Alberto Bevilacqua
Nota critica di Gisella Blanco
Dalle Poesie di una vita è possibile trarre il lungo racconto di quel “manoscritto indecifrabile” che è l’umana esistenza. D’altronde, “il sapere non è che una grafia/con cui ciascuno nasconde ciò che sa”. In Piccole questioni di eternità (Einaudi 2002), opera riassuntiva contenente anche alcuni testi rivisitati, Alberto Bevilacqua esprime, sin dal titolo, una delle sue molte, luminose vocazioni: “La bellezza non è del creato/ma di chi ne muta l’incanto”.
La raccolta mostra, a cominciare dai primi testi, un andamento narrativo che attinge dalla brillante esperienza di romanziere, nonché da quella di regista e sceneggiatore, dell’autore di Parma, nato nella fervida cittadina emiliana ma poi trasferitosi a Roma, come fecero i più anziani Attilio Bertolucci, Giorgio Bassani e Pier Paolo Pasolini.
Lo stesso Pasolini definisce, con una formula apparentemente criptica, il Bevilacqua degli esordi come “irrelato fantasma idillico[1]”, riferendosi, forse, a quell’interlocuzione astratta e segretamente colloquiale che caratterizza le sue poesie, perfino quelle più auto-diegetiche.
Gli influssi della tradizione letteraria e di quella cinematografica italiana, propense all’arte dell’alludere senza dire (che si tratti, riguardo alla scrittura, di una vera e propria aposiopesi o di una narratività eloquente nell’uso della reticenza, come nel caso di Bevilacqua), pur senza evidenti epigonismi hanno certamente influenzato lo stile poetico dell’autore parmigiano.
L’opera svolge un “tuffo/negli abissi quotidiani” attraverso un linguaggio talvolta piano (che ricorda le dolci altalene lessematiche del Canto alla durata[2] handkeiano), talaltra più acrobatico nel lessico e nella costruzione filosofico-gnoseologica: “sia ciò che dev’essere: un vocativo/d’avventura, ma l’avventura impossibile/- proiezione desertica del Muro/la sua/ombra proiettata all’indietro/di voci, cose, qualche eco futuro”.
Alcuni titoli sembrano imporre una tensione ludica, accostabile al divertissement, a testi altrimenti intrisi di un’ironica nostalgia, ben percepibile nell’incontro tra la dimensione prosodica e quella semantica.
Il topos erotico si svolge per brevi scorci narrativi, e a volte perfino volutamente affabulatori, che accedono a un’enfasi immaginifica capace di travalicare il dato oggettivo e trasfigurarlo in categorie psico-antropologiche intrise di un acceso intimismo: “…allora, non trovando la lampada, non potrò/sapere se sono vivo/a tentoni appoggiando l’orecchio al tuo cuore/a qualche tua aritmia/non sarò più uno/che si ascolta sulle tue pareti della mia prigione”.
Tra i versi, si compie una personificazione oggettuale, come se l’oggetto diventasse un alter ego dell’io, soggettivizzato ma non ancora umano, che si presenta univoco ma in perenne confronto con l’alterità: “i treni che vanno coi miei anni/amanti miei che già/mi hanno dimenticato come una loro avventura”.
Perfino un indesiderato commiato può far parte di quelle minime questioni inerenti all’enormità eternale che permea il vivere quotidiano: “l’essere/infelici con poco” è un talento inviso e stupefacente che affiora nel distacco dal sé, perpetrato nell’addio.
C’è, poi, un afflato goliardico che viene liricizzato attraverso un lessico proposto, in alcuni casi, in chiave gergale o dialettale, e che trasfonde l’elemento carnale in quello emotivo, pur rimanendo lontano dalla mistica e dai moralismi più assertivi.
Le soluzioni esistenziali si possono rintracciare in una visione panica dell’universo, osservato come organismo autonomamente funzionante in cui l’individuo è un ingranaggio necessario nell’interconnessione degli elementi naturali: “che smetta il mondo/la trovi/lui la soluzione”.
L’atto amoroso, interpretato sulla scia della tradizione romantica come metamorfosi dell’amato nell’amante (si pensi alla suprema voluttà abbandonico-trasfigurale del wagneriano Tristan und Isolde, e all’ontologia sessualizzata, la “Sessistenza”[3], di cui ha scritto Nancy), diventa origine e archetipo dell’io che smarrisce sé stesso per ritrovarsi nell’altro: “mia cara perdita dei contorni/di me”.
L’eternità di Bevilacqua è una ricostruzione storicizzata di piccoli anfratti terreni e memoriali che infrange la regola dell’assoluto come dimensione postuma ed extraumana, e si può intercettare nelle scintille dell’intuito, tutta disseminata nella relazione tra le cose comuni e le personali normali.
Alla madre, figura ricorrente nell’opera, è dedicata una preghiera laica, bonariamente sacrilega nella descrizione del sembiante carnale. E’ proprio nel corpo materno che si incontrano il mito dell’origine e l’ossessione della malattia che funge da cupo vaticinio dell’abisso esistenziale. Bevilacqua riesce a esprimere l’indicibile con una tenerezza recondita che lo rende ampiamente accettabile, quasi familiare: “mi guardi invecchiare/senza capire il mistero:/sono tutte le voglie/da anni taciute nel tuo utero”.
La filialità non si perde con l’età adulta, anzi rappresenta un continuo, velleitario ritorno a una genesi strappata alla purezza e restituita all’impudicizia della vita.
Si tratta, al di là dei rimandi filosofici, di una poesia d’esperienza diretta e indiretta, che ripercorre, in chiave letteraria, ricorrenze di vita (come l’internamento materno nell’ospedale psichiatrico), fatti di cronaca, ricordi e situazioni concrete. Anche i luoghi (Parma, il Po, le ambientazioni padane) partecipano di una correlazione oggettiva adoperata come espediente d’analisi di un panorama etico e psicologico che supera la dimensione meramente empirica – anche e soprattutto – nei tratti di maggiore dettaglio realistico.
L’atto memoriale, consustanziale al poeta, è la seconda intonazione di una voce sola, di un monologo duale che riconsidera in chiave storica il tempo dell’esperienza e, al contempo, lo travasa nel tempo emotivo: “ci siamo sbagliati a disperare di noi,/siamo perfetti/nel duetto per voce sola”. Continua a leggere→