“Quando Brunella Antomarini mi ha chiesto di scrivere qualcosa sul rapporto tra la poesia e i sensi, le ho risposto proponendole di fare degli incontri che avrei registrato e poi trascritto.
Quello che Brunella Antomarini mi diceva a riguardo mi interessava e mi stimolava molto. Anch’io, come lei, volevo saperne di più. Per questo alla fine, dopo aver tentennato per un anno intero attorno a diverse soluzioni su come utilizzare il materiale, ‘illuminata’ da un ultimatum tipografico, ho deciso di trascrivere integralmente (o quasi) questi ‘dialoghi’, avvenuti in tre incontri: dal dicembre del 1999 al febbraio del 2000. Ho lavorato al testo per rendere scorrevole ‘la lingua parlata’ togliendo o aggiungendo, ma sempre rimanendo fedele al modo in cui i dialoghi si erano sviluppati, i ‘contenuti’ dei nostri dialoghi. Ho voluto lasciare anche quelle che ho titolato come ‘Appendici a registratore spento’ dove, ritrovata una certa forma di intimità, mi sono lasciata andare a sintesi più ‘libere da orecchie indiscrete’. Le Appendici sono state possibili grazie agli appunti presi da Brunella Antomarini. Nota: nel terzo e ultimo incontro mi fu offerta una Tequila. Incautamente. Forse.”
Paola F. Febbraro
Dicembre, primo incontro
Brunella Antomarini La teoria dello Ione di Platone dice che i poeti sono anelli di una catena. Ognuno si attacca al precedente e si trasmettono le poesie, uno con l’altro fino ad arrivare allo ‘spettatore’.
Una poetessa americana, Susan Stewart, ne dà un’interpretazione più psicoanalitica. In un suo saggio riporta la ricerca di uno psicoanalista che racconta come certi pazienti, per esempio, facciano delle azioni del tutto inutili e si chiede come mai; sono come compulsioni che si scoprono legate a quelle che un antenato compiva con un motivo preciso; c’è n’è uno che vuole fare il geologo e vuole spaccare le pietre, però sente che in quest’azione c’è qualcosa che lo riguarda profondamente e scopre che suo padre o suo nonno spaccava le pietre, nel senso che era stato mandato ai lavori forzati e poi morto nei campi di concentramento; per cui questo spaccare le pietre era connettersi all’azione di qualcun altro. L’azione di qualcun altro penetra dentro di lui e lei dice che allo stesso modo nella voce del poeta c’è quella del poeta precedente, come dice Platone. La voce è come un magnete. Ecco perchè questa voce del poeta prende – lei usa un’espressione bellissima – ‘una traiettoria difficile’. La traiettoria difficile consisterebbe nel ritmo, nel verso o anche in questa voce, che, come dici tu, non è mai una voce qualsiasi, ed è una voce che viene dal corpo, è somatica. Tu ascolti il poeta e poi questa voce viene dentro di te e tu la ripeti a qualcun altro e un altro e così via; questa voce che deve essere solenne, ritmica perchè fa parte di altre regole che non sono solo quelle della semplice comunicazione, una voce che deve essere assimilata dal corpo e non dall’apparato simbolico. C’è allora una specie di domanda: perchè noi dovremmo avere bisogno di questa voce? Perchè gli esseri umani si sono costruiti questo grande abito di parlarsi per queste voci, come se non ci bastasse un solo tipo di comunicazione, quella ordinaria.
Paola F. Febbraro Per bisogno di conoscersi. Tutti. Ma adesso qualsiasi risposta mi sembra insufficiente, in altre parole più complicata del necessario. Potrei dirti che il linguaggio poetico è il linguaggio capace di far compartecipare emozione e memoria. Ed è attraverso l’emozione che il ricordo può diventare nutrimento e strumento per qualsiasi presente.
Brunella Antomarini Ma tu usi dei versi, non parli così… tu hai bisogno del verso giusto per dare un inizio e una fine al flusso di parole. Questa ritmicità allora è solo uno strumento? E’ strumentale solo al fatto che io l’assimilo meglio?
Paola F. Febbraro Il ritmo, la lunghezza del verso deve tentare di riprodurre la mia energia, il mio fiato, direi quasi il tempo di ricezione dell’emozione. Stendo la misura del mio respiro. Ho un pensiero limpido e poi ho bisogno di fermare il senso… perchè c’è anche il senso. Le parole hanno un significato e il significato più avanti si va più ‘pesa’, perchè una parola se ne porta appresso tanti, è carica di significati di altri ‘sistemi’: politici, storici, giuridici, anche letterari e quindi quella parola potrebbe significare qualcosa di diverso da quello che io vorrei liberare. Vorrei che la parola portasse soltanto quello che nomina oppure soltanto se stessa. Quella parola allora potrà anche sorprendermi.
Brunella Antomarini Deve essere sorprendente la parola del poeta?
Paola F. Febbraro La parola nella poesia non deve essere sorprendente, casomai deve essere capace di suscitare ‘meraviglia’ che vuol dire vedere il mondo e se stessi da un punto di vista ‘diverso’, mai esplorato prima. Quando scrivi una poesia quello che scrivi è come se fosse lì per la ‘prima volta’. […]
Appendice a registratore spentoLa parola sia come suono che come segno era parola magica.
Il linguaggio è potente, capace di violenza. Una parola di guerra è di per sè violenta. La pubblicità della lotta al cancro, per esempio, è scritta in un tono così violento… Cioè dice che c’è una guerra contro il cancro ed è questa guerra che fa venire il cancro. L’anima interiorizza le parole, per questo la lingua poetica non è solo questione di tecnica e di tradizione. Il poeta ha anche una responsabilità, perchè una poesia è un organismo, è un ‘oggetto particolare’ riproduce un percorso di esplorazione e conoscenza. Con una certa parola io continuo da una parte e non da un’altra. Se decido di non usare il tu e di scegliere l’io è perchè in quel punto è un tu così generico, direi così neutro, che confonde. La poesia è sciamanica, capace di ‘guarire’. Perchè una poesia guida a un’esperienza d’entrata e di uscita che tu stesso hai fatto, tu fai entrare al primo verso e fai uscire all’ultimo. E’ testimonianza di un’esperienza che può essere rivissuta. Per questo il poeta ha la responsabilità di non confondere se stesso e il lettore. La poesia manda al giusto verso il sentire. Il verso è il giusto verso, se confonde manda al verso sbagliato il sentire. Qui il verso sta ad indicare anche una direzione, un orientamento. Il ritmo, la versificazione, la tradizione, evitano che si vada in una direzione qualunque.
Gennaio, secondo incontro
Brunella Antomarini C’è una differenza tra scrittura e oralità? Noi ormai apprendiamo attraverso la poesia scritta e la riproduciamo per iscritto. Mi sembra che le due cose possano anche essere due cose diverse, o no? Se non sono diverse dobbiamo ridurle a qualche cosa che hanno in comune? Oppure l’una è soltanto quella che viene dopo l’altra, la scrittura viene dopo l’oralità? Comunque noi ci riferiamo anche solo inconsciamente alla sonorità, anche se usiamo la scrittura, oppure c’è una sinestesia per cui noi usiamo tanto l’una quanto l’altra, tanto l’orecchio quanto l’occhio?
Paola F. Febbraro La parola scritta fa sempre riferimento al Canto ma ne è privata proprio perché è scritta. Oggi dopo Rilke, che è stato l’ultimo che ha toccato il Canto, scrivere poesia è aver perduto il Canto. Il Canto è la cosa perduta della poesia, perché se tu scrivi non canti. Questo estremizzando e l’estremizzazione serve in quanto spinta etica alla ricerca, alla chiarezza, all’essere sempre presenti al proprio lavoro. Bisogna essere più tranquillamente chiari: la perdita del canto non è una cosa che distrugge la poesia ma è una cosa che io quando scrivo debbo sapere. […]
Appendice a registratore spento
Essere poeta vuol dire essere visibile e invisibile insieme: il poeta, essendo esso stesso strumento della propria arte, si porta appresso se stesso dovunque vada. Croce e delizia.
Bisogna avere così cura del proprio essere strumento che l’autodichiarazione pubblica di essere poeta provoca l’identificazione con qualche cosa che non gli appartiene. Il lavoro è più interiore. Mi sento poeta perché mi sento in amicizia con altri poeti prima di me. E questa amicizia reclama una forte ‘intimità’, una forma di segretezza.
I campi semantici della parola. Per esempio ‘serena disperazione’. Io ho riconosciuto la mia genealogia poetica, seguendo questa parola in quel campo ed escludendone altri. Con ogni parola puoi fare un percorso oppure un altro. Per esempio ape. Ape, così presente nelle poesie di Emily Dickinson. Quando scrivo ‘ape’ evolvo quel ronzio e non un altro. Ape ora per me è diventata intelligenza femminile così piena di passione anche fisica, anzi, di desiderio. Così come me l’ha trasmessa Emily Dickinson, e poi anche Amelia Rosselli. La uso come ponte per viaggiare, come vero e proprio strumento di ricerca. Se l’ape attraversa certi significati, attraversa certi ponti, mi porterà in altri campi. Mi prendo la responsabilità di usare ape in modo da continuare l’esperienza di quel poeta. Per fare questo devo prima di tutto essere capace di riconoscenza verso Emily Dickinson. E in un certo senso essere riconoscenti significa anche andare avanti, non ripetere lei. La riconoscenza passa anche attraverso una certa commozione. Mi commuove chi per la prima volta porta una parola in un altro campo o la dà così: nuda e cruda. Mi spinge a curare me stessa come strumento della poesia. Mi commuovo perché so quanto è costato scrivere in quel modo. Nella commozione apprendo. Cerco di avere cura di questa mia commozione, non me ne lascio annebbiare ma ne assimilo l’insegnamento che è: sii libera di continuare a lavorare.
Un ringraziamento particolare a Brunella Antomarini, Franca Rovigatti e Maria Teresa Carbone per aver ‘portato in luce’ nel corso degli incontri di PoEtiche 2010 questo discorso sulla poesia di Paola F. Febbraro, pubblicato da Il Cannocchiale, N.1, gennaio/aprile 2002 qui riportato solo in un piccolo frammento.
Luigia Sorrentino
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