Nota di lettura
di Alessio Alessandrini
In “Piazzale senza nome” (Pordenonelegge-Samuele Editore, 2021, Luigia Sorrentino vuole, fortissimamente vuole, indagare “la verità della violenza” e lo fa mettendo in parallelo la morte dei vecchi – ivi rappresentata nella fattispecie dal privato e dolcissimo ricordo paterno – e quella dei giovani che sperperarno la vita spavaldi e ingenui, travolti dal vento che osceno sferza il piazzale senza nome, luogo spoglio e aperto, dove spesso capita di essere sorpresi dal colpo, dall’inatteso grido che preannuncia la “fine di ogni cosa“.
La violenza è nelle pupille dei corpi prima “affamate“, poi “allagate” e, infine “incenerite” come di martiri agonizzanti, i molti che gremiscono questi dolenti versi (si pensi al simbolico riferimento alla capra, al suo essere capro espiatorio e agnello sacrificale, suo malgrado).
È il silenzio armato nelle pupille, lo stupore che si traveste da allarme, a rincorrere lungo questi versi bacchici, apparentabili, per forza evocativa, crudezza e crudeltà anche espressionista, a un canto di sangue, canto che poco concede alla compassione e al lirismo edulcorato per ricamare, fino in fondo, la parola che inchioda e sa rintracciare “tutto il nascosto che travolge“.
Potrebbe apparire un terribile requiem, quello di Luigia, un lento e disperato coro da tragedia, un plastico scenario infernale, se non fosse che la struttura perfetta – prosa e pometto – rimanda più a una purgatoriale ascesa da inferum verso un cielo solo sospetto ma pur sempre pronto a rivelarsi se, come chiosa uno dei versi più belli della raccolta, “la fine era (ndr: ed è) la dove qualcos’altro cominciava.” Continua a leggere