Patrizia Cavalli / Credits ph. Dino Ignani
NOTA DI MONICA ACITO
Patrizia Cavalli è poeta, non poetessa.
Cavalli ha ancora la pelle perfetta di chi non si è mai resa conto di essere stata bella, nemmeno in gioventù.
Tra le lievi rughe del collo, la nuca e gli zigomi, Cavalli ha sbuffi di fumo e ragnatele, da cui si sprigiona la sua poesia, che fluisce con lo stesso ritmo sincopato del suo respiro.
Se dovessimo fare un nome, tra i tanti, capace di riannodare i fili tra il Novecento e il nostro secolo, sceglieremmo senz’altro la poeta di Todi.
Cavalli scappò dalla città di Jacopone, perché il suo carattere ruvido e orgoglioso mal sopportava le restrizioni di un borgo ancora medievale.
Approdò così a Roma, dove conobbe la Morante, che la laureò poeta, non con l’alloro di Petrarca e nemmeno con le tamerici di Virgilio, bensì con la poesia che non avrebbe cambiato il mondo.
E Cavalli forse scelse di prendersi il titolo di poeta proprio per non deludere Elsa, perché Cavalli, come tutte le donne pigre, aveva bisogno di qualcuno che la costringesse a credere fermamente in se stessa.
Non ho seme da spargere per il mondo
non posso inondare i pisciatoi né
i materassi. Il mio avaro seme di donna
è troppo poco per offendere. Cosa posso
lasciare nelle strade nelle case
nei ventri infecondati? Le parole
quelle moltissime
ma già non mi assomigliano più
hanno dimenticato la furia
e la maledizione, sono diventate signorine
un po’ malfamate forse
ma sempre signorine.
da “Le mie poesie non cambieranno il mondo” (Einaudi, 1974)
La poesia di Cavalli è fatta di nervi, sangue e muscoli: ha salde gambe, sta in piedi da sola e non ha bisogno di arabeschi di spiegazioni, di arringhe e di sillogismi aristotelici.
Le sue parole sono chirurgiche, spaccano il capello: in un’intervista recente al Corriere della Sera, Cavalli ha dichiarato che la poesia ha il compito di narrare il corpo, perché è inutile parlare dell’anima.
Cavalli è poeta e donna che abita la sua fisicità, e i suoi versi sono scienza del corpo e dei sentimenti.
Il suo sguardo tattile riesce, infatti, a dare parole a quei particolari trasalimenti privi di parole del corpo.
Ne “Il Cielo” (1981) vi è il ricamo del silenzio, che Cavalli cuce sul lenzuolo della sua solitudine.
Il rumore la intossica, le impedisce di scrutare la realtà con occhio chiaroveggente e con quell’endecasillabo che fa pensare alla mano del Montale di “Ossi di Seppia”. Continua a leggere→