Sentire un peso – l’ottava parte
di un grammo – e tu che dall’altra
parte mi pareggi se cedo
un lascito di cose estive prese
in prestito ogni volta che ti penso.
Irene, sei già più grande di me
che sembro appena nato
ed è tutta mia questa moltitudine
di giorni da colmare – che pare
ci sia vento sempre
e sempre qualcosa da dire.
Io me ne starei con te, non fosse
tutta in cielo l’anima che posso,
perché è come amare un frutto
quando cade, se poi la terra
si dimostra.
L’aria che tira,
l’ammacco delle stagnole
sul mare piccolo,
ma come fai verso tu
che ti ritrai per non so quale
rigolo e tocca a me la biglia.
E resti sulla linea a mezzeria
come sanno fare bene
le sole taccole,
che per distinguersi
gettano gli occhi al sentiero
e un corpo di grigio lassù
fino alle scapole.
Passato via tutto il trambusto
potrei estrarti viva da un orecchio.
L’ostio del cielo radice al vento –
il maltempo agglutina nell’orto,
grugnisce un lampo.
Questo è il mio nome per sempre,
vetro minuscolo di ossidiana
che dalla cima sterile di un pino
punta dritto verso casa.
Tutti sanno dove andare: l’acqua
nel mastello, il cieco alla fontana.
Ma qualcuno ha detto basta. L’odore
di chinino allerta la ferita:
vita mia divisa – del tempo cosa fare. Continua a leggere