02/10/1957 Nella foto: il poeta Giuseppe Ungaretti a una conferenza @ArchiviFarabola [258605]
COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA
Il 2 giugno di quest’anno ricorrono i cinquant’anni dalla scomparsa di Giuseppe Ungaretti: una data che inevitabilmente fa pensare all’eredità lasciata dal massimo esponente del cosiddetto “ermetismo” (benché l’etichetta non renda giustizia della complessità della poesia ungarettiana). In illo tempore la sfida Ungaretti-Montale era senz’altro più sentita. Nella storia degli studi assistiamo oggi a una netta vittoria del secondo, appartenente al partito che fortemente lo sostenne a sfavore del cattolico Ungaretti (non si dimentichino le parole di Leone Piccioni: «Ebbe contro il partito dei laici, che gli contrappose sempre Eugenio Montale. Non gli è mai stata perdonata la vicinanza con il mondo cattolico e il sostegno che quel mondo dava alla sua opera»).
Eppure, sebbene in maniera diversa e secondo differenti sfumature liriche, entrambi sono stati altissima espressione di un’inquietudine religiosa che li ha visti sfiorarsi nell’agone, toccare il vertice della loro arte a distanza di circa un decennio: Ungaretti con Il Dolore nel 1947 e Montale con La bufera e altro nel 1956. Due capolavori come punti di luce infinitamente lontani nella siderale distanza degli astri letterari, eppure percorsi entrambi da una sete di assoluto e di disvelamento del sacro nell’esperire la sofferenza individuale e universale. Quella che nel poeta più anziano è parola nuda, poésie pure, confessione e in senso lato «vita d’un uomo», nel più giovane è impalcatura metaforica, poésie metaphysique, misticismo e costruzione di un personaggio. Da un lato c’è il Cristo di Mio fiume anche tu («Cristo, pensoso palpito,/ Astro incarnato nell’umane tenebre,/ Fratello che t’immoli/ Perennemente per riedificare/ Umanamente l’uomo,/ Santo, Santo che soffri,/ Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,/ Santo, Santo che soffri/ Per liberare dalla morte i morti/ E sorreggere noi infelici vivi,/ D’un pianto solo mio non piango più,/ Ecco, Ti chiamo, Santo,/ Santo, Santo che soffri»); dall’altro la Cristofora «iddia che non s’incarna» della Primavera hitleriana e di Iride («Perché l’opera tua (che della Sua/ è una forma) fiorisse in altre luci/ Iri del Canaan ti dileguasti/ in quel nimbo di vischi e pungitopi/ che il tuo cuore conduce/ nella notte del mondo, oltre il miraggio/ dei fiori del deserto, tuoi germani»). Due stili e due modi d’approccio alla poesia inconciliabili fra loro, benché ci sia una prossimità nelle tematiche e nell’uguale reazione al descensus ad inferos della guerra e dei disfacimenti della storia. Continua a leggere→
Poeta, critico e traduttore di assoluto rilievo e di respiro internazionale. Il suo nome completo era Irwin Peter Russell. Giramondo, sempre in movimento da Bristol, a Londra, da Berlino a Venezia, passando per la Francia, la Germania e l’Iran, scelse infine di trasferirsi definitivamente in Italia dopo gli eventi della Rivoluzione Iraniana. Continua a leggere→
Erede della tradizione del primo Montale e di Sbarbaro, attenta ai modelli di Goethe, Whitman, Lawrence e Borges, la scrittura poetica di Giuseppe Conte si è consolidata nel tempo seguendo i sentieri paralleli della prosa, come dimostrano l’insieme dell’opera romanzesca e gli scritti di viaggio raccolti in Terre del mito (1991). Con L’Oceano e il Ragazzo (1983) – salutato da Calvino e Citati come un libro di svolta nella poesia italiana – e Le stagioni (1988), fino alle ultime Ferite e rifioriture (Premio Viareggio 2006), si profila dunque una soggettività forte, estranea a qualunque minimalismo o sperimentalismo, capace di mediare fra la passione della forma e la profonda conoscenza e frequentazione di culture e mitologie lontane, orientali e occidentali, e di coniugare una vena erotica con una vena metafisica e con la passione civile. Continua a leggere→
Letture
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La morte di Leopoldo María Panero il 6 marzo 2014, a 65 anni, a Las Palmas, in Spagna, in una clinica psichiatrica, mi ha lasciato molta amarezza. Se dovessi spiegare perché, potrei dirvi che avrei voluto incontrarlo, parlargli, dirgli qualcosa, prima che se ne andasse. Il poeta spagnolo era profondamente segnato dall’esperienza di una malattia che lascia segni indelebili nella vita di una persona. Eppure, ha scritto versi assoluti, che testimoniano l’assoluta solitudine dell’uomo, il disperato desiderio di consegnare una parola unificata, ai molti che erano in lui, per riappacificarsi con l’uno dalle molte persone. Continua a leggere→
In memoria di te, Alda Merini
a cura di Luigia Sorrentino
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Non poteva scegliere giorno migliore per nascere, Alda merini, il 21 marzo, anno 1931. E il 21 marzo è la data istituita dall’UNESCO per ricordare la poesia nel mondo, giorno in cui ricorre l’ingresso della Primavera. Quest’anno, la Commissione Nazionale Italiana per l’UNESCO ha scelto di celebrare la Giornata a l’Aquila, eleggendola quale “sede” della Giornata Mondiale della Poesia per dare luce a questa città distrutta che, con il terremoto del 6 aprile del 2009, ha visto sbriciolarsi le proprie splendide architetture e le ricchezze artistiche e culturali.
In questa Giornata così altamente simbolica, Poesia, di Luigia Sorrentino sceglie di ricordare la nascita della poetessa Alda Merini, forse la più popolare in Italia, in assoluto, (di certo quella che vende più libri di poesie, per la gioia degli editori), scomparsa il 1 novembre 2009, a 77 anni. A seguire, la prefazione a “Corpo d’amore” (un incontro con Gesù) di Alda Merini (Frassinelli, 2001) di Mons. Gianfranco Ravasi. Continua a leggere→
Nello scaffale: Sergio Garufi ‘Il nome giusto’
a cura di Luigia Sorrentino
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E’ in libreria il primo romanzo di Sergio Garufi, Il nome giusto, Ponte alle Grazie (€ 16.00) .
L’autore, predestinato alla letteratura, deve molto a un grandissimo scrittore, Jorge Louis Borges, con il quale ebbe diversi incontri, il più importante nel 1984, due anni prima della scomparsa di Borges, un incontro che avrà un ruolo fondamentale anche nel romanzo Il nome giusto.
Sergio Garufi, ‘Il mio ricordo di Borges’ “La prima volta che ne sentii parlare fu l’ottobre del 1982. Mi ricordo precisamente il periodo perché era pochi giorni prima dell’assegnazione del Nobel per la letteratura, e io lessi sulla terza pagina del Corriere della Sera – che mio padre portava a casa ogni sera dopo aver finito di lavorare – delle brevi dichiarazioni di scrittori famosi italiani che rispondevano alla domanda: ‘chi lo meriterebbe quest’anno?’. Continua a leggere→
Unanimemente promosso dalla critica americana, il romanzo “Madeleine dorme” di Sarah Bynum (Transeuropa Edizioni 2011) arriva finalmente anche in Italia. Un debutto, quello della casa editrice nella narrativa straniera, che al tempo stesso rappresenta anche una conferma: la qualità innanzi tutto.
“Madeleine is sleeping” venne pubblicato per la prima volta nel 2004 dall’editore statunitense Harcourt, fermamente convinto dell’assoluta originalità del testo ciò nonostante assolutamente inconsapevole di quello che di lì a poco sarebbe successo. E accadde che “The New Yorker” inserì l’autrice esordiente Sarah Shun-lien Bynum – americana di origini cinesi – nei 20 migliori scrittori di fiction under 40, inoltre accadde che autori tipo Jonathan Franzen, Michael Cunningham, Marilynne Robinson e ZZ Packer salutarono quell’esordio come uno dei più felici della letteratura americana degli ultimi vent’anni. Continua a leggere→
Mark Strand, in assoluto una delle voci più rilevanti della poesia contemporanea, ha appena pubblicato in Italia per gli Oscar Mondadori una raccolta di tutte le poesie: L’uomo che cammina un passo avanti al buio, Oscar Mondadori, 2011 (euro 15,00).
In questa video-intervista realizzata da Luigia Sorrentino il poeta di origine canadese, Mark Strand, premio Pulitzer per la poesia nel 1999, rivela un’inedita lettura di tutta la sua opera poetica.
Intervista di Luigia Sorrentino Accademia Americana di Roma
18 marzo 2011
Siamo qui per parlare della sua opera di poeta, l’opera di un poeta definito della ‘montagna e del mare’, con tratti peculiari che lo differenziano da altri poeti suoi contemporanei statunitensi.
Innanzitutto ci dica una cosa…
Lei come altri scrittori, si era avviato alla pittura, scoprendo poi, a un certo punto, di dedicarsi totalmente alla scrittura… è successo a Orhan Pamuk, premio Nobel per la Letteratura del 2006, ed è accaduto a lei che nel 1957, a 24 anni, ha deciso di vivere da poeta. Ci racconta com’è andata? Che ricordi ha dei suoi esordi letterari?
“Ho sempre letto poesie, sebbene fossi un pittore, ero uno studente d’arte, non ero un pittore vero e proprio ma bensì uno studente pittore, ma in un certo modo l’essere uno studente d’arte mi aveva preparato per la scrittura, perché avevo il senso della formalità dell’impresa, prima davo forma alle immagini e in un secondo momento davo forma alla poesia. Deve esserci molta armonia tra la prima linea, quella centrale e quella alla fine, proprio come in un quadro, tutti gli elementi si uniscono. Ho rinunciato alla pittura perché ho capito che non ero un buon pittore, dopo mi sono dedicato alla poesia, ma non ero un bravo poeta. Ma ho sentito che avevo la possibilità di migliorare come poeta. Ci sono stati anche altri motivi. Nella mia famiglia i libri erano molto importanti, mi sono spesso sentito inadempiente come lettore e inadeguato come scrittore. E improvvisamente ho sentito il bisogno di compensare questa inadempienze e questa inedeguatezza scrivendo. E’ iniziato come un modo per rispondere ai desideri e alle speranze dei miei genitori.”
La sua prima poesia, quella scritta negli anni Sessanta, sembra dominata dalla pittura di Edward Hopper su cui lei ha anche scritto una monografia negli anni Novanta. Ci spiega come entra l’opera di un grande artista visivo, quale fu Hopper, nella sua opera?
“In realtà non era propriamente la pittura ad avermi influenzato così tanto all’inizio, ma piuttosto scrittori come Kafka, Borges, Calvino, questi erano gli scrittori che ritenevo interessanti, nessuno di loro era un poeta, eccetto Borges, ma comunque avevano scritto una prosa molto intensa, densa, ed erano in contatto con ciò che noi tutti oggi definiamo “misterioso”, lo strano, l’inaspettato. Ero affascinato da tutto questo nei loro lavori, ma al contempo ero anche affascinato dal lavoro dei surrealisti, perché si erano specializzati nell’inaspettato e nell’irrazionale. Sicuramente non si può scrivere qualcosa di sensato ed essere irrazionale, devi essere capace di trasformare l’irrazionalità in qualcosa che abbia una forma. In altre parole devi permettere al lettore di sperimentare l’irrazionale, non in un modo programmato, ma in maniera formale. Perché in generale non viviamo le nostre vite in modo razionale, le nostre vite sono dominate dagli incidenti, e molto spesso siamo motivati da forze irrazionali che non comprendiamo. Siamo spinti a questo, spinti a fare quello, a volte contro il nostro interesse migliore. E queste contraddizioni interne erano qualcosa che io volevo esplorare nel mio lavoro, e che analizzavo nel lavoro degli altri.”
Via via, negli anni, la sua identità poetica sembra che si sia dedicata a un esercizio di purificazione interiore… “L’uomo che cammina un passo avanti al buio” è il titolo della raccolta in cui, per la prima volta, viene proposta un’ampia scelta in Italia della sua produzione poetica tra 1964 e il 2006.
Chi è “L’uomo che cammina a un passo davanti al buio”?
“Rappresenta ognuno di noi. Non è una persona in particolare, non sono nemmeno io, sebbene pensi di camminare un passo avanti al buio, specialmente ora che sto invecchiando, il buio diventa sempre più vicino, ma è il destino di ognuno di noi quello di essere un passo avanti al buio. Lo si può pensare in questo modo, ogni giorno che si vive, che si sopravvive, si sfugge al buio… è questo il senso che volevo trasmettere con il titolo del mio libro in italiano. Ninet’altro. Ha un senso? … ok”
Tutta la sua opera – è stato detto – sembra dominata dal tema dell’attesa, c’è qualcosa che non avviene, una poesia che rievoca, in qualche modo, che celebra qualcosa che non accade ma che prima o poi accadrà…
Come definirebbe la sua poesia?
“Non posso definire la mia poesia. Non credo spetti a me. Di certo ci sono certi temi che si ripetono nella mia poesia, aspettative, attesa, delusione, il buio che avanza, tuttavia quando scrivo non ho in mente niente di tutto questo. Non considero il mio lavoro nella sua totalità, mai, ma considero le singole poesie mentre ci sto lavorando. Poi una volta che ho scritto la poesia, non ci penso più. Me ne sbarazzo. E inizio un’altra poesia. Se avessi pensato di avere dei temi sui quali dovevo ritornare ancora e ancora, mi sarei sentito paralizzato. Sarei stato prigioniero di una nozione astratta di ciò che stavo facendo. Sarebbe stata la mia morte.”
Lei potrebbe essere definito anche “il poeta della disillusione”. Forse questa è una delle principali caratteristiche della sua opera. Lei dice che immaginazione collettiva si è affievolita… L’uomo contemporaneo ha perso l’immaginazione, la creatività. Perché è accaduto questo?
“Io mi considero un comico. Credo che le mie poesie siano divertenti. Credo che “L’uomo e il cammello” sia una poesia piuttosto divertente, in cui l’uomo e il cammello della poesia si rivoltano contro il poeta, poiché ha interpretato il loro significato. Ed è questo il motivo per cui alla fine ritornano e dicono: “l’hai rovinata, rovinata per sempre” riferendosi alla poesia. E la poesia stessa che si vendica con il poeta. Ma, voglio dire, un uomo e un cammello che cantano, è ridicolo… un uomo e un cammello che appaiono all’improvviso. A dire la verità ho avuto l’immagine di un uomo e di un cammello e mi sono detto… come posso metterli insieme in una poesia? Cosa posso fare con un uomo e un cammello in una poesia? E così ho inventato questa piccola storia, che ho pensato fosse divertente. Ma il termine disillusione è troppo forte, non mi sento disilluso. A volte provo disillusione, ma chi no lo fa?! Credo che se si leggono le mie poesie con più attenzione diventano sempre più divertenti.”
Possiamo dunque dire che “L’uomo che cammina un passo avanti al buio” è l’uomo contemporaneo che cammina in uno spazio oscuro, che precede il buio in cui si concluderà la sua esistenza?
“L’uomo che cammina un passo avanti al buio non sta camminando attraverso il buio, cammina nella luce. Il fatto che il buio sia dietro di lui e forse lo sta raggiungendo, Ma se fosse stato nel buio e questo lo stesse perseguendo, non sarebbe stato possibile fare la distinzione che ho fatto. Noi viviamo in una condizione benedetta di illuminazione. L’illuminazione, la luce non significherebbero niente se non avessimo un senso del buio. E’ semplice, proprio così come appare. Tutto è nel buio. Chiaramente. Guardate oggi, è una bella giornata, sarebbe ridicolo se dicessi viviamo nel buio. Ideologicamente forse, noi viviamo tempi bui, ma poi l’oscurità diventa materia di discussione.”
E’ stato detto, di lei, il “il poeta dell’assenza”…il suo è un io che si sottrae al paesaggio, la sua è una poesia semplice, ma anche misteriosa…il suo dire “io” non è un’autoaffermazione, ma una negazione, è un cancellare il sé…
Perché ci sono “tanti vuoti”, tante “sospensioni” all’interno della sua poesia?
“Non lo so. Semplicemente non lo so. Ho la sensazione che quando una persona si siede in una stanza, da sola, e scrive, perde la sua connessione con il mondo e diventa il segretario dei pensieri di qualcun altro. In un certo senso si esce dal corpo, si perde il senso del tempo, lo spazio è alterato e si diventa la creatura della propria immaginazione. Quello che voglio dire è che l’assenza dal mondo reale è palpabile quando si è soli in una stanza. Il mistero è qualcosa di inspiegabile, altrimenti non sarebbe misterioso. E’… da dove vengono queste idee e cosa ti dice la poesia su dove desidera andare. Tutto questo è mistero, in un certo senso non sono io a dire alla poesia dove andare, è la poesia che mi spinge verso una direzione, la poesia ha una propria voce, e io divento il segretario della mia voce. E la mia voce è il prodotto dell’immaginazione. Oltre a questo non saprei cos’altro dire a parte il fatto che preferisco vivere nel mistero, e l’assenza è proprio questo.”
E’ stato detto di lei… anche “poeta pastorale” del genere pastorale, idilliaco… ma non nel senso proprio del termine… nel senso che la sua poesia si colloca in uno spazio idealizzato e artificiale … che rende, per questa ragione, più intensa però la sofferenza, tanto che la critica parla di “idillio negativo di Strand”…
Lei è d’accordo con questa interpretazione? Quali sono, dunque i suoi paesaggi?
“Vorrei concordare con questa caratterizzazione della mia poesia, tuttavia non ne ho mai sentito parlare, perchè non leggo le critiche dei miei lavori, non leggo recensioni. La gente mi dice “è buona, va bene, non lo è “… io non dico bene, ma chi se ne importa. Ma credo che sia possibile che abbia creato questa negatività idealizzata. Il paesaggio, l’ambiente delle mie poesie, è in realtà puro arredamento, le montagne appaiono sullo sfondo, il mare che appare è sullo sfondo, così come lo è la luna, quello che mi interessa è l’azione che avviene all’interno della poesia. Per me l’immagine di una poesia è l’azione all’interno della poesia. E’ l’evoluzione della consapevolezza, all’interno dei limiti formali della poesia. Se questo suggerisca dolore o piacere, non lo so. Posso soltanto dire che nello scrivere queste poesie io provo piacere. Poi se trasmetto dolore, e sono sicuro che può succedere… è una domanda difficile. Guardate alle migliaia di crocefissioni che sono state dipinte… la crocefissione è l’esempio del dolore estremo, secondo me. Noi guadiamo questi quadri che possono essere di Velazques, Tintoretto o persino di Salvador Dalì, noi proviamo piacere, il dolore non viene trasmesso. Dobbiamo rimmaginare il dolore, attraverso il piacere che viene trasmesso. In realtà ho scritto una poesia che parla di questo processo. La maggior parte delle poesie parlano di perdita e sono tristi. Ma questa tristezza e questa perdita si identificano nella bellezza, ed è la bellezza che ci commuove.”