Dante, la letteratura e i poeti

Gandolfo Cascio, Credits photo Dino Ignani

Gandolfo Cascio, Dolci detti. Dante, la letteratura e i poeti, Marsilio 2021.

QUARTA DI COPERTINA

In diversi passi della Commedia Dante riflette su ciò che la letteratura è o compie. Così, di volta in volta, può consolare oppure servire da guida, diviene patria o appare come una seducente metamorfosi; mentre in alcune Rime la poesia si fa addirittura arma finissima per guerreggiare con gli amici più cari. C’è poi il rapporto particolare, e sovente determinante, che alcuni scrittori hanno avuto con la sua opera, e tale fenomeno senz’altro costituisce uno dei capitoli più interessanti della ricezione dantesca. I saggi qui raccolti affrontano dunque, con esemplare coerenza di metodo e limpidezza di stile, la relazione tra il poeta medievale e la scrittura, e provano, attraverso una lettura ravvicinata dei testi, a interpretare queste miracolose conversazioni. 

Gandolfo Cascio insegna Letteratura italiana e Traduzione all’Università di Utrecht, dove inoltre conduce il progetto di ricerca Observatory on Dante Studies. Tra i suoi libri segnaliamo Michelangelo in Parnaso. La ricezione delle «Rime» tra gli scrittori (Marsilio 2019, in traduzione in inglese), Le ore del meriggio. Saggi critici (Il Convivio 2020, Premio Giuseppe Antonio Borgese).

 

INTRODUZIONE

 

E io a lui: “Li dolci detti vostri,
che, quanto durerà l’uso moderno,
faranno cari ancora i loro incostri”.

Purg. XXVI 112-114.

 

TESORI, GIARDINI E SONETTI

È inutile chiedersi perché i poeti scrivano le loro fantasticherie. La primizia fu la collera d’un ragazzo, e da lì, di volta in volta, si può provare a indicare dei moventi o intenti che, d’altronde, per ognuno sono diversi; per non dire poi del fatto che, col tempo, possono anche mutare. Da tremila anni si dettano versi per la scienza delle cose, perché in adorazione della grammatica, per compiacere una distante chimera, sospendere le rimerie che inquietano giorno e notte il cervello, per dono a chi è degno di lode, come lamento luttuoso, a favore dell’aereo capriccio, per stregare, stupire o – come capita all’evangelista analfabeta, mite al comando del pulito ditino dell’angiolo – per obbedienza[1].

Ogni caso, allora, andrebbe interpretato con buon senso[2], studiato con gli strumenti più opportuni ed economici a disposizione, e mettendo da parte pregiudizi e superstizioni. Su tale premessa, in questo libro tento di ordinare alcune considerazioni di Dante sulla letteratura, per schiarire certi elementi della sua poetica; e rammento anche delle vicende, immediate o parte della sua afterlife, di chi, pure scrittore, gli si è accostato: i cari Forese, Cino e Da Maiano; Baretti, furente più che mai, che agguanta quel libro santo come un fioretto per schermare l’onore della lingua; Borgese e Mandelštam che invece l’alzano come uno scudo per parare i calci e la mostruosità del secolo; e c’è chi ha preso l’uomo e l’ha posto sulla scena come un amabile ma indolente pupo.

L’esperienza dantesca resta senz’altro la più potente e venerabile che conosciamo, ma non si presenta come una lezione definitiva, anzi, in alcuni punti è perfino discorde. Si rammenti, per esempio, come maturò il suo convincimento dell’amore, tanto da portarlo a rompere con Cavalcanti; o anche lo scambio di rime con altri amici, che a volte sono degli spassosi botta e risposta, talmente distanti dall’immagine solenne e cupa vulgata da diffidarne, o approvati come il benefico ginnasio per l’impresa più ardita e mirabile, quando, al contrario, andrebbero elevati proprio perché impulsivi, insolenti e smodati, cioè giovani. Continua a leggere

La parola, il valore della testimonianza

Perché scrivere? Quale impulso muove da secoli l’uomo a narrare storie? È l’interrogativo da cui parte la riflessione di Franco Rella, facendo appello al bagaglio di letture accumulate nel corso della propria vita e interpellando gli autori che più lo hanno segnato. Da Dante a Cavalcanti, da Shakespeare a Benjamin, e poi Goethe, Kafka, Bataille, Roth, senza dimenticare i classici greci e latini, non esiste narratore che non si sia posto l’interrogativo e che non abbia cercato di spiegare – e spiegare a sé stesso – la realtà che ci circonda. L’esigenza di raccontare nasce proprio da quella realtà, e chi scrive può manipolarla, far interpretare la parte del protagonista a un personaggio di finzione, per poi rendersi conto che la protagonista assoluta della narrazione è la parola stessa, unica difesa che l’uomo abbia contro il male, unica arma capace di organizzare l’immagine del mondo e della realtà, come in un ideale inventario che raccolga tutte le esperienze vissute. Quella stessa parola che Pasolini suggeriva di usare con cautela, che per il solo fatto di portare con sé «un carico d’anima» legittima l’altrimenti insensata attività di scrivere.

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Alessandro Agostinelli, “L’ospite perfetta”

Alessandro Agostinelli

RECENSIONE DI MATTEO BIANCHI

Divertirsi sopra un testo, permettersi di non riflettere su ogni sua singola parola, è la sfida lanciata dall’ultima fatica in versi di Alessandro Agostinelli, L’ospite perfetta. Sonetti italiani, una raccolta finemente parodica, edita dalla Samuele Editore.

Si tratta di una fatica alternativa e anticonformista, che non intende mettere alla berlina lo stile dei poeti chiamati in causa piegandolo a una realtà bassa e degradata, bensì ottenere l’effetto opposto in chi legge; ossia esaltare le nostre radici liriche riesumandole e impugnandole per restituire dignità letteraria a un periodo storico controverso. Se non addirittura assurdo e sconfortante come i mesi di confinamento ai quali ci ha costretto la pandemia, senza trascurare il congelamento dell’empatia e di qualsivoglia sentimento di immedesimazione gli uni riguardo gli altri.

Non a caso, l’autore sceglie di emulare un genere che per definizione scaturì fuori dalle corti, in disaccordo con i luoghi comuni del potere, negando la visione e la versione “ufficiale” del mondo nonché rivalendosi del suo significato ideologico per dare voce a dissensi e dissapori.

Similmente si rivolse a Cecco Angiolieri, alla sua tempra sfrontata e demistificante, anche Fabrizio De André, ma non tralasciando mai la concezione culturale dentro la quale il poeta duecentesco si esprimeva. Prendendo il largo dal celebre sonetto S’i’ fosse foco…, Agostinelli passa in rassegna Cavalcanti, Petrarca, Ariosto, Alfieri, Foscolo, Leopardi e Gozzano.

Il suo atteggiamento è sentimentale per la tradizione e annuncia un presente in cancrena, un corpo sociale in disfacimento: «Vaghe mascherine io vo’ cercando / Che tornar a buon uso esse sanno / Come quel che ‘ndossava babbo mio / Non sul giardino ma ‘n acciaieria, / Dove le stelle son gli scintillii / Della colata a caldo all’altoforno», entrando ne Le Ricordanze.

Infatti, grazie al distacco critico che lo allontana secoli e secoli dalle penne amate, l’autore tende a riprodurre i medesimi toni emotivi che hanno reso indimenticabili quei versi, dimostrando così la difficoltà di elaborare con sguardo attuale la poetica degli spiritelli di Cavalcanti. Continua a leggere