LA LINGUA INQUIETA E LA LINGUA DI UN POPOLO
IDA TRAVI
Nel Breviario inutile, supplemento a “L’Ortica” del marzo 2003, al secondo paragrafo, titolato Della Comunicazione, Giannino di Lieto scrive: “Una Società di parlanti è attraversata da una ragnatela o intersezioni, le Società di Discorso. La configurazione di una Società di Discorso è circolare, quindi fondamentalmente chiusa”.
La lingua del discorso sembra vincente, sembra unificante solo perché è chiusa.
C’è molto di costrittivo nel suo unificare, c’è una perdita di libertà nel Discorso pubblico.
C’è una finzione. Passare attraverso il discorso pubblico, senza il coraggio della
poesia, vuol dire uscirne spellati.
La Società di Discorso chiude, non lascia parlare; la scrittura di questa Società di
Discorso zittisce l’altro. Ecco allora che la parola poetica si ribella, forza il Discorso
chiuso, e all’improvviso apre un varco, sia nel passato che nel futuro.
Il varco è in realtà uno spiazzo millenario nel quale irrompono le civiltà che forse dormono, ma non sono ancora estinte. Dormono accanto a un futuro prossimo senza tempo.
Nello spiazzo millenario, se pur frantumato e scaduto, si fa vivo un essere antico, che mostrandosi come nuovo, riemerge dalle tempestose acque della storia.
Nessuno può sapere in che rapporto sta con l’ombra. Questa è cosa che non si può dire, ma solo poeticamente indicare, come farebbe un bambino col dito teso, come farebbe un muto indicando qualcosa di “profeticamente” accaduto.
Il tempo della capra
quando si munge piegati sul ginocchio
era uno spiazzo estivo,
ombra in corsa d’acqua
la fatica saltellante negli squadri cavi
graffiare del naufrago le mani
povere piante
come d’antico vivere:
il grido si è spellato sulla bocca.
Giannino di Lieto, Indecifrabile perché (“Giochi verticali”, p. 31)
Indicare poeticamente (silenziosamente) è un gesto antico e nuovo insieme. È gesto antico e nuovo in ogni lingua, in ogni civiltà. Questo gesto poetico racchiude un silenzio che si salva anche nella parola pronunciata. E un silenzio sonoro unisce contemporaneamente ciò che sta fuori – all’aperto – e ciò che batte – dentro – con il pendolo, al muro della nostra casa.
Vivere in punta:
se l’alba brucia i boccoli dell’aria
come bolle scoppiano i tempi iridescenti
oscilla fra muri
un pendolo d’incenso
nella moltiplicazione
l’anima è riflessa in fuga d’oro.
Giannino di Lieto, Indecifrabile perché (“Un pendolo”, p. 41)
Questo interno, in cui l’anima si mette in fuga d’oro, è simile allo spiazzo estivo in cui campeggia “l’ombra in corsa d’acqua, quando si munge piegati sul ginocchio”: siamo in quell’interno-esterno in cui il mondo non può coincidere coi suoi nomi e con la voce di chi quei nomi chiama. Eppure coincide con il gesto silenzioso di chi le cose addita, il sempre vivo, il minacciato che non muore mai, venuto allo spiazzo a scompaginare la quiete.
Siamo in quell’interno esterno-esterno dove si parla la lingua dei vecchi e dei bambini. La lingua d’un popolo. Quella non scritta. La lingua prima. La lingua del corpo-voce che nomina il mondo come se fosse la prima volta che appare. La lingua materna. Giannino di Lieto riparte da questa prima lingua, e la scavalca. Continua a leggere