Il libro postumo di Biancamaria Frabotta

Bianca Maria Frabotta
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«Nessuno veda nessuno»

di Sacha Piersanti

«Partiste sotto la luna e non ci fu tempo / di cancellare i segni della vostra presenza»: così inizia uno dei momenti più intensi di Nessuno veda nessuno (Mondadori, 130 pp., 15 €), l’ultimo libro di Biancamaria Frabotta, che se non fosse la poetessa (“la poeta”, avrebbe detto lei, senza assecondare l’idiozia degli schwa e degl’asterischi) che è stata e che è, diremmo è partita anche lei, e anche lei non ha avuto il tempo di cancellare i segni della propria presenza.

Ma quando si ha a che fare con un’opera come quella di Frabotta, quando si ha a che fare con Biancamaria Frabotta, è meglio e giusto e necessario non giocar con le parole, non farsi sedurre dagli eufemismi, vezzo imperdonabile degli umani nella Storia, degli umani che nella Storia non san starci lucidi e umani per davvero – Biancamaria Frabotta non è partita, dunque: Biancamaria Frabotta è morta il 1° maggio scorso e Nessuno veda nessuno è il suo ultimo libro. Il suo primo libro postumo.

Strutturato in tre sezioni, disomogenee e però in dialogo tra loro, tre sezioni che interagiscono pur mantenendo una propria relativa autonomia di portata e di tenuta, per temi e toni e per figure, Nessuno veda nessuno si fa leggere come raccolta e romanzo, taccuino e diario, mescolando aneddotica e autobiografia, riflessione teorico-letteraria e storico-politica, intenso lirismo e quasi profetica narrativa: «La sua ultima passeggiata cominciò / in un giorno come un altro» (p. 121), «Ma intatte sono rimaste le folte / radici abbeverate da mani gentili. / Basta un inciampo e si cade / nel costante agguato secolare» (p.74).

S’inciampa e si rovina, si cade a terra e spesso più non ci si rialza, specie quando la fragilità del corpo non è usura del tempo ma proprio condizione di natura e di più: precondizione d’esistenza.

E di fragilità e di cadute, di consistenze precarie, e come già frante di per sé, parla proprio il cuore di questo libro, se la nascita sembra un «piombare» «da un altro pianeta» (p. 36), se i morti che appaiono in sogno faticano a «stare al passo coi vivi» (p. 52) e noi, i vivi, «scaraventati / dentro al mondo» (p. 105), «non siamo mai in noi» (p. 61), ma «siamo uno sciame di molecole / una materica memoria senza ricordi» (p. 9) e «scriviamo nell’aria la nostra resistenza» (p. 10), a caccia di una qualche luce, di una «lampada a fasi alterne» (p. 92) almeno.

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Frabotta, convitata di pietra a Parrano

Bianca Maria Frabotta
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Ricordo di Biancamaria Frabotta
di Paolo Fabrizio Iacuzzi

 

Cara Luigia,
Ti pensavo appunto per dire che proprio nella magica Parrano [ndr dove si sono radunati alcuni poeti italiani che hanno partecipato alla manifestazione “Lingue mute| Poeti contro la guerra” a cura di Luigia Sorrentino con la collaborazione di Alessandro Anil e Fabrizio Fantoni] abbiamo parlato di Biancamaria Frabotta come di una convitata di pietra.

Io la conoscevo se non attraverso la sua poesia. Di persona la vidi a colazione in un bed and breakfast invitati da Poesia Festival nelle terre modenesi. Alta e ossuta quasi prosciugata di ogni orpello. Scambiai con lei rare parole. Io un poco intimidito.

Questa la poesia che scelgo è tratta da “Mani mortali”, Mondadori 2012

Entrando nel campo cercai
le roselline selvatiche nella rete
gli iris infestanti, i papaveri
i gelsomini bianchi e dopo,
i cavoli, i carciofi fra i narcisi,
sull’arancio ferito i grappoli
profumati della zagara.
in terra giaceva l’edera vizza
screziata di morte lumache
eppure, scriveva Bernardin
non tutto era stato ucciso
dalla terribile severità di quell’inverno.
Ancora, in stile fiorito, il suo giardino
godeva di tardive, ma robuste violette
promesse di fragole e primule, risalenti
filari e tracce di linfa nei peri.
In verità le viti cominciavano
appena ad aprire i germogli.

Ti confesso che forse per me il suo libro migliore è forse il tardo “Mani mortali” per quella natura spietatamente vista nel disincanto della vecchiaia. E anche il verso si fa nudo referto di una malattia. Feroce cartografia dei guasti del tempo sulla natura. Cronaca spietata di un inesorabile corrompersi dell’idillio nel riverbero che la natura produce nell’uomo. Una natura quasi già postuma a se stessa tutta frugata nei suoi interstizi e nelle sue pieghe. Eppure indomita si rigenera da se stessa invincibile. Continua a leggere