Alessandro Agostinelli, “L’ospite perfetta”

Alessandro Agostinelli

RECENSIONE DI MATTEO BIANCHI

Divertirsi sopra un testo, permettersi di non riflettere su ogni sua singola parola, è la sfida lanciata dall’ultima fatica in versi di Alessandro Agostinelli, L’ospite perfetta. Sonetti italiani, una raccolta finemente parodica, edita dalla Samuele Editore.

Si tratta di una fatica alternativa e anticonformista, che non intende mettere alla berlina lo stile dei poeti chiamati in causa piegandolo a una realtà bassa e degradata, bensì ottenere l’effetto opposto in chi legge; ossia esaltare le nostre radici liriche riesumandole e impugnandole per restituire dignità letteraria a un periodo storico controverso. Se non addirittura assurdo e sconfortante come i mesi di confinamento ai quali ci ha costretto la pandemia, senza trascurare il congelamento dell’empatia e di qualsivoglia sentimento di immedesimazione gli uni riguardo gli altri.

Non a caso, l’autore sceglie di emulare un genere che per definizione scaturì fuori dalle corti, in disaccordo con i luoghi comuni del potere, negando la visione e la versione “ufficiale” del mondo nonché rivalendosi del suo significato ideologico per dare voce a dissensi e dissapori.

Similmente si rivolse a Cecco Angiolieri, alla sua tempra sfrontata e demistificante, anche Fabrizio De André, ma non tralasciando mai la concezione culturale dentro la quale il poeta duecentesco si esprimeva. Prendendo il largo dal celebre sonetto S’i’ fosse foco…, Agostinelli passa in rassegna Cavalcanti, Petrarca, Ariosto, Alfieri, Foscolo, Leopardi e Gozzano.

Il suo atteggiamento è sentimentale per la tradizione e annuncia un presente in cancrena, un corpo sociale in disfacimento: «Vaghe mascherine io vo’ cercando / Che tornar a buon uso esse sanno / Come quel che ‘ndossava babbo mio / Non sul giardino ma ‘n acciaieria, / Dove le stelle son gli scintillii / Della colata a caldo all’altoforno», entrando ne Le Ricordanze.

Infatti, grazie al distacco critico che lo allontana secoli e secoli dalle penne amate, l’autore tende a riprodurre i medesimi toni emotivi che hanno reso indimenticabili quei versi, dimostrando così la difficoltà di elaborare con sguardo attuale la poetica degli spiritelli di Cavalcanti. Continua a leggere

La lingua aspra di Michelangelo

Gandolfo Cascio / Credits photo Dino Ignani

 

Michelangelo scrisse le Rime per affrontare di petto temi su cui, come artista, non poté esprimersi come voleva, e per farlo scelse una lingua aspra, distante dalla limpidezza del Cinquecento. In genere la critica si è mostrata cauta, sovente scontrosa, verso questo suo “secondo mestiere”; mentre di tutt’altra qualità è stata la ricezione tra gli scrittori che ne intuirono la caratura. Il volume di Gandolfo Cascio, Michelangelo in Parnaso. La ricezione delle Rime tra gli scrittori, Venezia, Marsilio, 2019,  indaga per la prima volta il rapporto tra diversi autori (Varchi, Aretino, Foscolo, Wordsworth, Stendhal, Mann, Montale, Morante e altri) e i versi buonarrotiani e, attraverso delle severe analisi dei testi, illustra perché Michelangelo occupi nel Parnaso un posto più nobile di quello che la storiografia ha tramandato.

ESTRATTO DAL LIBRO

INTRODUZIONE
di Gandolfo Cascio

LE CONVERSAZIONI TRA SCRITTORI

 

Per Michelangelo dura la maldicenza – non sempre a suo sfavore – del carattere saturnino, sdegnoso, «selvatico»[1]; ma ciò che conta è che la sua collocazione nella storia della cultura occidentale è netta: egli fu l’uomo che dominò consapevolmente lo spazio in cui agì, che incarnò mirabilmente la quintessenza del Rinascimento superando chicchessia.

Ormai molti sanno che fu anche poeta[2]. Il primo autografo si fa risalire al 1503, o a pochi anni prima, e tranne brevi intervalli continuò a scrivere per il resto della sua vita. Il tesoro del corpus considera 302 componimenti perfetti, perlopiù madrigali e sonetti, in una lingua aspra, sprezzante, a momenti spassosa e schietta, discosta dalla limpidezza e dalle fresche acque che allagarono il Cinquecento. A questi vanno aggiunti degli esercizi e abbozzi, incipit irrisolti, smilze adattazioni da classici e autocitazioni, sovente riportati nel verso degli schizzi o su foglietti. Di molti sono pervenuti diversi testimoni: dato che sfibra l’ipotesi del dilettante. Il romanzo[3] racconta molto: il senso dell’esistenza, qualche avvenimento della Storia, la bellezza e, supremo su tutto, l’amore dolente o benevolo nelle varianti di ἀγάπη e ἔρως, della φιλία e στοργή e, a modo suo, della ξενία.

Alcune rime erano note nei giri dei coltissimi romani e fiorentini che si passavano le trascrizioni, le incastonarono in lettere, assistettero a esami pubblici. A metà degli anni quaranta si pensò addirittura d’allestire un canzoniere; non se ne fece niente ma questo non vuol dire che Michelangelo non si curasse della propria reputazione di poeta, tutt’altro. Malgrado queste premesse favorevoli, la princeps, parziale e corrotta, venne data fuori soltanto nel 1623; la prima edizione critica nel 1863[4]. Continua a leggere

Ritorna “Autografo”, la rivista fondata da Maria Corti

La casa editrice Interlinea riprende la pubblicazione della rivista di letteratura di inediti e rari fondata da Maria Corti (nella foto) “Autografo“, promossa dal Centro Manoscritti di autori moderni e contemporanei dell’Università di Pavia, che propone numeri monografici sui maggiori autori del Novecento letterario italiano.
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