I
Unico vanto, aver resistito lungamente a me stesso. Nel disadorno ovunque e nel fulgore che raramente, ne l’affamato strepito del giorno e notturno scivolare, io con quel lui ch’ognor m’impiglia.
Ogniqualvolta mi trovo a citare parole sue, devo convenire che il me che parla dorme cammina non è colui che scrive, e scrivendo sfugge agli scricchiolii del palcoscenico quotidiano. Siamo in due, e incerti i legami: storico io, metastorico lui. Miei i fastidi le fatiche i malanni, suo l’arrovellar parole. Benché spesso inquieta o rissosa, tale residenza lo pone altrove, in salvo dalle cattive notizie, dalla ripetizione e dai minimi orrori a cui la normalità non può sfuggire. Non so pensare in quel suo modo estraneo. Ha forma diversa la sua necessità.
Non sto alludendo a una scissione dell’Io, né all’esistenza d’un sosia, spettro o alterego che sia ispirato o e – letto. Sto dicendo che la prima persona, quella che non scrive, deve scomparire, e la storicità farsi da parte.
Dubito che lui sia un soggetto. In certo modo, sembra dipendere. In pratica, io posso parlare di lui, ma lui non può far altrettanto. Non sa cosa stia scrivendo, e ancor meno qual senso possa avere ciò che scrive. Secondo me, ogni volta non sa piú quel che credeva di sapere, e altro non impara. Quando fa ritorno, quando si ricongiunge, devo affrontare una perdita. La banalità di tale condizione sembra insuperabile.
Ero stato piú chiaro – o meno noioso – molti anni fa: «La poesia è un’opera estranea, cosa che il sonno insegnerebbe al risveglio».
II
Mancandosi,
vuoto nessuno, asola
che non coniuga bottoni
o su erbosità una melma.
Si contenta cosí
questa indocile età
che pondera ancora
fremiti, o perde
sua guarnigione.
Sorrisi del tempo
di guerra, scontornati.
Un freno a ceppi
in fondo al carro,
la stessa virtú
dei ricordi.
III
Su uno dei declivi, noi,
oltre la comune sommità
mai non sapendo
se amici o nemici,
se contrariate parole.
Noi al di qua,
vanamente schierati—
dopo aver cucito
scucito racconti,
danze di guerra
a preparare il lutto,
stolida certezza
di nostra
inerpicata conoscenza.
IV
Non si consumasse
già mai
nostra innocenza,
e non fosse il tempo
mietitor de l’ignaro,
non muoverebbe
su inasprite stoppie
la mente adulta,
giudiziosamente
smarrita, e intimo
sarebbe ancora
orientamento.
Mi avvedo
(non è la prima volta)
di compiangere. Continua a leggere