Nel centenario della storica antologia degli Espressionisti, Crepuscolo dell’umanità, vi proponiamo il terzo e ultimo contributo di Alessandro Bellasio su Georg Heym, dopo essere entrati nell’esperienza estetica di Gottfried Benn e di George Tralk.
COMMENTO DI ALESSANDRO BELLASIO
Traduzioni di A. Bellasio
Quando, risucchiato dalle correnti gelide dello Havel, dove si è tuffato per salvare l’amico Ernst Balcke, Georg Heym muore, non ha ancora 25 anni, ma si lascia alle spalle un corpus di centinaia di poesie, oltre alle prose.
La morte per annegamento è un motivo ricorrente della sua opera, attestata anche dall’unica raccolta pubblicata in vita, Der ewige Tag (accanto al riferimento classico di Ofelia, ne abbiamo testimonianza in poesie come Schwarze Visionen, o Die Tote im Wasser). E d’altra parte, il motivo si rivela presagio di un destino. L’espressionismo perde di colpo il proprio enfant prodige, il suo giovanissimo, implume Baudelaire (tale era considerato Heym ai suoi esordi). Il poeta della Berlino irrequieta e ipertrofica di inizio novecento se ne andò talmente presto che di lui a malapena poterono registrare le cronache, eccezion fatta per quelle letterarie.
Heym che fu, probabilmente, il più espressionista fra tutti gli espressionisti – o meglio: un caposcuola, il poeta in cui certe distillazioni simbolico-metaforiche, comuni a un’intera generazione, vennero aggregandosi secondo una chimica divenuta poi classica: la metropoli patibolare e predatrice, lo scatenamento delle forze distruttive nell’uomo moderno, orfano di dio quanto di sé stesso, la perdita del baricentro, il dissidio tra malinconia e rivolta, e quel peculiare senso di catastrofe imminente che avvolge i suoi versi di una inconfondibile luce violacea – quel perimetro livido entro cui vaga e precipita un’umanità debilitata, spettrale. Continua a leggere