Incontriamo Francesco Forlani (nella foto) alla libreria KOOB di Roma per parlare di Autoreverse (L’ancora del mediterraneo, pagg. 157, euro 13,50). L’allure del performer-scrittore è in perfetta simbiosi con il suo alter ego, il mostro sacro, Cesare Pavese che nella sua opera i Dialoghi con Leucò aveva affrontato il tema della morte come condizione ineluttabile della natura umana. Ed è proprio sui Dialoghi con Leucò che Pavese scrisse il suo epitaffio: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”.
Le installazioni di Roberto Donatelli affisse alle pareti rimandano a ebollizioni della materia, provengono da un mondo mai visto – forse un mondo interiore – da galassie lontanissime che si dissolvono, a un certo punto, nella forma del tavolo attorno al quale siamo seduti. Dentro questa stanza planetaria le nostre voci si mescolano alle voci di poeti altissimi, come Pasolini e Ungaretti, ci attraversano le loro voci nelle spennellate di un artista del suono, RSX, voci che riverberano nell’ambiente semivuoto. Nell’atmosfera glaciale in cui siamo la luce è azzurrognola, fredda, però a un certo punto tutto si riscalda e da una sorta di alambicco arriva… un odore, improvviso. E’ un… profumo. Il profumo di una voce rimbomba come l’anima di uno strumento, una fibra che trasporta le note dalle corde alla cassa di risonanza.
La nostra conversazione inizia da questa dilatazione, proprio come accade in Autoreverse: Francois e Angelo si ritrovano al bancone del bar. Parlano e bevono. Si sono conosciuti alla reception dell’Hotel Roma a Torino, l’albergo dove Cesare Pavese si è suicidato. Lì Angelo, immigrato meridionale, fa il portiere di notte e Francois ha prenotato per la sua ultima notte in Italia, la stanza in cui Cesare Pavese trascorse le sua ultima notte. (Qui la parola notte ricorre tre volte).
The cats will know – I gatti lo sapranno -. E’ il titolo di una delle ultime poesie di Pavese. Le ultime poesie sono in inglese. Lo scrittore parla la lingua della sua ultima donna. Costance. Viene dall’America. E “America significa tutto” per Pavese. America è Costance, Costance Dowilng. L’ultimo infelice amore. La sua figura, ora, attraversa lo spazio. La luce è netta, azzurrognola, passa da una parete alla parete opposta e poi sparisce. Dissolta. – The cats will know – I gatti lo sapranno -. E’ quasi un’ossessione. E’ la sua ultima voce. Se mai riusciremo a sentirla.
Nell’albergo Roma i destini dei diversi personaggi per ironia della sorte, si incrociano ed hanno, alla fine, un comune denominatore, nella costante, sovrapposizione.
di Luigia Sorrentino
Il video
(Con Francesco Forlani, Luigia Sorrentino, Roberto Donatelli, RSX e Fabrizio Fantoni)
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Intervista a Francesco Forlani
Autoreverse: il tuo romanzo inizia dove termina la vita di Cesare Pavese. Cesare Pavese trascorre la sua ultima notte a Torino, all’albergo Roma, e Francesco Forlani trascorre la sua prima notte a Torino all’Hotel Roma.
La prima notte trascorsa all’albergo Roma ha fatto ‘circuitare’ le esperienze come spesso accade in letteratura. Ho dormito all’Albergo Roma dove aveva dormito Cesare Pavese la sera in cui aveva deciso di andare via… delicatamente.
Arrivando a Torino venendo da Parigi, ho scoperto una cosa sorprendente. Se vieni da fuori Torino la scritta sotto i portici dice ‘Hotel Roma’. Se invece ritorni da Piazza Castello la stessa scritta con il neon sospeso sotto i portici dice ‘amoR letoH’. Letizia dell’amore e del poeta. O amore letale, amore mortale? L’insegna dunque ti fa vedere la ‘double face’, l’altra faccia, l’autoreversibilità, la reversibilità, semplicemente, di una storia. Ed è questa reversibilità a rendere reversibile anche il suicidio che è il gesto irreversibile per eccellenza.
Tutto il romanzo è attraversato da un tono ironico e coinvolgente che diviene il registro narrativo delle storie dei personaggi che si intrecciano. Autoreverse fa, dall’inizio alla fine, un discorso ‘rovescio’. Man mano ci si accorge che i personaggi diventano uno, la voce diventa monologante, in un canto per voce sola, una mondodia.
Cesare Pavese viene trovato morto da una donna dell’albergo, una cameriera ‘storica’ molto amica del proprietario dell’hotel che soffriva della mia stessa malattia…
Faceva molto caldo quando entra in camera la cameriera. Guarda Pavese e dice – in piemontese ovviamente – : ‘Ma come? aveva tanti capelli e si è suicidato così?’ Lo stesso suicidio, la morte di Pavese fa vedere, in controluce, tutta l’ironia della sorte. In questo aneddoto è l’ironia la sorte che racconta la cameriera.
La dimensione poetica è presente in tutto il romanzo, ma ci sono anche degli aspetti grotteschi, ridicoli: già, ‘perché un uomo con così tanti capelli dovrebbe suicidarsi?’
Nel romanzo si passa da Cesare Pavese a Angelo Cocchinone che è, naturalmente, un personaggio ridicolo. Il ridicolo è il massimo per un romanziere. E’ quanto di più ‘romanesque’ (nel senso di ‘poetico’) possa capitare a un uomo… Diciamo che l’ironia è nella semplicità dei personaggi. Pavese amava la semplicità dei personaggi, di luoghi autentici, autenticamente popolari. In realtà non è ‘attrezzato’ Pavese per la società letteraria e culturale dell’epoca che è ‘complicated’, cioè complessa, nel senso anche borghese…
Con questo romanzo ho voluto mettere in scena personaggi che forse Pavese avrebbe amato: il portiere di notte, la sua squadra dell’albergo e tutta una serie di figuranti, di persone che si incontrano, e che sono di passaggio, come la ‘madame’ che va ogni fine mese all’albergo Roma…
Come è nata l’idea di Autoreverse?
Io credo nella dimensione ‘romanesque’ (‘poetica’) dello scrittore.
C’è invece chi dice che dobbiamo essere dei narratori di qualcosa che è altro da noi, vale a dire agli antipodi dell’autobiografia… Io credo che una cosa non è vera perchè l’abbiamo sperimentata e vissuta. Una cosa è vera – anzi è ancora più vera – quando è una cosa che avremmo potuto vivere e non abbiamo vissuto.
Se tu oggi incontrassi Cesare Pavese cosa vorresti dirgli?
La prima notte all’hotel Roma ricordo che ci fu una dimensione molto… quasi da ‘actor studio’ nel senso di entrare e immediatamente immergersi nella storia che volevo raccontare. Mi sono guardato in quello specchio, che era lo stesso specchio in cui Pavese si era specchiato, lo specchio e il letto erano gli stessi elementi dell’epoca. Poi c’è la storia legata a una delle camere che nel romanzo il lettore scoprirà… Ho visto Pavese accogliermi malissimo come può accoglierti un torinese, quando uno ‘sbarca’ in casa sua. Mi ha bruciato, il suo primo sguardo. Ho provato un senso di estraneità, di ostilità… Poi, invece, siamo entrati proprio in risonanza, con il lato disperato che ho, che abbiamo tutti… Noi tutti possiamo immaginare in bianco e nero, senza un sorriso, e invece scoprire di essere ‘persone a colori’, con una voce forte. Ecco, Pavese mi ha messo ‘sulla pista’ della storia che era giusto raccontare, la storia che ho raccontato.