Lettera a Franco Loi

Franco Loi

Caro Franco,

non riesco a scrivere di te ma posso scrivere a te. C’è stata intimità tra noi, tu intimità costruivi con tutti, ma con me è difficile, perché se non c’è, me ne vado e nello stesso tempo sono troppo timida per scartavetrare io per prima.

E così ce l’hai fatta, sei diventato azzurro. Da quando avevi ottant’anni, il corpo ti sembrava un’ ingombrantissima coda da portarti appresso. E poi non c’era più Silvana, come restare? Era i tuoi occhi, la tua terra e anche il fuoco.

La prima volta che ci siamo incontrati avevo ventitre anni.

Allora stavi in via del Sambuco, abbiamo parlato tanto, anzi tu parlavi e io rispondevo alle domande. A un certo punto mi hai detto: “Tu sei un poeta, lo vedo dai tuoi occhi, perché vivi ai bordi della follia.” Mi sono spaventata tantissimo, perché allora per me la follia era solo quella della psichiatria. Mi sono attaccata al tavolo con le mani.

Comunque era come essere presi da un fulmine sentirsi riconosciuti così giovani da un vero poeta. Facevi sentire che l’altro esiste. Che cosa rara! E tu hai continuato a farla, di generazione, in generazione.

La tua poesia potevo leggerla solo nelle tue traduzioni, ma da te mi piaceva anche ascoltarla nella tua lingua musicante, lingua straniera eppure sotto casa, lingua umile che si metteva a parlare di mistica terrestre, della tua religione degli affetti. A casa tua mi sembrava che ci fosse Dio in pigiama, stava lì con noi, lui seduto sul divano e noi al tavolo.

Mi chiedevi solo dopo un po’ che ero con te: “Come stai?” e dopo che avevo risposto, mi dicevi tu come stavo, come mi sentivi. Restavo strabiliata perché scoprivi cose che io non vedevo, non guardavo dalla parte giusta, ma erano lì, proprio lì.

Poi sei andato a vivere in una casa a un piano alto e io avevo le vertigini ma tu ti ricordavi sempre di aprirmi la porta dell’appartamento e così mi infilavo dentro di corsa senza guardare la tromba delle scale.

Negli ultimi anni non ci siamo più visti perché io sono una che abbandona, tengo nel cuore ma devo andare via. Soffro di altre vertigini. Dove sto adesso ti piacerebbe. Gli asini ti piacerebbero più di tutto.

Come sto, Franco?

 Chandra Candiani

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In ricordo di Franco Loi

Franco Loi

di Alessandro Bellasio

La voce più appassionata, struggente a tratti, di una lingua che non esiste più, che non si sente più, che più nessuno parla. Il milanese di laboratorio di Franco Loi esisteva solo in lui, per lui, certo, eppure c’era un’intera città che in quella lingua trovava forma, sensi, felicità. Poco si può aggiungere su un poeta tanto conosciuto e amato, se non che era forse proprio la gioia, perfino nelle poesie più nere e disperate, il tratto saliente della sua poesia, la sua energia segreta, quella forza centrifuga che la portava in giro per le strade, gli odori, i volti di una città che vi si specchiava, che vi ritornava dentro come nella sua custodia, come nel suo vestito. «Cunuss vör dí vardà e inamuràss» (conoscere vuol dire guardare e innamorarsi), scriveva Loi, e davvero nessuno più di lui ha saputo guardare, ascoltare, fiutare Milano e, dunque, amarla, conoscerla.

La gioia, accompagnata d’altro canto da una pietas lucidissima e spontanea, mai sentimentale né artefatta, così connaturata a una poesia fatta dei gesti, delle emozioni, delle parole di ogni giorno; e però sempre intesi a partire da un tratto mitico, da un trasporto epico. Epopea milanese, nella quale, tuttavia, sfilano ben riconoscibili le questioni essenziali e ineludibili del nostro destino: la morte, il dolore, la perdita. I testi di Loi (rigorosamente legati all’oralità, all’immediatezza del vissuto, all’istante) sono costellati da questo smarrimento, dalla meditazione sconsolata sulla fine, sull’irreparabilità del tutto.

Rari i poeti che con lo stesso nitore accorato siano mai riusciti a immortalare l’addio a un amico, come nella lirica che Loi scrisse in memoria del poeta Giulio Trasanna, suo maestro.

 

E nüm sèm chi amô, Giüli, a camenà,
liend, sulient, dré ´l luster del murtori,
e gh’è ‘n festà là nel prâ, tra i pagn al vent,
de fjö che scappa e pö ríden, e de dònn
ch’j se vòlta e j se sègna, e stan lí,
ne l’aria fèrma, a vardà, o a pensà,
e pö, prest, turnaràn a la sua câ,
a cüntàssela-sü, de la vita, e di mort,
ch’àn vist, o ch’àn sugnâ, e de biròcc cuj piüm…
E in due te sét, tí, amîs?
Ché la tua cartapelgura, i brasc,
el còll resgâ, j èm vist, lí, un mument,
cume a dundà sü ‘l büs lungh de la cassa,
nel finí vöj de quèl’umbra, lunga
cum’i ciel e i ciel quan’ se sprufunda,
quèl che nient nüm ne sèm, e fa paüra.

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Franco Loi, un mistico dentro le “cose” del mondo

Franco Loi, Credits ph. Dino Ignani

di Umberto Piersanti

 

Con Franco Loi si chiude l’antologia di Pier Vincenzo Mengaldo e si chiude un’epoca. Il grande interprete della poesia novecentesca, non a caso, ha sempre asserito che gli era molto difficile se non impossibile parlare degli autori venuti dopo. Si chiude anche la stagione dei grandi poeti dialettali che ho conosciuto di persona e che con lui hanno portato questo tipo di scrittura a livelli molto alti: Tonino Guerra, Raffaello Baldini, Nino Pedretti e Franco Scataglini che lo stesso Loi fece scoprire ad un pubblico più vasto.

Ho sentito Loi leggere molte volte: la sua lingua così difficile e complessa riusciva a raggiungere tutti, anche quelli che non sapevano una parola del dialetto milanese. Un’oralità straordinaria che aveva in comune, in modi certamente molto diversi, con Tonino Guerra.

Non è questa la sede per disquisire sulla complessità di un dialetto che univa al milanese le voci degli inurbati lombardi negli anni cinquanta, apporti emiliani e parole di sua pressoché totale invenzione. A differenza di Pasolini la sua non era una lingua materna, ma una lingua paterna, formatasi più che attraverso le memorie tramandate, attraverso il duro apprendistato della vita, tra osterie, strade e impegno civile.

La forza della sua poesia sta in una visionarietà che penetra nel reale con un’intensità drammatica dove il teatro è la scena del mondo vissuto dentro un panico e assoluto microcosmo milanese.

Molto si può discutere sulle sue prospettive ideologiche, sulla sua visuale “politica” del mondo. Antifascista, militante comunista, vicino alle posizioni della sinistra radicale: li ha delusi però tutti, a cominciare da Franco Fortini e Pier Vincenzo Mengaldo, per il suo misticismo di cui loro avevano individuato solo una componente evangelico-comunista. No, questa tensione religiosa è molto più totale ed assoluta, investe ogni aspetto del vivere. È presente fin dall’inizio, è presente anche tra le opere come Strolegh che appaiono apparentemente dominate da una concezione tra socialista e anarchica, dalla denuncia del mondo capitalistico. Si potrebbe dire che per Loi il regno dell’utopia non è il regno di questo mondo, ma l’aspirazione ad una pace e armonia universale che ha una caratteristica assolutamente trascendente. Niente è più lontano da Loi non dico dal rigore di un’analisi marxista, ma semplicemente da un’analisi razionale del sociale. Loi crede che la poesia viene dettata al poeta stesso da una qualche entità misteriosa e trascendente: quante volte gli ho sentito dire che il poeta è un semplice tramite di una forza che lo trascende. Una volta abbiamo avuto una discussione sulla sconfitta di Hitler nella seconda guerra mondiale: per me Hitler era stato sconfitto dai carri armati sovietici e dagli aeroplani alleati, per Loi carri armati e aeroplani contavano poco davanti a una qualche forza superiore che aveva deciso e sempre decide il corso della storia. Continua a leggere

Addio al grande poeta Franco Loi

Franco Loi, American Academy in Roma, 3 maggio 2012/ Credits ph. Luigia Sorrentino

NOTA DI FABRIZIO FANTONI

Si è spento il 4 gennaio 2021, all’età di novant’anni, Franco Loi, uno dei più grandi poeti del novecento.
Solo pochi mesi fa, se n’era andata la moglie, Silvana Loi, appassionata studiosa di arte e letteratura e vera compagna del poeta.
Franco Loi era nato a Genova nel 1930, da padre cagliaritano e madre emiliana, ma vissuto fin da piccolo a Milano – dove si trasferisce all’età di sette anni- approda alla poesia a quarantatré anni, nel 1973 con la raccolta I Cart alla quale seguono Poesie d’amore (1974), Stròlegh (1975) e Teater (1978), L’angel (1981), L’Aria (1981), Lunn (1982), Bach (1986) e molte altre.

Sin dalle prime prove la poesia di Loi è segnalata dall’uso di un inventivo dialetto milanese di periferia, che trova la sua origine in una commistione tra la parlata proletaria e quella degli immigrati dalla campagna, spesso mescolata con elementi tratti da altri dialetti e lingue straniere.

Il dialetto di Loi non è il frutto di una semplice regressione “materna “ alle origini, ma qualcosa di molto più profondo e densamente emotivo: è – come scrive lo stesso Loi “la lingua di ciò che tace dentro di noi e che si rispecchia nell’infinito, la lingua delle nostre divine incoscienze”.

Lingua, dunque, di elezione e di storia che si fa espressione di una scelta di classe socialmente impegnata.
Scrive giustamente Mengaldo “. Rifiutando, con voluto e minaccioso anacronismo, ogni mediazione e orizzonte borghese, Loi si concentra tutto nella rappresentazione di un mondo popolare che, giusta l’inevitabile tristezza storica che intride gli ideali del poeta, ha i toni stridenti e sinistri della disperazione senza via d’uscita, sulla linea della più nera letteratura popolare dell’Ottocento e del primo Novecento…”.

Da Stròlegh

II

E dansi, furli,
e ’n’ambra glissetera m’involg,
la sbiava, la m’unda tra i cȃ sbiess,
che ‘l cör ciuscatt par brascia ’n’üseléra
d’aria bibiana e de smiròld beless…
Bel zéfir,brisa,
galȗpp d’un Casurett!
Tra mí e i mund franguell gh’era ’n strighèss
ch’i bej revèrber e i tumbin secrett
me curr incuntra, e fan festa, e i stell
legriusen ’n’alamanda ai grund che scend,
e mí, l’è ’nfiur, un ciall, un va de firisèll
al durbià del timid che nel venter
se tegn scundü ’me se tegn l’üsèll…
Grí San Maternu,
Bianca Maria de semper,
mia edicula, scirossa di cantun,
pulver di òmm che passa e par che stemper
s’inultra al dí luntan che vegn lirun,
sfrûs sass di strȃd, umbrius tumbin che ria,
aria de Casurett, scür trani siún,
uh sí, ve tucchi, sí, ve parlaría,
ma quanti vus, quanti respir al vent!
e ’sta manfrina de la fantasia
che per la piassa dansa sciabelent…
E al spiöv di lüs lampiun
saltrella e slisa el furbol di record,
traversa el vent.

E danzo, furlo,
e un’ambra profumata e fuggitiva
mi avvolge, fa impallidire e sbiadisce gli oggetti,
mi trascina come un’onda tra le case sbilenche,
che il cuore che vuole ubriacarsi sembra abbracciare un’uccelliera
di un’aria interminabile e fresca e pregna di balenanti bellezze…
Bel vento di ponente, brezza, ragazzo vagabondo di un Casoretto!
Tra me e i mondi fringuellanti c’era un intrico di sortilegi
che i bei riverberi e le fogne segrete
mi corrono incontro, e fanno festa, e le stelle
improvvisano l’allegria di un ballo allemando alle grondaie che scendono,
e io mi sento un fiore in un giardino di fiori, un chiaccherare,
un andare come sorsate di vino chiarello frizzo
allo svolgersi dubitoso della più intima timidezza che nel ventre
si tiene nel buio nascosta come si tiene l’uccello…
Capriccioso-fantastico San Materno,
chiesa di Santa Maria Bianca di sempre,
mia edicola della giornata, turbine di polvere agli angoli delle strade,
polvere degli uomini che passano e sembra che stemperata in aria
s’inoltri verso il giorno lontano che viene pigramente,
furtivi sassi delle strade, ombrose condutture che scorrono,
aria di Casoretto, buie osterie da succhiavinacci,
oh sí, vi tocco, sí, parlerei con voi,
ma quante voci diverse, quanti respiri porta il vento!
e questa danza monferrina della fantasia
che per la piazza balla a gambe sciabolanti…
E, allo spiovere delle luci dai lucenti lampioni
schizza e saltella e rade la strada il gioco del pallone dei ricordi,
l’attraversa il vento.
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