Una poesia di Alessandro Bellasio

Alessandro Bellasio

CLESSIDRA

«Una vena, spargendo all’improvviso
l’albume del proprio sangue in stasi,
divenne la parola, la grande
navata in cui il pensiero
scolpì il pensiero, bruciandolo.
Non si riebbe, neanch’esso,
mai più dal trauma, quella
fitta, altissima e
a forma di torre
piantata al centro
di sé, tra i soffitti dove
il vuoto ancora
aleggia sulle acque, con nevi immobili,
bicchieri, urina e gusci
in levitazione su di lui. Fu
l’assoluta
mancanza di ossigeno, l’aria
strappata
che dominava quelle altezze o forse
fu il peso
schiacciante che devasta, sulle cime,
il tempo – lì davvero
globo azzurro, densa, insostenibile
deità di asma… Fu
un movimento brusco
che lo ridestò da questa parte
della ferita, dove giunse solo – cavo
d’acciaio
per i tiranti della mente, bulbo
oculare e
vento sottile
planato con il suo silenzio sulla valle…
Non seppe, poi, mai più di sé,
riavvolto, all’improvviso,
nel nastro di acque oscure, scomparve
nel canneto, in una scia di limo
e minuscoli insetti
che lo riconobbero, chiamandolo per nome.
Al suo risveglio – raccontano i saggi –
apparisti tu».

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