per un tumore, il padre, che si era arruolato nell’Esercito insurrezionale ucraino, viene dato per disperso, e il futuro poeta, insieme alla zia, la sorella e il fratello, decidono di fuggire in Germania, dove, nel 1945 si stabilisce nel campo profughi di Neu Ulm.

Nel 1950, Quando viene smantellato il campo, comincia a frequentare un liceo tedesco a Monaco e, dopo essersi diplomato, nel 1952 si imbarca a diciotto anni con il padre (che nel frattempo si era ricongiunto alla famiglia) per New York. Frequenta la Newark School of Engineering nel New Jersey, alternando lo studio al lavoro in un fabbrica di pellami.
Terminati gli studi, fu assunto in qualità di ingegnere elettronico all’IBM, dove lavorò fino al 1992 (con una piccola parentesi tra il 1964 e il 1965 in cui visse in Spagna dedicandosi interamente alla scrittura).

Nel tempo libero si appassiona alla lettura degli esistenzialisti, soprattutto Sartre (che sarà per lui una scoperta decisiva), Camus e Kirkegaard e, attraverso frequenti visite al MOMA, assimila le ultime tendenze dell’arte contemporanea.

A partire dal 1953 comincia a scrivere i primi versi e brevi prose che pubblica su riviste dell’emigrazione ucraina e che gli aprirono le porte della sua silloge di esordio, La vita in città, del 1956.

Da allora rappresentò una delle voci più autorevoli della letteratura ucraina della cosiddetta “diaspora” (ovvero la comunità ucraina all’estero), un termine che vuole sottolineare una completa estraneità ideologico-culturale rispetto all’Ucraina sovietica.

Fu l’animatore del “Gruppo di New York”, una aggregazione di giovani letterati ucraini che erano soliti ritrovarsi al caffè Orchidea, tra la seconda avenue e la nona strada, che discutevano di arte astratta, di poesia senza rima e di esistenzialismo.

Nella leggenda di questo gruppo il momento fondativo viene considerato la serata di poesia del 18 febbraio 1955 presso il “Literaturno-mistec’kyj kljub” (in it. “Club artistico-letterario”) di New York.

L’idea di fondo che animava questi poeti, allora esordienti, era sprovincializzare il mondo letterario ucraino (che nell’Ucraina Sovietica era concepito esclusivamente come una versione “etnografica” del realismo socialista) ricollegandosi alle tendenze artistiche e letterarie delle avanguardie novecentesche.

Fino alla fine degli anni ‘70, quando le polemiche interne e le scelte divergenti segnarono la fine del gruppo, esso costituì un punto di riferimento non solo per la poesia ucraina, ma anche per il dibattito critico sulla letteratura ucraina contemporanea.

A partire dal 1971, successivamente alla pubblicazione della silloge Poeziji pro niščo ta inši poeziji na cju samu temu (in it. “Poesia sul nulla e altre poesie sullo stesso tema”), Tarnavsk’kyj, dopo quasi un ventennio di permanenza negli Stati Uniti (vi era arrivato nel 1952) comincia a scrivere in inglese e nel 1978 pubblica il romanzo Meningitis a cui fa seguito, nel 1992, Three Blondes and Death, entrambi apprezzati dalla critica nordamericana.

A partire dalla silloge This Is How I Get Well, del 1978, scrive e pubblica anche poesie in inglese (spesso autotraduzioni dall’ucraino).

Dopo la dichiarazione d’Indipendenza dell’Ucraina del 1991, il poeta, per la prima volta dopo quasi quaranta anni, poté fare ritorno nel suo paese, dove potevano circolare liberamente ed essere pubblicate le sue opere, tradotte dall’inglese o nella versione ucraina.

Attualmente vive a White Planes, cittadina dello stato di New York.

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Addio a Ugo Piscopo

Ugo Piscopo

Oggi 1° aprile è lutto nel mondo della Cultura.
E’ morto il poeta e critico Ugo Piscopo volto storico di Napoli.

Ugo Piscopo era nato a Pratola Serra, in provincia di Avellino, nel 1934.
Ugo è stato poeta, scrittore di letture moderne comparate, traduttore e da più giovane ha avuto dei trascorsi nel mondo del teatro.

Il ricordo dell’amico Giorgio Moio:

“L’ho sentito una settimana fa e la sua voce non lasciava intendere niente di buono. Tra le poche cose che riuscì a dirmi fu una cosa penosa: era molto dispiaciuto di sentirsi solo, della mancanza di una telefonata di qualche amico. Forse la mia è stata l’ultima o una delle ultime telefonate ricevute da un amico. Proprio ieri ne parlavo con Marisa Papa Ruggiero delle pessime condizioni di salute di Ugo. Che ti accolga un luogo dove poter trascorrere una vita migliore, carissimo amico mio. Riposa in pace. I funerali avverranno domani 2 aprile alle 13, nella chiesa Santa Maria della Libera, in via Belvedere a Napoli.”

(Luigia Sorrentino)

Ricordando Ugo Piscopo
di Giorgio Moio

A Napoli ci sono scrittori e poeti che hanno ricevuto dalla città molto meno di quanto abbiano dato alla crescita della cultura partenopea e non solo partenopea. Uno di questi è stato Ugo Piscopo, saggista, narratore, poeta, nato a Pratola Serra (AV) nel 1934 e deceduto a Napoli (dove viveva sin da giovane) il 1° di aprile 2022, nel giorno del proverbiale “pesce d’aprile”, cioè un giorno di scherzi. Dopo il percorso scolastico, con una laurea in Lettere classiche conseguita alla “Federico II”, discutendo la tesi col prof. Francesco Arnaldi (1957), inizia ad insegnare materie letterarie in scuole secondarie, “vagabondando” tra Napoli, Lacedonia, Ariano Irpino e Tripoli (Libia) dove viene addirittura imprigionato per quattro giorni.

Nel 1967, dopo quattro anni in Libia dove insegna Lingua e Cultura italiana per stranieri c/o Istituto Italiano di Cultura, tenendo anche un corso di conferenze sulla poesia italiana contemporanea, presso il medesimo Istituto, alle dipendenze del Ministero degli affari esteri, fa ritorno in Italia e si stabilisce con la famiglia a Napoli. Continua a leggere

Gli haiku di Stanislav Bel’skij

Stanislav Bel’skij

Stanislav Bel’skij
a cura di Paolo Galvagni

Первомартовские хокку

1

ночная тревога начинается одинаково
будят не сирены (их можно проспать)
а мамины проклятия путину

2

но дальше есть варианты
или молния в куртке разойдётся
или шнурок в застёжке застрянет

3

собираясь в убежище
по привычке пытаюсь
убить в коридоре моль

01.03.2022

Hokku del primo marzo

1

l’allarme notturno inizia nel medesimo modo
svegliano non le sirene (puoi trascurarle)
ma le maledizioni di mamma verso putin

2

ma poi ci sono le opzioni
o la cerniera del giubbotto che si apre
o il laccetto che si impiglia nella fibbia

3

preparandomi ad andare nel rifugio
per abitudine tento
di uccidere le falene nel corridoio

01.03.2022

***

хокку по дороге в убежище

какой мощный прожектор
все выбоины в асфальте видны
нет, это луна, чуть уже старая

 

Hokku sulla strada per il rifugio

che riflettore potente
tutte le buche sull’asfalto si vedono
no, è la luna, appena ormai vecchia

***

Хайку ночного кошмара

1

смерть – ковыляющий сзади прохожий
стоит замешкаться, она догоняет,
вгрызается в рот

2

долго ещё, проснувшись ночью,
отмываешь дёсны с мылом,
пытаясь воспрепятствовать магии войны

 

Haiku dell’incubo notturno

1

La morte è un passante che zoppica dietro
basta indugiare, ti raggiunge,
ti morsica la bocca

2

ancora a lungo, svegliandoti di notte,
ti lavi le gengive col sapone,
tentando di ostacolare la magia della notte Continua a leggere

Clemente Rebora, “Canti anonimi”

A N T E P R I M A   E D I T O R I A L E

A cento anni dai Canti anonimi di Rebora (un libro che è una reazione al dramma della guerra) esce un’edizione commentata con un’anteprima il 6 aprile 2022 a Milano con reading di Patrizia Valduga. L’edizione di Interlinea è curata da Gianni Mussini.

Nel  libro c’è il rapporto tra natura e città, la sua Milano, e soprattutto c’è l’ansia per l’attesa di un futuro migliore, grazie a qualcuno o qualcosa, forse la donna amata o  forse la fede, dopo l’annichilimento e la strage della Grande Guerra («trincee fonde nei cuori – l’età cavernìcola è in noi.»); per questo scrive dei «canti anonimi» perché vuole cercare, nel donarsi anonimo agli altri, una ragione per continuare a vivere, per ripartire, per trovare prima o poi chi «verrà, se resisto / a sbocciare non visto»; l’edizione stampata da Interlinea nel 2022, è a tiratura limitata e andrà in distribuzione il 9 aprile 2022.

Roberto Cicala

L’IMAGINE TESA: L’ATTUALITÀ DI REBORA

PRESENTAZIONE

Mercoledì 6 aprile 2022 Aula Magna, ore 17.00 Largo A. Gemelli, 1 – Milano

Tavola rotonda di presentazione dell’edizione commentata dei Canti anonimi di Clemente Rebora (Interlinea, 2022).

Intervengono
Gianni MUSSINI curatore

Giuseppe LANGELLA
Università Cattolica del Sacro Cuore

Valerio ROSSI
Istituto Sant’Ambrogio, Centro Novarese di Studi Letterari

Coordina
Roberto CICALA
Università Cattolica del Sacro Cuore, Interlinea

Letture di Patrizia Valduga

 

Clemente Rebora ritratto da Michele Cascella negli anni ’20

UN ESTRATTO DAL LIBRO

Campana di Lombardia
di Gianni Mussini

Il paesaggio che si immagina sullo sfondo è sempre quello vasto e mansueto della campagna lombarda, verticalmente punteggiato di campanili. Mentre il discorso riprende con naturalezza dall’ultima strofa di Al tempo che la vita era inesplosa, le cui parole scorrevano in una lenta musicalità capace di assecondare quel senso di profonda comunione con il creato: quasi un “adagio” che man mano si affievoli- va sino alla confessione finale: «è bello il silenzio a te vicino». In questo contesto può ora sciogliersi «la “voce” (anonima e unanime: corale) della campana di Lombardia, ispiratrice di un’arcana, contagiosa fiducia “verso l’alto”» (Ramat 2008, p. 168). Fiducia di «guarir l’intimo pianto», suggerisce Rebora (v. 8) agganciandosi di nuovo all’Inesplo- sa, dove i valori del Carlo contadino erano antidoto alle «tèrree nostre notti». Ma c’è ancora un altro legame tra le due liriche, poiché nella seconda si realizza la particolarizzazione di uno spunto dell’altra: i cui sinestetici «effluvi di campane» (v. 54) si precisano ora in un’immagine più sem- plice e definita, ma non meno evocativa: la campana di Lombardia che, come recita un folgorante commento di Luca Doninelli (1987), «non dà malinconia perché è voce di qualcosa che è qui da sempre». Non si potrebbe spiegare meglio l’intima religiosità di questo testo, coerente con il nuovo clima morale della raccolta. Continua a leggere

La lancia del verso di Sofija Parnok

Sofija Parnok

Sofija Parnok
A cura di Paolo Galvagni

Девочкой маленькой
ты мне предстала неловкою.

Сафо

«Девочкой маленькой ты мне предстала неловкою» –
Ах, одностишья стрелой Сафо пронзила меня!
Ночью задумалась я над курчавой головкою,
Нежностью матери страсть в бешеном сердце сменя, –
«Девочкой маленькой ты мне предстала неловкою».

Вспомнилось, как поцелуй отстранила уловкою,
Вспомнились эти глаза с невероятным зрачком…
В дом мой вступила ты, счастлива мной, как обновкою:
Поясом, пригоршней бус или цветным башмачком,–
«Девочкой маленькой ты мне предстала неловкою».

Но под ударом любви ты — что золото ковкое!
Я наклонилась к лицу, бледному в страстной тени,
Где словно смерть провела снеговою пуховкою…
Благодарю и за то, сладостная, что в те дни
«Девочкой маленькой ты мне предстала неловкою».

Февраль 1915 /?/

Mi apparivi una bimba
piccola e immatura
Saffo (1)

“Mi apparivi una bimba piccola e immatura” – (2)
Ah, Saffo mi ha trafitto con la lancia di un verso!
Di notte ho pensato alla testolina riccioluta,
Sostituendo nel cuore la passione folle con la dolcezza materna, –
“Mi apparivi una bimba piccola e immatura.”

Ho ricordato che hai allontanato un bacio con maestria,
Ho ricordato quegli occhi con la pupilla incredibile…
Sei entrata in casa mia tu, contenta di me, come di una cosa nuova:
Una cintura, una manciata di perline o una scarpetta colorata, –
“ Mi apparivi una bimba piccola e immatura”.

Ma sotto il colpo d’amore sei come oro forgiabile!
Mi sono chinata al volto, pallido nell’ombra appassionata,
Dove la morte pareva passar cipria nevosa…
Ringrazio anche perché tu, dolce, in quei giorni
“Mi apparivi una bimba piccola e immatura”.

Febbraio 1915 /?/

1) Poesia dedicata tanto a Saffo, quanto alla Marina Cvetaeva.
2) Il verso, che Saffo dedica ad Attide, è come un ritornello, che suscita vari ricordi intimi. Continua a leggere

La guerra in Ucraina raccontata ai bambini

La guerra in Ucraina raccontata ai bambini

Una storia scritta da Romana Romanyshyn e Andriy Lesiv. Una coppia nel lavoro (e nella vita), ha creato l’atelier «Agrafka» a Leopoli, in Ucraina, realizzando in pochi anni progetti innovativi acquisiti da case editrici di tutto il mondo.

Jaca Book, pubblicando Forte, piano, in un sussurro, (vincitore del Premio Andersen 2019 per la categoria divulgazione scientifica) e Vedo, non vedo, stravedo (Bologna Ragazzi Award 2018) ha deciso di “adottarli” per portare anche in Italia i loro libri pluripremiati. In particolare Numeri, stelle e mucche di mare, premio «Opera prima» alla Bologna Children’s Book Fair 2014 e La guerra che cambiò Città Tonda, premio «New Horizons» alla stessa manifestazione nel 2015. Per Jaca Book hanno pubblicato anche La casetta degli animali (2018) La mia casa, le mie cose (2019) e In viaggio per il mondo (2021), vincitore dell’Argento del prestigioso «European Design Awards» 2021, nella categoria “Libri e illustrazioni editoriali”. I loro progetti si contraddistinguono per l’uso sapiente di tecniche e stili, uniti a una narrazione che incuriosisce e affascina i lettori.

Intervista di Luigia Sorrentino

Traduzione dall’inglese all’italiano di Giorgia Sensi

The war that changed Rondo.
Romana Romanyshyn and Andriy Lesiv: why did you feel the need to tell children about the war with an illustrated story?

“We had never actually planned to create a picture book for children about war, but reality in our country changed things. It all started with the Revolution of Dignity at the end of 2013, then the annexation of Crimea in March 2014 and Russian invasion in East Ukraine. The war had started. Thousands of victims and broken lives. At that moment we were all unprepared and vulnerable, but determined. Many of our friends were mobilized for military service. We couldn’t stay calm and we had to react in some way. Often, parents don’t know how to explain to their children what war is and why it has come to their homes. We decided to create a picture book which could be the starting point for such a sincere talk between children and their parents about what is going on. It had to be a book like therapy, when you talk about your fears first and then stop being afraid. We also noticed that there is still no children’s book about war which would show our own experience, because every country has its own story of surviving and fighting. Yes, there are many great children’s books about war, but they are about someone else’s experience, they are from a distance, not about how we feel it”.

“La guerra che cambiò Città Tonda”. Romana Romanyshyn e Andriy Lesiv: perché avete sentito il bisogno di raccontare la guerra ai bambini con una storia illustrata?

“Non avevamo mai davvero pensato di creare un libro illustrato per bambini sulla guerra, ma la realtà del nostro paese ha cambiato le cose. Tutto è cominciato con la Revolution of Dignity alla fine del 2013, poi l’annessione della Crimea nel marzo 2014 e l’invasione russa dell’Ucraina orientale. Era cominciata la guerra. Migliaia di vittime e vite spezzate. In quel momento eravamo tutti impreparati e vulnerabili, ma determinati. Molti dei nostri amici furono richiamati per il servizio militare. Non potevamo restare fermi, dovevamo reagire in qualche modo. Spesso i genitori non sanno spiegare ai figli cos’è la guerra, e perché è entrata nelle loro case. Decidemmo di creare un libro illustrato che costituisse il punto di partenza per un discorso franco tra genitori e figli su ciò che stava succedendo. Doveva essere un libro-terapia, dove prima parli delle tue paure e poi smetti di avere paura. Notammo anche che non c’è un libro sulla guerra per bambini che mostrasse la nostra esperienza, perché ogni paese ha la sua storia di lotta e di sopravvivenza. Sì, ci sono molti grandi libri per bambini sulla guerra, ma raccontano l’esperienza di qualcun altro, sono distanti, non parlano di come stiamo noi”.

When was the book published in Ukraine and what kind of diffusion did it have among Ukrainian children?

“Luckily we have a great common understanding with our Ukrainian publisher Old Lion and they totally supported us with the idea to publish a picture book about war. So the book was first published at the end of 2014. It had few additional editions during these years. We received tons of reviews, letters, drawings from children and their parents”.

Quando è stato pubblicato il libro in Ucraina e che diffusione ha avuto tra i bambini ucraini?

“Per fortuna abbiamo una grande sintonia con il nostro editore ucraino Old Lion, che ha sostenuto pienamente la nostra idea di pubblicare un libro illustrato sulla guerra. Così il libro uscì per la prima volta alla fine del 2014. E in questi anni ha avuto diverse ristampe. Abbiamo ricevuto tonnellate di recensioni, lettere, disegni dai bambini e dai loro genitori”.

Why did you decide to tell the children the story of Danko, Fabian, Zirka?

“The base of every story is a character. We had to make our characters not artificial, but very authentic. We created characters which embody the feeling of every Ukrainian. We all felt very fragile and vulnerable, but strong and unbreakable. That’s why characters in our story are made with fragile materials, easy to destroy – glass, paper, balloon. But despite their fragility they fight, resist and protect their home”.

Perché avete deciso di raccontare ai bambini la storia di Danco, Fabian, Zirka?

“Alla base di ogni racconto c’è un personaggio. I nostri personaggi li dovevamo rendere davvero autentici, non artificiali. Abbiamo creato personaggi che incarnano il sentimento di ogni ucraino. Ci sentivamo tutti molto fragili e vulnerabili, ma forti e indistruttibili. Ecco perché i personaggi della nostra storia sono fatti di materiali fragili, facili da distruggere – vetro, carta, palloncini. Ma nonostante la fragilità, loro combattono, resistono e difendono le loro case”.

In your story there are sentences like: “the war is coming to our city”, “The war spares no one”, “The war has no heart”. Were these the stories you heard from your grandparents when you were children?

“Yes, of course we heard a lot of terrifying stories about war from our grandparents. And so many stories they did not want to share with us. Our grandparents spent 12 years in Gulag repressed by Stalin’s regime. They really hoped that our generation would not suffer from russians anymore. But we see that now the grandchildren of our grandparent’s enslavers are trying to kill us. And it’s a really unbelievable fact that in the 21th century, the time of technological progress, when we all have free access to information, Russia is still acting like 100 years ago, they still want to destroy and enslave, they still live in a dark past. And we fight for the future”.

Nella vostra storia ci sono frasi come: “la guerra sta arrivando in città”, “la guerra non risparmia nessuno”, “la guerra è senza cuore”. Queste frasi le sentivate dai vostri nonni quando eravate bambini?

“Sì, naturalmente abbiamo ascoltato tante storie terrificanti sulla guerra dai nostri nonni. E molte non le volevano condividere con noi. I nostri nonni hanno passato 12 anni in un Gulag durante il regime di Stalin. Speravano sinceramente che la nostra generazione non avrebbe più sofferto a causa dei russi. Ma ora vediamo che i nipoti di chi ha schiavizzato i nostri nonni stanno cercando di ucciderci. Ed è davvero incredibile che nel XXI secolo, il secolo del progresso tecnologico, quando tutti abbiamo accesso alle informazioni, la Russia si stia comportando come 100 anni fa: vogliono distruggere e schiavizzare, vivono ancora in un passato oscuro. E noi combattiamo per il futuro”.

The three protagonists manage to defeat the war by building a machine for the light and this machine scares the War. If we were to rewrite this tale today, what should we add? Which words?

“We’re not sure we should rewrite the story. The machine for creating the light is a symbol of unity, where everyone turns a small wheel so the machine works, symbol of organized resistance and coordination. Today it is a symbol of unity of the world, when many countries join their efforts to stop the aggression. Everybody is trying to help.
To get through these dark times, full of fear, anger and loss, we all need a ray of light, of hope. We can not hide a horrific truth from children anymore. The reality is much more horrible than any book. But we can’t stop telling and reading stories, even hiding in bomb shelters, even flleeing from our attacked homes. In our story we highlighted the strongest advantages of Ukrainian people – courage and unity”.

I tre protagonisti riescono a vincere la guerra costruendo una macchina per la luce, e la macchina spaventa la Guerra. Se riscrivessimo questa storia oggi, cosa dovremmo aggiungere? Quali parole?

“Non siamo sicuri sulla necessità di riscrivere la storia. La macchina per creare luce è un simbolo di unità, dove ciascuno gira una piccola manovella per far funzionare la macchina, simbolo di resistenza organizzata e coordinazione. Oggi è il simbolo dell’unità del mondo, quando molti paesi uniscono i loro sforzi per fermare l’aggressione. Tutti cercano di aiutare.

Per superare questi tempi bui, pieni di paura, di rabbia e di lutto, abbiamo tutti bisogno di un raggio di luce, di speranza. Non possiamo più nascondere ai bambini una verità orribile. La realtà è molto più tremenda di qualsiasi libro. Ma non possiamo smettere di raccontare e leggere storie, perfino nascosti in un rifugio antiaereo, perfino in fuga dalle nostre case colpite. Nel nostro racconto abbiamo messo in evidenza i più forti meriti del popolo ucraino – il coraggio e l’unità”.

Unfortunately, after a war, not everything can go back to the way it was before … that’s why “Danko still has a web of cracks near his heart, while the tips of Zirka’s wings have remained a little burned and Fabian limps with the leg that he had pointed with the thorns “?
What’s the moral? What do children need to understand?

This war changes everyone of us. We will miss so many people we lost. We will miss our homes, streets and cities. We will rebuild everything with time, but it will never be the same. Many of us will be scared of loud sounds. Many will have scars, on their bodies and on their souls. And we will appreciate the simple things, which we didn’t notice before. And there is no doubt that we will be happy again.

Sfortunatamente, dopo una guerra, non tutto ritorna come prima… ecco perché “Danko ha una raggiera di incrinature vicino al cuore, mentre le punte delle ali di di Zirka sono ancora bruciacchiate e Fabian zoppica con la gamba ferita dagli spini”?
Qual è la morale? Cosa devono capire i bambini?

“Questa guerra ci cambia tutti. Ci mancheranno tante persone che abbiamo perduto. Ci mancherà la nostra casa, le strade e le città. Col tempo ricostruiremo tutto, ma non sarà mai la stessa cosa. Molti di noi avranno paura dei rumori forti. Molti avranno cicatrici, sul corpo e sull’anima. E apprezzeremo le cose semplici, a cui prima non facevamo attenzione. Non c’è dubbio che torneremo a essere felici”.

The poppy has become an international symbol to commemorate the victims of the war.
A fairy tale so that Ukrainian children know and remember the tragic experiences of their homeland, so as not to be overwhelmed, to leave the way open for a new existence. Is this the meaning of your work on children?

“Yes, definitely.
This war makes terrible statistics. During these four weeks of invasion Russians killed 135 Ukrainian children, many got injured. More than 50% of Ukrainian children according to Unisef have become refugees since 24. February 2022. 1,8 millions children moved abroad seeking shelter, 2,5 millions of children moved from their houses ro other regions of Ukraine. So we all, children and adults must remember how strongly we love our home, our family, how strongly connected we are with each other, how we suffered, how we cried, how we fought and how we won, how we were hurt and how we healed. We have to work with our memory, to remember who we are.”

Il papavero è diventato un simbolo internazionale per commemorare le vittime di guerra.
Una favola per far sì che i bambini ucraini sappiano e ricordino le tragiche esperienze della loro patria, per non essere sopraffatti, per lasciare aperta la strada a una nuova esistenza. È questo il significato del vostro lavoro coi bambini?

“Sì, assolutamente. Le statistiche su questa questa guerra sono terribili. Durante queste quattro settimane di invasione i russi hanno ucciso 135 bambini ucraini, e molti sono i feriti. Più del 50% dei bambini ucraini secondo l’Unicef sono diventati rifugiati dal giorno 24 febbraio 2022. 1,8 milioni di bambini hanno cercato rifugio all’estero, 2,5 milioni si sono trasferiti dalle loro case ad altre regioni dell’Ucraina. Quindi tutti noi, bambini e adulti, dobbiamo ricordare quanto forte è il nostro amore per la nostra casa, la nostra famiglia, quanto forte è il legame che ci lega gli uni agli altri, quanto abbiamo sofferto, quanto abbiamo pianto, quanto abbiamo combattuto e infine vinto. Come siamo stati feriti e siamo guariti. Dobbiamo lavorare con la memoria, per ricordare chi siamo”. Continua a leggere

Yury Zavadsky, “giorni senza radici”

Yury Zavadsky

Yury Zavadsky
Nella traduzione di Paolo Ruffilli

КОМУНІКАЦІЯ

Дивуюся, наскільки залежні мої почуття від кров’яного тиску.
Електрика в тілі не дає всидіти на місці.
Все ж таки примушую себе не рухатися.
Пальці нервово бігають клавіатурою.
Тоді нерівномірні тексти перетворюються на химери.
Ходять за мною твої есемески, крок в крок.
I мовчати не хочу, та й сказати тобi нема що.
День втрачено, і жодна таблетка не зможе його повернути.
Залишається після нього тільки неприємна втома.
Ніч, і тривожний сон, який неможливо запам’ятати.
Мені здається, що я щасливий,
відчуваючи твою теплу близькість
і твої пальці поблизу.
О, cі дні безпідставні, як і мої вірші,
напоюють мене алкоголем.
Цiлий день сьогоднi — ранок.
Холодна мряка, краплi висять у повiтрi.
Порожнiй осiннiй простiр.
Мені здається, що я щасливий поряд з тобою,
бо ніколи ще не почувався так впевнено і спокійно.
Я вагаюся, чи насправді все так добре,
але коли cі дні проминуть, думаю, буду згадувати їх
як найкращі.
— Закрий очi й розслабся, вiдчуваєш?
— У нас осiнь з меланхолiєю.
— Це в мене тимчасова криза…

COMUNICAZIONE

Sorprendente come i sentimenti dipendano
dalla pressione del sangue. L’elettricità nel mio corpo
mi impedisce di starmene fermo. Mi costringo.
Nervosamente le dita scorrono sulla tastiera.
I versi liberi si mutano in sogni ad occhi aperti.
I tuoi SMS mi accompagnano i passi. E non è che
non voglio parlare, non ho niente da dirti.
Il giorno è già perso, non c’è pillola a riportarcelo indietro.
Rimane a fine giornata il fastidio della stanchezza.
La notte col suo sogno inquietante non si può ricordare.
Sembro felice a sentire il calore della tua vicinanza
e le tue dita poi su di me. Ah, questi giorni senza radici
come i miei versi non fanno che riempirmi di alcol.
Oggi, poi, il giorno intero resta mattina.
Una nebbia fredda, le sue gocce sospese nell’aria.
Lo spazio vuoto d’autunno. Mi sembra di essere
felice accanto a te. Mai mi sono sentito tanto
calmo e sicuro. Esito, però, se tutto sta andando
così bene, e quando questi giorni saranno passati,
me li ricorderò come i migliori.
– Chiudi gli occhi e rilassati, non senti?
– È autunno: ci cala addosso la malinconia.
– Sono io, con questa mia crisi temporanea.

(Traduzione di Paolo Ruffilli) Continua a leggere

Olga Bragina, “Ci dicevano che non ci sarebbe più stata la guerra”

Olga Bragina

Olga Bragina

Nella traduzione di Emilia Mirazchiyska e Valentina Meloni

 

мы живем в спальном районе в который пришла война

в спальном районе из которого никогда не удавалось вовремя приехать никуда вечные пробки потом его обустроили хипстерские магазины кофейни парки киностудия FILM.UA а потом к нам пришла война

войну мы знали по концертам возле арки Дружбы народов по фильмам девятого мая мама говорила ее скоро забудут забыли ведь войну 1812 года мама говорит был тост за мирное небо над головой а потом уже стали говорить что за банальщина сколько можно

сколько можно произносить этот тост мирное небо мы живем в спальном районе в который пришла война да мы и не спим совсем есть не можем тошнит при каждом глотке сейчас думаю в какой уникальной ситуации мы находимся Одоевцева в такой ситуации написала “Балладу о толченом стекле” а мы пишем то что видим сейчас в онлайне горящие дома диверсантов переодетых которых взяли в плен история происходит здесь и сейчас

Ольга Брагина

 

viviamo in una zona residenziale dove è arrivata la guerra

in una zona residenziale dove non è mai stato possibile arrivare puntuali da nessuna parte dove ci sono ingorghi eterni poi hanno costruito negozi ipermercati caffetterie parchi lo studio cinematografico FILM UA e poi è arrivata la guerra

conoscevamo la guerra dai concerti vicino all’Arco dell’Amicizia dei Popoli dai film sul 9 maggio

la mamma diceva che presto la guerra sarebbe stata dimenticata come avevano dimenticato la guerra del 1812 la mamma racconta che ci fu un brindisi al cielo pacifico sopra le teste delle persone e poi hanno cominciato a dire quanto fosse banale tutto questo

per quanto tempo puoi pronunciare questo brindisi al cielo sereno viviamo in una zona residenziale dove è arrivata la guerra sì non dormiamo affatto non possiamo mangiare affatto, abbiamo voglia di vomitare a ogni sorso ora penso alla situazione unica in cui ci troviamo la stessa in cui si trovava Odoevtseva quando scrisse ‘’Ballata di vetro frantumato” e scriviamo quello che vediamo ora online le case in fiamme sabotatori travestiti che sono stati fatti prigionieri la storia sta accadendo qui e ora

Olga Bragina

 

нам говорили пусть никогда больше не будет войны
на праздничных концертах пели о празднике со слезами на глазах,
мы думали, что война осталась в прошлом,
как черно-белая кинохроника или подборка советских фильмов
мы думали – война не имеет к нам отношения, радовались салюту,
который теперь отменен, больше мы не считаем залпы,
понимаем, что война не заканчивается никогда,
как в учебнике философии после фамилии Гоббса
понимаем, что война есть, а победы нет, те, кто видел войну,
не хотят говорить об этом, но дети играют в войну
(в нашем детстве было так, у меня было два пистолета –
один водяной, другой – с пластмассовыми пулями,
еще делали трубочки из бузины, потом появились приставки Dendy)
война есть, а победы нет и не будет
ни за кем она не останется, смотри в зеркало и знай, что мир – это война
нам говорили никогда не быть миру на этой земле
мир лежит во зле, нужно искать другую, пробовать разные варианты
мы ходили на праздничные концерты под аркой Дружбы народов
думали, что история закончилась, а это был только пролог
история принадлежит тебе, пока ты читаешь
потом не принадлежит ни одной из сторон

 

ci dicevano che non ci sarebbe mai più stata la guerra
ai concerti delle vacanze cantavano la fine della guerra con le lacrime agli occhi,
pensavamo che la guerra fosse una cosa del passato,
come un cinegiornale in bianco e nero o una selezione di film sovietici
pensavamo che la guerra non avesse nulla a che fare con noi, abbiamo gioito del saluto
che ora è cancellato, oramai non contiamo più le file di fuoco,
abbiamo capito che la guerra non finisce mai,
come nel libro di testo di filosofia di Hobbes
capiamo che c’è la guerra, ma non c’è vittoria, chi ha visto la guerra,
non ne vuole parlare, ma i bambini giocano alla guerra
(nella nostra infanzia era così, io avevo due pistole –
una ad acqua, l’altra con proiettili di plastica,
realizzavamo anche flauti di sambuco, poi sono apparse le console Dendy)
c’è una guerra, ma non c’è vittoria e non ci sarà vittoria
la vittoria non apparterrà a nessuno, ci si guarderà allo specchio e si saprà che la pace è la guerra
ci dicevano che non ci sarà mai pace su questa terra
il mondo giace nel male, devi cercarne un altro, provare diverse opzioni
siamo andati ai concerti festivi sotto l’arco dell’Amicizia dei Popoli
pensavamo che la storia fosse finita, ma era solo un prologo
la storia ti appartiene mentre continui a leggere
quindi non appartiene a nessuna delle due parti

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Ritratti di Poesia 2022

Dopo la sospensione causata dalla pandemia, torna a Roma l’8 aprile 2022Ritratti di Poesia” con un vasto programma di incontri con poeti italiani e internazionali.

La rassegna di poesia a cura di Vincenzo Mascolo, si terrà all’Auditorium di Via della Conciliazione, 4 a partire dalle ore 9:30.

Arrivano in Italia dalla Scozia la poeta Kate Clanchy con l’afghana Shukria Rezaei per un incontro a cura di Giorgia Sensi. Dalla Francia, Sylvie Fabre presentata da Fabio Scotto. Riceve il Premio Internazionale Fondazione Roma-Ritratti di Poesia Titos Patrikios, uno dei maggiori poeti greci. Giorgia Sensi cura anche l’incontro con il poeta Ilya Kaminsky di origine Ucraina. Dalla Bielorussia Valzhyna Mort, dagli Stati Uniti Ishion Hutchynson, dalla Spagna José Carlos Rosales, dalla Palestina Najwan Darwish e dalla Germania Susanne Stephan.

Riceve il Premio Fondazione Roma-Ritratti di Poesia Maurizio Cucchi. Continua a leggere

Osip Mandel’štam, “Epigramma a Stalin”

Osip Mandel’štam

Osip Mandel’štam
di Luigia Sorrentino

La poesia di Osip Mandel’štamViviamo senza sentire il paese sotto di noi” è stata spesso definita l'”Epigramma a Stalin“.  E’ una poesia scritta da Mandel’štam nel novembre 1933 – poi inclusa nelle poesie di Mosca – e subito dopo l’ aver assistito alla terribile carestia della Crimea. La poesia servì come principale materiale d’accusa del “caso” Mandel’štam dopo il suo arresto nella notte tra il 13 e il 14 maggio 1934. Il poeta non nascose la paternità del testo e dopo essere stato arrestato si preparò a essere fucilato.

La difesa di Bukharin però ammorbidì la sentenza: Osip Mandel’štam fu deportato a Cherdyn nella Russia Nord orientale e poi a Voronezh. Dopo la fine del suo esilio, gli fu proibito di vivere a Mosca. Nella notte tra l’1 e il 2 maggio 1938, Mandel’štam fu arrestato una seconda volta e mandato in un campo nell’Estremo Oriente. Osip Mandel’štam morì il 27 dicembre 1938 di tifo nel campo di transito di Vladperpunkt (Vladivostok). Il corpo di Mandelstam rimase insepolto fino alla primavera, insieme agli altri morti. Poi fu sepolto in una fossa comune.

L’epigramma dedicato al “montanaro del Cremlino” Stalin nell’originale e una traduzione in italiano. L’attualità di questa poesia è indiscutibile e ci insegna molto, ancora oggi.

Мы живем, под собою не чуя страны

Мы живем, под собою не чуя страны,
Наши речи за десять шагов не слышны,
А где хватит на полразговорца,
Там припомнят кремлевского горца.
Его толстые пальцы, как черви, жирны,
И слова, как пудовые гири, верны,
Тараканьи смеются глазища
И сияют его голенища.

А вокруг него сброд тонкошеих вождей,
Он играет услугами полулюдей.
Кто свистит, кто мяучит, кто хнычет,
Он один лишь бабачит и тычет.
Как подкову, дарит за указом указ –
Кому в пах, кому в лоб, кому в бровь, кому в глаз.
Что ни казнь у него – то малина
И широкая грудь осетина.

Ноябрь 1933
Осип Мандельштам (1891-1938)

Viviamo senza sentire sotto di noi il paese

Viviamo senza sentire sotto di noi il paese
a dieci passi le nostre voci sono già belle e sperse
e dovunque ci sia spazio per quattro chiacchiere
si dà una mezza conversazioncina
là ti ricordano il montanaro del Cremlino
le sue tozze dita come vermi grassi
come pesi di ghisa le sue parole esatte
se la ridono gli occhioni di blatta
e rilucono i gambali dei suoi stivali.

Attorno una masnada di gerarchi dal collo fino
i favori di mezzi uomini sono il suo trastullo
chi fischia, chi miagola, chi frigna
lui solo spauracchio e picchia
un decreto dopo l’altro elargisce come ferro di cavallo
a chi nell’inguine, a chi in fronte, a chi nell’occhio
o al sopracciglio
è una pacchia ogni esitazione che decreta
e un largo petto di osseta.

(novembre 1933) Continua a leggere

Paul Celan, “È tempo”

Paul Celan, foto del passaporto

CORONA
di Paul Celan
di Luigia Sorrentino

La poesia che vi proponiamo oggi Corona è di Paul Celan (1920-1970) uno dei maggiori poeti di lingua tedesca nato a Czernowitz, nella Bucovina, oggi Ucraina, da genitori ebrei.

Corona è una poesia che agisce sul significato musicale del termine. Lo stesso utilizzo musicale Celan lo adotta in altre poesie, ad esempio “Fuga di morte”, che si riferisce a un tempo musicale, alla forma musicale polifonica della fuga.

Ma mentre in Corona – suggerisce Luigi Reitani – “il tempo della poesia di Celan equivale a una fermata, a una sospensione del tempo – nel linguaggio musicale la corona è un segno grafico (un puntino dentro un semicerchio) che sovrapposto a una nota ne prolunga indefinitamente la durata” -,  in Fuga di morte il tempo musicale diventa quello della fuga: un tempo veloce, rapidissimo.

Corona, inoltre, oltre ad essere un simbolo regale, è anche la corona del fiore, la corona formata dai petali rossi del papavero (simbologia ricorrente nella poesia di Celan) simbolo di oblio e di memoria.

“E’ tempo che sia tempo” scrive Celan in questa memorabile poesia, “è tempo che la pietra accetti di fiorire”. Questo scrive Celan. E’ tempo che si fermino le guerre, i conflitti. È tempo che l’aridità, la violenza del potere, si trasformino in amore, nel più puro sentimento della vita. “E’ tempo”. Scrive Celan.

“Corona” di Paul Celan viene qui proposta in due diverse traduzioni dal tedesco: quella di Giuseppe Bevilacqua e quella di Luigi Reitani, purtroppo recentemente scomparso.

 

CORONA

Aus der Hand frißt der Herbst mir sein Blatt: wir sind Freunde.
Wir schälen die Zeit aus den Nüssen und lehren sie gehn:
die Zeit kehrt zurück in die Schale.

Im Spiegel ist Sonntag,
im Traum wird geschlafen,
der Mund redet wahr.

Mein Aug steigt hinab zum Geschlecht der Geliebten:
wir sehen uns an,
wir sagen uns Dunkles,
wir lieben einander wie Mohn und Gedächtnis,
wir schlafen wie Wein in den Muscheln,
wie das Meer im Blutstrahl des Mondes.

Wir stehen umschlungen im Fenster, sie sehen uns zu von der Straße:
es ist Zeit, daß man weiß!
Es ist Zeit, daß der Stein sich zu blühen bequemt,
daß der Unrast ein Herz schlägt.
Es ist Zeit, daß es Zeit wird.

Es ist Zeit.

Paul Celan: “Mohn und Gedächtnis” , Deutsche Verlags–Anstalt GmbH, Stuttgart, 1952

CORONA

L’autunno mi bruca dalla mano la sua foglia: siamo amici.
Noi sgusciamo il tempo dalle noci e gli apprendiamo a camminare:
lui ritorna nel guscio.

Nello specchio è domenica,
nel sogno si dorme,
la bocca fa profezia.

Il mio occhio scende al sesso dell’amata:
noi ci guardiamo,
noi ci diciamo cose oscure,
noi ci amiamo come papavero e memoria,
noi dormiamo come vino nelle conchiglie,
come il mare nel raggio sanguigno della luna.

Noi stiamo allacciati alla finestra, dalla strada ci guardano:
è tempo che si sappia!
È tempo che la pietra accetti di fiorire,
che l’affanno abbia un cuore che batte.
È tempo che sia tempo.

È tempo.

Traduzione di Giuseppe Bevilacqua

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Natalka Bilotserkivets, “È ora di fare le valigie e partire”

Natalka Bilotserkivets

Natalka Bilotserkivets
Nella traduzione di Paolo Ruffilli

ТРОЯНДА

Пора валізу скласти і піти.
Хтозна, що брати – так, аби нести
було неважко; та однак знайти
одразу все, що потребуєш ти.

Зо дві-три щітки, мило і рушник.
Білизну чисту, щоб у певну мить,
коли коханець прийме або ж Бог,
в білизні чистій бути для обох.

В забутім закутку троянда в бур’яні
у райській пущі стрінеться мені.
Як образ Блейка, містика тонка, –
троянда, котра любить черв’яка.

Йому віддавши лоно чарівне,
вона тремтить і уника мене,
і вся поезія – лиш сором і нудьга,
нещасна квітка, люба, дорога…

ROSA

È ora di fare le valigie e di partire.
Non sai cosa prendere, qualcosa di facile
da portare, tutto ciò di cui potresti aver bisogno,
da trovare all’istante.

Due o tre spazzole, sapone e un asciugamano.
Biancheria intima pulita, se per caso il tuo amante
ti deve incontrare – o Dio, in ogni caso
dovresti avere biancheria pulita.

In un luogo appartato, tra le erbacce
di una fitta foresta celeste, incontrerò una rosa.
Come il simbolo del delicato misticismo di Blake –
la rosa che ama il verme.

Dopo averlo fatto entrare nel suo grembo seducente,
lei trema, nascosta, per evitare il mio sguardo,
e tutta la poesia: una vergogna, una noia,
oh, povero fiore, adorabile, caro fiore. . .

(1999)

(Traduzione di Paolo Ruffilli) Continua a leggere

“Non so se queste mie parole servano a qualcuno”

Alla Gorbunova

ALLA GORBUNOVA
Nella traduzione di Paolo Galvagni

Меня спросили, что я думаю и чувствую по поводу военных действий, которые 24 февраля моя страна начала на территории другого государства – Украины. Я не знаю, нужны ли кому-то эти мои слова. Пусть сначала будет остановлено кровопролитие в Украине, остановлена происходящая прямо сейчас катастрофа, и потом уже можно будет что-то говорить.

Мне сказали, что для моих коллег – поэтов и писателей, а также читателей и издателей в разных странах, будет важно услышать, что я сейчас чувствую и как вижу всю эту ситуацию. Я боюсь, что это – этическая ловушка. Все слова, которые я сейчас могу произнести, – не способны остановить происходящее, не способны отмотать время назад и не допустить его. И, находясь в России, пытаясь что-то сказать отсюда сейчас, я понимаю, что какие бы искренние чувства ни вкладывала в свой текст, с ним всё равно будет что-то не то, просто из-за самой позиции говорящего. Тем не менее, в ответ на вашу просьбу я попробую рассказать о том, как я и люди вокруг меня переживают происходящее. Иногда бывает, что кособокие, запинающиеся и недостаточно точные слова – всё же лучше, чем молчание.

24 февраля многие мои соотечественники в социальных сетях написали, что это самое страшное утро в их жизни. Знакомые говорили мне, что никогда в жизни не испытывали такого стыда. У меня было другое доминирующее, всепоглощающее чувство – скорбь. Глубочайшая скорбь, в которой нет ни слёз, ни страха, потому что и слёзы, и гнев, и даже страх сделали бы её легче. Чудовищная непоправимость, чувство, что была перейдена точка невозврата, черта, за которой открываются врата в бездну. Я шла по улице и видела людей, молодых, весёлых, смеющихся, ещё не понимающих, что происходит, что уже произошло. И в какой-то миг мне показалось, что вся эта «обычная» жизнь после того, что случилось – это вроде как, когда человека уже казнили, отрубили голову, и эта отрубленная голова ещё короткое время живёт, не понимает, что с ней.

Есть люди, которые стараются жить по-прежнему, у которых срабатывают какие-то свои защитные экраны, но многие люди в России переживают происходящее как не имеющую аналогов катастрофу. Наше общество сейчас расколото, как никогда. Среди тех, кто поддерживает действия властей, много людей, не имеющих иммунитета к государственной пропаганде, людей, которым присуще онтологическое доверие к власти, иерархии. Среди людей, выступающих против военных действий, – как мне это видится, бОльшая часть творческой интеллигенции, молодые люди, студенты. Но все эти группы в себе не однородны. Российское общество сейчас – это не некое единое целое, которое поддерживает военные действия в Украине. На мой взгляд, это сильно запутавшееся в самом себе, раздробленное, расколотое как никогда общество, отнюдь не укладывающееся в те шаблоны, которые оно само же к себе применяет, начиная делить своих граждан на «зомбированных официальной пропагандой» с одной стороны и «проплаченных предателей» с другой. И, к сожалению, сейчас это общество с очень высоким градусом взаимной ненависти.

Для многих людей события последних недель выглядят чудовищными, необъяснимыми, иррациональными. Я же уже много лет чувствую, что то, что называлось «нормальной жизнью», с которой вдруг что-то случилось, уже давно существовало за счёт того, что очень на многое приходилось закрывать глаза. И очень многие, на первый взгляд, не имеющие отношения друг к другу вещи, я вижу как единую цепь насилия и боли, связывающую всех нас. И я надеюсь, что однажды настанет момент увидеть всю эту связывающую нас цепь насилия и боли как одно целое. Но сейчас я больше всего жду прекращения огня в Украине.

Я всегда любила свою Родину и воспринимала свои стихи и как часть русской поэтической традиции, и одновременно как часть мировой поэзии. Я не знаю, что будет со всеми нами. Многие мои знакомые уехали, буквально за один день. Я не мыслю своей жизни вне России, и буду стараться делать лучшее, что я смогу, в новых условиях. Я желаю Блага моей стране и никогда не отрекусь от того бесконечно многого, что связывает меня с ней. Но я понимаю, что есть вещи, которые нельзя оправдать. И то, что произошло за последние несколько недель – уже очертило горизонты для работы скорби и осмысления на многие годы и десятилетия. Работы, к которой никто не сможет даже приступить, пока падают бомбы.

У нас сейчас солнечные мартовские дни. Такое же солнце и тающий снег в разрушенном Харькове. Оттуда мне пишет замечательный русскоязычный поэт, который пару месяцев назад отправил мне свой архив на сохранение на случай войны между нашими государствами, и его слова – поверх всех барьеров – согревают моё сердце.

Моя близкая подруга, очень дорогой и родной для меня человек, отсюда, из России, – психоаналитик, и у неё есть сейчас анализанты в Украине, они проводят сессии онлайн, звонят ей прямо из зоны боевых действий, чтобы получить экстренную психологическую помощь. Слышала я и про обратную ситуацию: что аналитик одной моей российской знакомой находится в Украине, и оттуда, чуть не из бомбоубежища, проводил с ней сессию.

ГОСПОДИ, ПУСТЬ ЭТО БЕЗУМИЕ СКОРЕЕ ЗАКОНЧИТСЯ!
И ПУСТЬ ВСЕ, КТО СТРАДАЮТ, ОБРЕТУТ ПОМОЩЬ!

 

ALLA GORBUNOVA
Nella traduzione di Paolo Galvagni

 

Mi hanno chiesto che cosa penso e sento a proposito delle operazioni militari, che il mio paese ha intrapreso il 24 febbraio nel territorio di un altro Stato – l’Ucraina. Non so se queste mie parole servano a qualcuno. Venga dapprima fermato lo spargimento di sangue in Ucraina, venga fermata la catastrofe che accade proprio ora, e poi si potrà dire qualcosa.

Mi hanno detto che per i miei colleghi – poeti e scrittori, ma anche lettori ed editori in vari paesi – sarà importante sentire che cosa scrivo e come vedo tutta questa situazione. Temo che sia un tranello etico. Tutte le parole che ora posso pronunciare non riescono a fermare quanto accade, non riescono a riavvolgere il tempo e a non farlo accadere. E, trovandomi in Russia, tentando di dire qualcosa da qui ora, capisco che qualunque sentimento sincero io possa inserire nel mio testo, comunque esso non sarà quello giusto, semplicemente per la posizione di chi parla. Tuttavia, in risposta alla vostra richiesta, tenterò di raccontare come io e le persone attorno a me vivono quanto accade. Talvolta capita che parole storte, vacillanti e non sufficientemente esatte siano comunque meglio del silenzio.

Il 24 febbraio molti miei connazionali sui social hanno scritto che era la mattina più spaventosa nella loro vita. Alcuni conoscenti mi hanno detto che mai nella vita avevano provato una tale vergogna. Io avevo un’altra sensazione dominante, travolgente – l’afflizione. Un’afflizione profondissima, in cui non c’era né una lacrima, né la paura, perché le lacrime, la rabbia e perfino la paura l’avrebbero resa più leggera. Una mostruosa incorreggibilità, la sensazione che sia stato varcato il punto di non ritorno, la linea oltre la quale si apre la porta dell’abisso. Camminavo per strada e vedevo persone giovani, allegre, ridevano, ancora non capivano quello che accadeva, quello che era già accaduto. E in un certo momento mi è sembrato che tutta quella vita “usuale” dopo quello che era accaduto – fosse come quando una persona è già stata giustiziata, e la testa già tagliata, ma quella testa tagliata vive per un po’, non capisce ciò che le accade.

Ci sono persone che tentano di vivere come prima, nelle quali funzionano schermi difensivi propri, ma molte persone in Russia vivono quanto accade come una catastrofe priva di analogie. La nostra società ora è spaccata, come non mai. Tra quelli che appoggiano le azioni delle autorità, ci sono molti, privi dell’immunità dalla propaganda statale, gente a cui è propria la fiducia ontologica verso il potere, verso la gerarchia. Tra quanti si oppongono alle azioni militari – come mi sembra – c’è la maggior parte dell’intellighenzia creativa, i giovani, gli studenti. Ma tutti questi gruppi non sono omogenei. La società russa ora non è un tutt’uno che appoggia le azioni militari in Ucraina. A mio avviso, è una società fortemente smarrita in se stessa, frazionata, spaccata come non mai, che non si rifugia in quegli schemi, che essa accetta per se stessa, cominciando a dividere i propri cittadini in “plagiati dalla propaganda ufficiale” da una parte, e “traditori pagati” dall’altra. E, purtroppo, ora è una società con un alto grado di odio reciproco.

Per molti gli avvenimenti delle ultime settimane appaiono mostruosi, inspiegabili, irrazionali. Già da molti anni percepisco che ciò che si chiamava “vita normale”, a cui d’improvviso è successo qualcosa, da tempo esisteva a discapito del fatto che bisognava chiudere gli occhi su tante cose. E moltissime cose, che a un primo sguardo non hanno nessun rapporto l’una con l’altra, mi paiono come un’unica catena di violenza e di dolore, che lega tutti noi. E spero che un giorno arriverà il momento di vedere tutta questa catena di violenza e dolore, che ci lega, come un tutt’uno. Ma ora più di tutto attendo l’interruzione del fuoco in Ucraina. Continua a leggere

Andrey Serdyuk, “cade la pioggia fuori dalla finestra”

Andrey Serdyuk

Vi proponiamo oggi una poesia scritta in russo da Andrey Serdyuk, nato nel sud dell’ Ucraina che vive a Mariupol. Il testo è tra quelli nati sull’emozione della guerra che lo vede coinvolto nella sua terra.

 

 

В голове чёрно-белая муть,
За окном осыпается дождь.
Мне бы землю обнять и уснуть,
Только ты мне уйти не даёшь.

В голове чёрно-белая муть,
Мне бы землю обнять и уснуть.

Чтоб не видеть, не слышать, не знать
Жутких былей жестокого века –
Как подобных себе убивать
И себя называть человеком.

Первой пули украсть поцелуй,
Заслонив незнакомого брата.
Тихим стоном сорваться в лазурь,
Не касаясь курка автомата.

За окном осыпается дождь,
Только ты мне уйти не даёшь.

 

Nuvole bianche e nere sulla mia testa
Cade la pioggia fuori dalla finestra.
Abbraccerei la terra e dormirei,
Solo tu non mi lascerai partire.

Nuvole bianche e nere sulla mia testa
Abbraccerei la terra e dormirei.

Non vedere, non sentire, non sapere
Terribile passato, secolo crudele –
È come uccidere te stesso
E continuare a chiamarti uomo.

Rubare il bacio del primo proiettile
Coprendo un fratello sconosciuto.
Con un gemito silenzioso finire
In cielo senza toccare il grilletto.

Cade la pioggia fuori dalla finestra
Solo tu non mi lascerai partire.

(Traduzione di Paolo Ruffilli) Continua a leggere

Ivan Franko, “un arciere in agguato”

Ivan Franko

COMMENTO
di Gisella Blanco

Ivan Jakovyč Franko è considerato uno dei classici della letteratura ucraina, secondo soltanto a Taras Hryhorovyč Ševčenko.
Intellettuale democratico di ampia erudizione e competenze multidisciplinari, Franko era convinto che “La parola poetica, pronunciata in un momento felice di una certa situazione, è come una moneta d’oro, non perde il suo valore dopo un anno, né dopo cent’anni ”.
La sua vasta opera poetica, da lui stesso definita “dramma lirico”, trasfigura l’esperienza personale in riflessioni dall’ampio respiro umanistico e politico.
“L’eterno rivoluzionario” diventa il simbolo di un corpo civico teso ai valori di libertà e giustizia, appartenenti a ogni epoca storica.
I temi filosofici incontrano le speculazioni sulla religione, sull’amore, sulla bellezza, sulla dicotomia insuperabile tra bene e male.
Il suo interesse per la sociologia, il folklore, l’etnografia e la linguistica consentono una profonda indagine lirica della voce del popolo.
L’umanità, con le sue infinite declinazioni, viene simboleggiata da animali che ne interpretano caratteri, abitudini e modalità relazionali, mettendo “a nudo ogni individuo”.
I testi qui riportati, tratti da varie raccolte di Franko , pur non potendo riassumere la sua intera poetica, rappresentano uno scorcio di quell’etica della parola che sopravvive alla barbarie della storia.

 

Не винен я тому, що сумно співаю,
Брати мої!
Що слово до слова нескладно складаю —
Простіть мені!

Не радість їх родить, не втіха їх плодить,
Не гра пуста,
А в хвилях недолі, задуми тяжкої
Самі уста

Їх шепчуть, безсонний робітник заклятий
Склада їх — сум;
Моя-бо й народна неволя — то мати
Тих скорбних дум.

9 мая 1880

Non è colpa mia se canto tristemente,
Fratelli miei!
Se compongo parola dopo parola con incuria –
Perdonatemi!

Non la gioia le crea, non il sollievo le genera,
Non un gioco vuoto,
Ma nei momenti di sventura, di grave meditazione
Le labbra stesse

Le sussurrano, un maledetto lavoratore insonne
Le compone – lo sconforto,
E la mia schiavitù popolare – la madre
Di quei pensieri afflitti.

9 maggio 1880 Continua a leggere

Oksana Zabuzhko, “scorrono gli abbracci”

Oksana Zabuzhko

Любов

А обійми стекли, як вода,
І нічник нашу тінь роздвоїв…
Не офіра, не пристрасть, не жар –
Просто спроба лишитись живою.
Із зачумлених стронцієм міст,
Понад їх передсмертні муки
Палахкоче легкий поміст –
Переплетені голі руки.
І допоки це сонце вночі,
І допоки ці спалахи бистрі –
Прокохай, продрижи, прокричи
Цю – останню! – хвилину на вістрі!
Розчахнувши нічні дзеркала,
Мов портрети, із рами виходим –
Але з вуст, шорсткий, як зола,
Осипається подих…
Так, немов відітхнути хотів –
А легені навиліт пробиті,
Й ціпеніють відбитки тіл
У зім”ятім гарячім повітрі.
Ах, звідкіль це, і як, і чом
Цей мертвотний відсвіт на стелі?
Глянь, мій милий, що там, за вікном?
Подививсь і сказав:
– Пустеля…

AMORE

Come l’acqua scorrono gli abbracci,
Una luce notturna ci divide le ombre…
Non c’è sacrificio o passione né dono –
Lo sforzo soltanto per restarsene in vita.
Inarcato sulla mortale agonia
Di città infestate da radiazioni
Brucia l’evanescente contatto
Delle nostre braccia intrecciate.
E finché dura questo sole notturno,
E questi brevissimi lampi,
Ama, urla e trema
Nel momento finale
Dal limite estremo!
Infrangendo gli specchi notturni
Come ritratti dalle cornici fuori usciamo –
Il respiro è cenere calda che raschia
Uscendo di bocca…
È come se noi sussultassimo
Con i polmoni trafitti,
E dure si fanno le impronte dei corpi
Nel calore dell’aria accartocciata.
Da dove mai viene, e come, e perché,
Questa pallida luce al soffitto?
“Guarda, amore, dalla finestra: che c’è fuori?”
Ha guardato e risposto:
“Il deserto”.

(Traduzione di Paolo Ruffilli) Continua a leggere

Sergéj Esénin, “Cara patria”

COMMENTO
di Gisella Blanco

Morire non è nuovo al mondo, / ma più nuovo non è nemmeno vivere sono le ultime parole che il giovane poeta russo Sergéj Esénin lasciò scritte, con il suo sangue, su un foglio, un giorno prima di suicidarsi. L’utopia della patria, la sua “gioia breve”, è quel simbolo mitico – e mitizzato – di una condizione esistenziale astorica ed escatologica che, nella sua irrealizzabilità, conduce l’uomo alla perdizione in un’angoscia irrisolvibile.

La dimensione rurale e contadina partecipa del recupero etico di un passato ormai inattuabile ma costantemente rievocato dal poeta.

In questo poemetto, emerge il dramma del distacco dei combattenti dai familiari, delle comunicazioni spezzate, delle interminabili e sconsolate attese, della lontananza tollerabile solo attraverso i ricordi felici e l’idea di una patria che può ancora sopravvivere alla disgregazione della modernità.

 

Русь

1.

Потонула деревня в ухабинах,
Заслонили избенки леса.
Только видно, на кочках и впадинах.
Как синеют кругом небеса.

Воют в сумерки долгие, зимние,
Волки грозные с тощих полей.
По дворам в погорающем инее
Над застрехами храп лошадей.

Как совиные глазки, за ветками
Смотрят в шали пурги огоньки.
И стоят за дубровными сетками,
Словно нечисть лесная, пеньки.

Запугала нас сила нечистая,
Что ни прорубь- везде колдуны.
В злую заморозь в сумерки мглистые
На березках висят галуны.

 

RUS’

1.

Il villaggio è affondato nei botri,
le casucce hanno nascosto i boschi,
si vede solo su monticelli e fosse
come azzurreggiano intorno i cieli.

Urlano nel lungo crepuscolo invernale
minacciosi i lupi dai campi sparuti.
Nella brina che si spegne dei cortili
sotto i tetti sbuffano i cavalli.

Guardano come occhi di civetta dietro i rami
i fuocherelli nello scialle della tormenta.
E stanno dietro le reti di quercia
i ceppi come demoni di bosco.

Ci ha spaventati la forza impura,
per ogni buco ci sono stregoni.
Nel gelo maligno del nebbioso crepuscolo
alle betulle pendono galloni.

 

2.

Но люблю тебя, родина кроткая!
А за что – разгадать не могу.
Весела твоя радость короткая
С громкой песней весной на лугу.

Я люблю над покосной стоянкою
Слушать вечером гуд комаров.
А как гаркнут ребята тальянкою,
Выйдут девки плясать у костров.

Загорятся, как черна смородина,
Угли-очи в подковах бровей,
Ой ты, Русь моя, милая родина,
Сладкий отдых в шелку купырей.

 

2.

Ma ti amo, mia mite contrada!
E per che cosa capire non posso.
Dà lietezza la tua gioia breve
col canto sonoro di primavera pei prati.

Amo ai bivacchi della fienagione
ascoltare di sera il ronzio delle zanzare.
E quando i ragazzi con l’armonica strepitano,
le fanciulle vanno a danzare ai falò.

Ardono gli occhi-carbone come nero ribes
nei ferri di cavallo delle ciglia.
Ohi tu, mia Rus’, cara patria,
è dolce il riposo nella seta dell’angelica. Continua a leggere

Alla Galleria d’Arte Contemporanea Yang Lian

Yang Lian © Pieter van der Meer / Tineke de Lange

Comunicato stampa

A Roma mercoledì 23 marzo alle 17.00, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea – Sala delle Colonne – presentazione del volume dal titolo 与死亡对称 In simmetria con la morte, raccolta di poesie di Yang Lian, traduzione e postfazione di Claudia Pozzana e Federico Picerni per la Collana Parallela Album, edita da Nino Aragno Editore (2022).

Introduce:

Irene Santori Poeta, Direttrice della Collana Bilingue di Poesia Parallela (Aragno)

Dialogano:

Yang Lian  – Poeta
Claudia Pozzana – Professoressa di Lingua, Letteratura e Storia cinese, Università di Bologna, Federico Picerni – Docente di Lingua e Letteratura cinese, Università di Bologna

Dalla postfazione

“Yang Lian scrive in versi innumerevoli osservazioni, mostra i particolari, produce sguardi ravvicinati, immagini concatenate, solo apparentemente scollegate, stridenti ma ritmate, musicalmente intonate nei più vari registri. Queste di Yang Lian sono cose vocianti, sprizzano colori e, in ondate di versi, sbattono sulla risacca della pagina-battigia una molteplicità di figure di pensiero. Figure in perpetuo movimento, ben calibrate, pur nella loro asprezza, e comunque necessarie alla forma stratificata delle sue architetture compositive.”

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Iya Kiva, “la mia casa è in guerra”

Iya Kiva – poeta ucraina

Vi proponiamo oggi due poesie di Iya Kiva, poeta ucraina. La prima si presenta senza titolo nella versione italiana di Valentina Meloni e Alessandro Achilli. La seconda poesia  Anno Domini Ucraina è del 2015. È scritta in russo dalla stessa Iya e è tradotta da Valentina Meloni.

 

вісім років казати: в мене вдома війна
щоб нарешті прийняти: мій дім – це війна
її потяг повільний зі сходу на захід країни
у якому смерть життя перевозить

ніч заходить у землю судомами квітів змарнілих
і лягає в роти нам гнилими зубами мовчання
наша мова тепер – волонтерсько-біженський чат
у якому сирени співають пісень Одісею

наша пам’ять тепер – брудна вишиванка свободи
її довга хода від серця до серця

per otto anni ho continuato a dire: la mia casa è in guerra
per accettare finalmente che la mia casa è la guerra
nel suo lento treno da est a ovest del paese
la morte porta la vita

la notte sta precipitando a terra
con grappoli di fiori appassiti
ed entra con denti marci di silenzio nelle nostre bocche
la nostra lingua ora è una chat tra volontari e rifugiati
in cui le sirene intonano canti a Ulisse

la nostra memoria oramai è la sporca camicia ricamata della libertà
il suo lungo cammino da cuore a cuore

(Traduzione di Valentina Meloni)

otto anni a dire: da me c’è la guerra
per capire finalmente: la mia casa è la guerra
col treno che piano va a ovest da est
con la morte che porta la vita

arriva la notte coi crampi di fiori avvizziti
ci entra in bocca coi denti marci del silenzio
la nostra lingua: una chat di profughi
sirene che cantano a Ulisse

la memoria: oramai uno sporco libero ricamo
che va piano piano da un cuore a un altro cuore

(Traduzione di Alessandro Achilli)

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Taras Ševčenko, “amata Ucraina”

Taras Ševčenko, Autoritratto

Заповіт

Як умру, то поховайте
Мене на могилі
Серед степу широкого
На Вкраїні милій,
Щоб лани широкополі,
І Дніпро, і кручі Було видно,
було чути, Як реве ревучий.

Як понесе з України
У синєє море
Кров ворожу… отойді я
І лани і гори —
Все покину, і полину
До самого Бога
Молитися… а до того
Я не знаю Бога.

Поховайте та вставайте,
Кайдани порвіте
І вражою злою кров’ю
Волю окропіте.
І мене в сем’ї великій,
В сем’ї вольній, новій,
Не забудьте пом’янути
Незлим тихим словом.

Taras Ševčenko

TESTAMENTO

Quando sarò morto, seppellitemi
In mezzo a un’ampia steppa
Nella mia amata Ucraina,

La scogliera sprofondata nel Dnepr,
Che i miei occhi potevano vedere,
Le mie orecchie sentivano
Il possente fiume ruggire.

Quando l’Ucraina trasporterà
nel mare blu
il sangue del nemico
allora me ne andrò
lascerò queste colline
e questi campi fertili —
li lascerò e salirò a Dio
per pregare… Ma fino a quel giorno
non so nulla di Dio.

Oh seppellitemi, poi alzatevi
Spezzate le pesanti catene
E spargete il sangue dei tiranni
Sulla libertà che avete conquistato.
Nella nuova grande famiglia,
La famiglia dei liberi,
Con parole gentili e tranquille
Ricordatevi anche di me.

(Traduzione dall’inglese di Luigia Sorrentino)

Taras Ševčenko, 25 December 1845, Pereiaslav Continua a leggere

Lesyk Panasiuk, “ogni parola è dolorosa”

Lesyk Panasiuk photo Valentin Kuzan

АБЕТКА ЯК ПАЛАТА ДЛЯ ПОРАНЕНИХ

І

Чуєш цей рух у стовбурах
це мова тече в дерев’яних жилах і буяє пустоцвітом
мова чорна мов земля
чорна мов кров що тягне нас у землю

Червоні пера застрягли в чорнильницях наших ротів
повні крові наче під час бійки
кожне слово завдає болю

Щоб зараз лишитися живими треба мовчати

Сипучі піски мови тягнуть нас на дно

 

ІІ

 

Літери йдуть на війну
складаються в слова які ніхто не хоче вимовляти
речення підриваються на мінах
історії обстрілюють системами залпового вогню

У слово дім влучає снаряд
крізь розбите вікно літери д
можна побачити як літера і втрачає голову
як провалюється дах літери м

Мову під час війни не впізнати
речення такі недолугі
ніхто не хоче помирати
ніхто не хоче говорити

Біля лікарняного ліжка літери й лежить протез
діакритичного знака якого вона соромиться
уже вкотре розходяться шви просвітами літери ф
від кульових поранень на етимологічному фронті
м’який знак втратив язик під час катувань

Палати забиті літерами
що й апострофа не вставиш
відпадає фарба зі стін
осипаються слова незрозумілими покручами
і хто ними буде говорити

Лесик Панасюк

 

ALPHABET AS A WARD FOR WOUNDED 

I

Can you hear these movements inside trunks
that’s language flowing in wooden veins and blossoming with barren flowers
the language is as dark as soil
as dark as blood pulling us into the ground

Red quills got stuck in the inkwells of our mouths
full of blood as if we were fighting
every word is painful

We just need to be quiet to stay alive now

Loose sand of language is taking us down

 

II

 

Letters go to war
form words nobody wants to pronounce
sentences hit landmines
stories are shelled by multiple launch rocket systems

Missile hits word дім
in the broken window of letter д
it’s easy to see how letter і loses her head
how a roof of letter м collapses

It’s hard to recognize the language during wartime
sentences are so awkward
nobody wants to die
nobody wants to speak

Near the hospital bed of letter й lies a prosthesis
of diacritical mark which she is ashamed
once again the seams diverge with the gaps of letter ф
from bullet wounds on the etymological front
soft sign lost his tongue during torture

Wards are full of letters
there’s not even a place for an apostrophe
paint is peeling down from the walls
words are falling away as confusing slang
and who will speak it

(Translated from the Ukrainian into English by the author and Daryna Gladun)

 

ALFABETO COME UN REPARTO PER FERITI

I

Riesci a sentire questi movimenti all’interno dei tronchi
questo è il linguaggio che scorre nelle vene del legno e sboccia in sterili fiori
la lingua è scura come il suolo
scura come il sangue che ci trascina nella terra

Le piume rosse si sono incastrate nei calamai delle nostre bocche
piene di sangue come se stessimo combattendo
ogni parola è dolorosa

Dobbiamo solo stare zitti per rimanere in vita adesso

La sabbia sciolta della lingua ci trascina a fondo

 

II

 

Le lettere vanno in guerra
formano parole che nessuno vuole pronunciare
le frasi innescano mine
le storie sono bombardate da più sistemi di lancio razzi

Un missile colpisce la parola дім (casa)
nella finestra rotta della lettera д (d)
è facile vedere come la lettera i perda la testa
come crolla il tetto della lettera м (m)

È difficile riconoscere la lingua durante un periodo di guerra
le frasi sono così difficili
nessuno vuole morire
nessuno vuole parlare

A fianco al letto d’ospedale della lettera й (i breve) giace una protesi
di segno diacritico di cui si vergogna
ancora una volta le suture divergono dai fori della lettera ф (f)
dalle ferite da proiettile sul fronte etimologico
un segno morbido ha perso la lingua durante la tortura

I reparti sono pieni di lettere
non c’è nemmeno un posto per l’apostrofo
la vernice si sta staccando dalle pareti
le parole stanno scomparendo come un gergo confuso
e chi lo parlerà

(Traduzione dalla versione Inglese di Valentina Meloni) Continua a leggere

La guerra su di noi

Man Ray

I poeti contro il conflitto in Ucraina

di Luigia Sorrentino


Poesie contro la guerra
è l’appello alla pace rivolto ai potenti del mondo. Raccoglie le voci di poeti ucraini e russi contemporanei, ma anche le voci dei loro padri, tra i quali gli ucraini Taras Ševčenko, Jakovyč Franko, Olena Ivanivna Teliha, Paul Celan, e i russi Osip Mandel’štam, Anna Achmatova, Marina Ivanova Cvetaeva, e molti altri, che hanno scritto poesie memorabili dall’esilio o dalla loro patria in guerra.

Man Ray

Il poeta è l’interlocutore più efficace per interpretare il significato più profondo della catastrofe causata dall’insensatezza degli uomini. Nessuno più del poeta può raccontare l’orrore della guerra quando questa coincide con la sua presenza nella Storia.

Lia Rumma, la vestale dell’arte contemporanea

Lia e Alberto Rumma

Lia e Marcello Rumma, 1968

Intervista a Lia Rumma
di Luigia Sorrentino
Napoli, Palazzo Donn’Anna
9 marzo 2022

Lia Rumma è tra le più importanti galleriste del mondo dell’arte italiana e non solo. Con il marito Marcello Rumma ha promosso il movimento dell’Arte Povera. Oggi, nella sua scuderia, lavorano i maggiori protagonisti internazionali del contemporaneo.

Lia Rumma vive a Palazzo Donn’Anna, in uno dei più celebri palazzi di Napoli, luogo simbolo della città. Il palazzo fu costruito nella metà del mille e seicento, per volontà di Donn’Anna Caràfa e realizzato dal più importante architetto della città, Cosimo Fanzago. Fu costruito secondo i canoni del barocco napoletano. E proprio qui Lia Rumma ha realizzato la sua casa-museo.

Palazzo Donn'Anna, Napoli

Palazzo Donn’Anna, Napoli

Che relazione c’è tra questo luogo antico proiettato nel passato e l’opera d’arte contemporanea che guarda verso il futuro?

Penso che l’arte corra su un filo infinito nella relazione tra passato e presente. Non c’è interruzione, ma c’è un dialogo. Io sono affascinata dall’architettura barocca, dalla grande architettura del passato. Questi ambienti ampi, questi volumi straordinari, dialogano benissimo con opere contemporanee. A me piace molto riferirmi alla storia e alla nostra contemporaneità. Ho cercato di avvicinare questi due momenti. Mi piace molto vedere vivere queste opere in questi ambienti meravigliosi dell’architettura di Palazzo Donn’Anna. Non dimentichiamo poi che palazzo Donn’Anna è circondato dal mare. Quindi il mare entra in questa stanze, la luce fa un gioco di ombra e di luce, di spazio, di aria. Queste opere possono vivere in maniera totalmente autonoma laddove l’architettura non viene uccisa dall’invasione di grandi opere contemporanee e nello stesso momento lascia spazio all’opera.

Lia e Marcello Rumma – Mostra ai Cantieri di Amalfi 1968

La storia di Lia e Marcello Rumma si afferma nel 1968. Quando, con Germano Celant prende vita la grande mostra ai cantieri di Amalfi.

La mostra del maggio del Sessantotto conferma un momento importante, storico. Ma la nostra curiosità di giovanissimi collezionisti interessanti all’arte, alla cultura, perché non solo ci siamo occupati di arte, perché mio marito fondava poi una casa editrice molto importante di arte, estetica e filosofia, inizia molto prima, già dai primi anni Sessanta. Eravamo ancora due ragazzini ed eravamo incuriositi da quello che stava accadendo nel nostro tempo. E quindi incontrare gli artisti, i galleristi, quelli che poi sarebbero stati i protagonisti del grande momento dell’arte contemporanea era per noi una curiosità immensa. Per quanto giovani, ci muovevamo, viaggiavamo, contattavamo storici dell’arte, critici, galleristi, artisti… era un viaggio verso la conoscenza. C’era anche una passione fortissima … eravamo proprio appassionati, innamorati di ciò che stava accadendo nel nostro mondo. Volevamo conoscerlo, volevamo starci, volevamo viverlo con gli artisti e vivere in questo mondo dell’arte così affascinante. Continua a leggere

Amelia Rosselli, un’avanguardia eccentrica

Amelia Rosselli, credits ph Dino Ignani

«UNA SOLITUDINE QUADRATA». POESIA OLTRE L’AVANGUARDIA

di Gian Maria Annovi

Nel suo celebre saggio intitolato Che cos’è la letteratura?, Jean-Paul Sartre rifletteva in questi termini sulle ragioni della scrittura: «per qualcuno l’arte è fuga; per qualcun altro un mezzo di conquista. Ma si può fuggire in un eremo, nella pazzia, nella morte; si può conquistare con le armi».

Nella sua copia del volume di Sartre, 1) Amelia Rosselli aveva segnato con un netto tratto di matita questo passaggio. Fino a una mattina di febbraio di vent’anni fa, la scrittura era stata per lei esattamente il contrario di una fuga verso la morte, ma certo – ha ricordato Andrea Cortellessa – una «fuga senza fine» come quella di Paul Celan.

Per Rosselli, la poesia ha rappresentato piuttosto 2) «l’arte di non lasciare spazio alla morte, di respingere l’oblio, di non lasciarsi sorprendere dall’abisso», 3) come ha scritto, rispondendo alla medesima domanda di Sartre, la pensatrice femminista franco-algerina Hélène Cixous, che con Rosselli non condivide solo l’origine ebraica ma soprattutto un’esistenza fatta di spaesamenti geografici e linguistici. Scrivere è stato insomma per Rosselli una forma di combattimento e difesa, un’arma sguainata nella sua fin troppo nota «sfida al teschio».

Non è però il nesso tra scrittura e travaglio esistenziale a rendere l’esperienza poetica di Rosselli una delle più straordinarie del secondo Novecento (e non solo di quello italiano), quanto l’originalità con la quale ha saputo costruirsi uno spazio autonomo e unico nel complesso panorama della sperimentazione poetica internazionale. Tuttavia, come ha ricordato Emmanuela Tandello, l’originalità di Amelia è spesso considerata da parte della critica come un problema, e la sua «una posizione eccentrica e tangenziale» rispetto alle canoniche coordinate di riferimento. Il caso più plateale di questa difficoltà a posizionare Rosselli all’interno del canone novecentesco è rappresentato dal suo rapporto con la neoavanguardia. È sufficiente collazionare le antologie e le storie della poesia italiana più autorevoli per rendersene conto.4)

La questione è stata recentemente riaperta polemicamente da Antonio Loreto nel suo volume I santi padri di Amelia Rosselli, dedicato in particolare al rapporto tra l’avanguardia e Variazioni belliche.

La tesi di Loreto è che nonostante gli scritti e le interviste in cui Rosselli ha manifestato al contempo interesse e autonomia rispetto alla poetica della neoavanguardia italiana, non solo la sua poesia ma anche l’elaborazione del suo sistema metrico siano per molti versi debitrici delle esperienze del Gruppo ‘63 e, in generale, dell’avanguardia internazionale, che diventano paradossalmente – lo ha fatto notare giustamente Jennifer Scappettone – i veri protagonisti di questo libro. 5)

Il tentativo critico di Loreto è dunque quello d’inscrivere Rosselli all’interno della neoavanguardia, malgré elle, ridimensionando al contempo l’originalità del suo contributo, che appare dunque in parte derivativo e ritardatario. La soluzione rosselliana al problema metrico, per esempio, è definita da Loreto «ingenua rispetto alla soluzione data generalmente da Sanguineti e compagni» 6) (soprattutto il Porta di Zero, che avrebbe intuito con maggiore rigore il significato metrico della forma grafica), salvo poi impiegare strumentalmente Variazioni belliche come arma contro i detrattori che all’avanguardia non riconoscono la capacità di riportare l’arte alla realtà e viceversa. Continua a leggere

Alberto Bertoni, “Quasi un’autofiction”

Alberto Bertoni Castelnuovo Rangone, Poesia Festival 6 marzo 2022AUTORITRATTO
da un’idea di Luigia Sorrentino
a cura di Fabrizio Fantoni

°°°°

di Alberto Bertoni

 Volevo fare una narrazione storica, sì, ma che cogliesse soprattutto il passaggio dalla vita senza storia di tutte le infanzie al momento in cui il ragazzo comincia a diventare sociale, a capire se stesso. […] Ho cercato proprio di cogliere il primo palpitare dell’embrione sociale: per questo, forse, si potrebbe dire che il mio racconto è ancor più “viscerale” che storico. […] È una legge ferma, questa: che anche le viscere sono un mondo, che anche l’infinitamente piccolo ha tutte le caratteristiche del mondo più vasto che lo contiene.

(Giorgio Bassani)

Infanzia modenese   

 

Da un po’ di tempo, vado a letto presto. Tuttavia non ricordo i miei sogni e continuerò a non ricordarmeli. So che è un segno di insensibilità: ma, a contrappeso, ben fissati nella memoria volontaria, conservo tre ricordi vivi, che forse equivalgono a sogni, lontanissimi nel tempo.

Il primo è una scena a luci basse, nel tinello della mia casa di via Salvioli 21, prima periferia sud di Modena, dirimpetto alla linea dell’Appennino, io sul seggiolone, mia nonna che mi prepara una minestra succulenta, con un formaggino dentro, una pappa da bambino, che avevo molta voglia di mangiare, essendo stato da subito (ed essendo tuttora) un gran goloso. A un certo punto mia nonna si avvicina a questa minestrina, proprio quando mi appresto a divorarla, con una lattina verde scuro e un cucchiaio nell’altra mano, pieno di un liquido gialloverdognolo (era l’olio Sasso) con il quale vorrebbe rendere ancora più gustoso e nutriente il mio piatto. Io mi ricordo nitidamente – questo dipende senz’altro dal montaggio in tempi successivi di narrazioni diverse del ricordo – che di testa do un colpo al cucchiaio e lo faccio volare. Negli anni ho anche fatto riecheggiare nel mio udito interiore la frase che mia nonna – una dialettofona spontanea – deve aver pronunciato nella circostanza: “Al ragazȏl a-n gh’ piès menga l’òli”, cioè “Al bambino non piace l’olio”. Da allora, infatti, ho mangiato solo burro e strutto perché l’olio d’oliva, in tutte le sue forme ma soprattutto quando soffrigge con la cipolla, mi trasmette istintivamente e immediatamente l’impeto del vomito. A restare indelebile, di questo possibile sogno o lontanissimo flash, è la percezione tuttora molto nitida di quanto erano fioche e basse le luci nel tinello piccolissimo borghese che abitavamo, mentre sempre impagabile – a tutte le ore del giorno, in tutte le stagioni dell’anno – ho trovato e trovo la luce di quello specifico paesaggio emiliano, fra pianura e prima collina: pareggiata solo dai raggi obliqui di un’unica ora vespertina, in Provenza o California. Quella del mio protoricordo doveva essere una sera del 1957, al massimo del 1958, anni di pieno boom economico, a sentire i sociologi. Ricordo questo semibuio, che tuttora mi dà fastidio, come del resto il fioco e il catacombale, a meno che non si tratti di candele in una chiesa romanica: e preferisco le luci potenti delle partite di calcio o delle corse di cavalli in notturna, magari alogene nonostante la crisi energetica, perché le luci basse mi costringono a intrecciare infanzia e cimitero.

Il secondo ricordo, o sogno (in senso cronologico è forse il primo ricordo della mia vita, ma è molto più sfocato dell’altro), consiste nella linea blu del mare a Marina di Carrara, l’emozione della spiaggia, della sabbia che brucia sotto i piedi, è l’estate del ’56, ho quindici o sedici mesi. Un po’ cammino già (a muovermi e a biascicare sillabe sono un soggetto precoce) e mi ricordo lo slancio emotivo di quella visione primaria, il mio staccarmi dalle mani dei miei genitori (mio padre a destra, mia madre a sinistra) e lo scatto verso questa linea blu per tuffarmici dentro. Naturalmente mi acchiappano prima che io riesca a toccare l’acqua, ma dopo ho rivissuto altre volte lo stesso “convulso” – un sentimento radicato in mia madre – di quella spinta istintiva verso la riga scurissima del mare, contro la luce abbacinante dello spazio attorno. Sarà per questo che mi piacciono molto i quadri che sanno rappresentare in modo incisivo gli orizzonti: ma alla fin fine, non mi piace affatto tuffarmi nel mare senza che nessuno mi prenda al volo un attimo prima dell’impatto, di quel brivido di gelo che dentro di me equiparo da sempre alla morte.

Il terzo ricordo è sul balcone di casa ed è legato a un senso travolgente e spaventoso di vertigini: ne soffro tuttora, al punto che, modenese purosangue, non sono mai salito sulla Ghirlandina per paura di dovere, potere o volere sporgermi da un’altezza tanto estrema: che poi sono solo 86 metri, cioè nulla, a paragone dei grattacieli che poi avrei contemplato dal basso, attanagliato da un senso di vertigine non inferiore a quello che avrei provato raggiungendone la cima, di Manhattan, di Chicago o di Tokyo… A ogni modo, mi rivedo su questo balcone al terzo piano, attratto e respinto dal vuoto, mentre calcio un pallone rosso, poi lo prendo in mano, lo calcio ancora contro la ringhiera, quasi in un caleidoscopio spaventoso, nel rutilare di questo rosso accoppiato alla sensazione e alla tentazione suicida della profondità e dell’abisso che sono in agguato lì, come i puma sui rami, appena oltre la rete contro la quale scaglio il mio prezioso pallone. Queste sono, di fatto, le tre scene primarie che stanno tuttora alla base del mio immaginario.

 

Gioie, dolori, perplessità

 

A loro si affiancano le prime gioie: certi doni di Natale, innanzi tutto. Ci sto ancora sfrecciando sopra, adesso e qui, sulla prima bicicletta con le ruotine quando, lungo l’ampio corridoio di casa mia, scorrazzo su e giù per l’appartamento; o quando calcio il mio primo pallone di cuoio regolare contro l’armadio a muro che fa da porta, con l’atto definitivo e l’esito devastante che ovviamente m’impedisce di ripetere il gesto oltre la prima e la seconda volta: e così di diventare un calciatore anche solo decente. Poi mi ricordo un paio di guantoni da boxe che mi procurano una gioia pura, benché adesso la boxe mi risulti fastidiosa. E quindi la mia gioia pura coincide con l’attesa (che, come tutte le vere attese, mi sembra infinita) dei doni di Natale verso il tardo, tardissimo pomeriggio della vigilia, quando i nonni mi portano in giro con qualche scusa, così che mio padre e mia madre possano preparare i pacchi sotto l’albero. Questa è la gioia pura, intanto: altre ne seguiranno, però appena più contaminate dalla consapevolezza intellettuale e dalla capacità di fare architettura dell’attimo presente.

Ed eccola qui, qualcuna di queste altre. In una fase molto precoce, i primi dischi dei Beatles. Parlo ancora della scuola elementare (con l’Università l’unica bella e davvero formativa della mia vita), dove ho la fortuna di avere un compagno di classe, Massimo Mati, il cui padre vende dischi e quindi compro da lui – scontati – i 45 giri dei Beatles in tempo reale, cominciando con Please please me e Twist and shout verso la fine del ’63, a 8 anni: canzoni ma soprattutto ritmi (le parole ancora incomprensibili: e insomma la mia prima lezione di vera poesia!) che ascolto maniacalmente in giro per tutta la casa grazie al “mangiadischi” Philips, che intanto mi son fatto regalare in uno dei miei Natali bambini. Di quel vagabondare mi ricordo l’esperienza di choc, di spiazzamento che infliggo a nonni e genitori, in rapporto alla musica leggera – il melodramma è un’altra storia – che apprezzano loro, fra Claudio Villa e Gianni Morandi, con qualche tiepida tolleranza per Domenico Modugno. Continua a leggere

Paul Celan, video di Luigia Sorrentino

QUANDO LA POESIA ARRIVA A RIVA 

“La poesia può essere un messaggio in bottiglia inviato nella convinzione – certo non sempre salda – di potere chissà dove e chissà quando venire sospinto a riva”. Così auspicò Paul Celan nel 1960 ricevendo il prestigioso Premio Büchner.

Dopo il conferimento del Premio Büchner si interessarono a questo poeta più editori europei.

In Italia Mondadori, che avviò una trattativa complessa coinvolgendo a più livelli diversi poeti italiani, tra cui Sereni, Zanzotto, Fortini, Spaziani e Balestrini.

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