Jean-Luc Nancy, “Hymne stomique”

NOTA DI LUIGIA SORRENTINO

Lunedi 23 agosto 2021 la notizia della morte a Strasburgo a 81 anni di Jean-Luc Nancy, il grande filosofo francese discepolo di Jacques Derrida.

Jean-Luc Nancy  ha scritto opere indimenticabili tradotte In molti paesi del mondo.
Tra i suoi libri pubblicati in Italia, Essere singolare plurale, (Einaudi, 2001); La creazione del mondo (Einaudi, 2003); i due volumi di Decostruzione del cristianesimo (Cronopio, 2007-2012), Sull’amore (Bollati Boringhieri, 2009); Politica e essere con. Saggi, conferenze, conversazioni (Mimesis, 2013); Prendere la parola (Moretti&Vitali, 2013) e Noli me tangere (Centro ediotoriale Dedhoniano, 2015).

Con Nancy, uno dei maggiori protagonisti della discussione filosofica contemporanea, avevamo cominciato a scriverci con una certa regolarità da febbraio 2020, fino all’ aprile di quest’anno, e cioè da quando, in piena pandemia, avevo dato vita, sul blog, al progetto Catena Umana/Human Chain, un dialogo a più voci fra diverse discipline umanistiche nel tempo del Coronavirus. A prendere  la parola sulla “crisi globale” innescata dal Covid 19, il 29 maggio 2020, era stato proprio Jean-Luc Nancy, con un’intervista a me rilasciata pochi giorni prima.

Quest’anno, in una fredda mattina di gennaio,  Nancy mi inviò  per email un suo testo inedito scritto a dicembre 2020,  Hymne Stomique, che qui pubblico integralmente per la prima volta e in lingua originale.

E’ un testo di rara bellezza. Custodisce un mistero che ognuno potrà fare suo.

Unica indicazione per lettore che vorrà cimentarsi nella traduzione nei commenti del blog: la parola “stoma” deriva dal greco e significa “bocca”, qui da intendersi come “figlia del respiro“. La bocca per Nancy è il luogo dell’accadere, è l’esperienza del toccare, del toccarsi, è la nudità del mondo che non ha origine né fine.

 

HYMNE STOMIQUE

Jean-Luc Nancy, décembre 2020

 

Chant premier

Fille du Souffle et de la Chère,
père exhalé, mère absorbée
en toi par toi dans ta trouée
comme le veut l’ordre des choses
mâle aspiré dans les nuées,
femelle sucée avalée,

toi passage dedans dehors
en haut en bas et leurs mêlées,
leur brassage leur masticage
– Mastax fut de ta parenté –
toi la mêleuse la brouilleuse
souveraine des amalgames
amal al-djam’a al-modjam’a
ou malagma du malaxer
toujours l’un qui dans l’autre passe
en transmutation d’alchymie

toi la parleuse la mangeuse
la discoureuse la buveuse
la clameuse la dévoreuse

salut, Stoma commissures humides
rejointes disjointes
viande en logos, mythos en bave

salut, toi seule véritable
seule réelle dialectique !  Continua a leggere

“Olimpia, tragedia del passaggio”

 

PREMESSA

di Luigia Sorrentino

 

Olimpia, Tragedia del passaggio (in scena al Napoli Teatro Festival Italia al Giardino Romantico di Palazzo Reale il 16 luglio 2020, h.22.30) trova la sua ragione più profonda nella distanza dell’uomo contemporaneo dal suo frammento divino.

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Questo primo testo scritto per il teatro, che riprende alcune sezioni di Olimpia (Interlinea 2013) si presenta con un altro titolo e un nuovo personaggio, Empedocle.

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Il tema centrale di Olimpia, tragedia del passaggio è il transito fra nascita e morte, un passaggio senza peso, privi di qualsiasi sostegno materiale: «Sempre di più, il morire. Fluttuando nella sostanza emotiva che preserva e cura, svanisce la memoria di ciò che siamo. La transizione nella morte da vivi, provoca spaesamento. In un grumo di forze distese, avviene lo smantellamento, lo spostamento, l’inversione. Ritorniamo arcaici, al servizio di ciò che siamo già stati.» (v. in Olimpia, “La discendenza” pag. 79, Interlinea, 2013-2019).

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Voltarsi indietro significa quindi, entrare in dialogo – nella contemporaneità – con l’elemento poetico universalmente umano che porta a toccare la divinità, il canto dell’infinito radicato nell’umano, che ha origine in antiche tradizioni preelleniche, oscure, ctonie. Il transito ci conduce, pertanto, all’origine del linguaggio, alla meraviglia di un mondo che rinasce in forma di parola. Continua a leggere

Roberto Esposito, “Vitam instituere”

Roberto Esposito

Concludiamo il nostro lungo ciclo di incontri di Catena Umana/Human Chain con un saggio inedito scritto per il blog Rai da Roberto Esposito, uno dei maggiori filosofi viventi, di origini campane. Mai come in questo momento la comunità mondiale si sente esposta al rischio di infiltrazione e di contagio da parte di elementi estranei, i virus,  tanto da dover tutelare la vita e delle comunità, all’interno dei propri confini territoriali.
L’intervento di Esposito, VITAM INSTITUERE, si rivolge agli uomini ai quali chiede, di sforzarsi sempre più a che l’Istituzione venga rinnovata.  “Non è possibile –  scrive Esposito – per gli esseri umani, cessare di istituire la vita.”

Luigia Sorrentino

 

 

VITAM INSTITUERE

di Roberto Esposito

Se dovessi nominare il compito cui il tempo del coronavirus ci chiama tornerei all’antica espressione latina ‘vitam instituere’. Senza ripercorrerne la storia – si tratta di un passo di Demostene, citato dal giurista romano Marciano nel Digesto –, veniamo al suo significato più attuale. Nel momento in cui la vita umana appare minacciata, e anche sovrastata, dalla morte, il nostro sforzo comune non può essere che quello di istituirla sempre di nuovo. Cosa altro è, del resto, la vita se non istituzione continua, capacità di creare sempre nuovi significati. In tal senso è stato detto da Hannah Arendt, e prima ancora da Agostino, che noi, gli uomini, siamo un inizio perché il nostro primo atto è quello di venire al mondo, iniziando qualcosa che prima non era. A questo primo inizio ne ha fatto seguito un altro, un ulteriore atto istituente, costituito dal linguaggio, che lo psicanalista francese Pierre Legendre ha definito seconda nascita. È da essa che ha preso origine la città, una vita politica che ha spinto quella biologica in un orizzonte storico. Non in contrasto con il mondo della natura, ma attraversandolo in tutta la sua estensione. Per quanto autonomo nella ricchezza delle sue configurazioni, lo spazio del logos, e poi del nomos, non ha mai potuto separarsi da quello del bios. Anzi la loro relazione si è fatta sempre più stretta, al punto che è divenuto impossibile parlare di politica sottraendola all’ambito da cui la vita si genera.
La prima nascita annuncia la seconda come questa si radica in quella. Perciò non è possibile, per gli esseri umani, cessare di istituire la vita. Perché è la vita ad averli istituiti immettendoli in un mondo comune. In questo senso la vita umana non è riducibile a semplice sopravvivenza – a ‘nuda vita’, per riprendere l’espressione di Benjamin. Essendo fin dall’origine istituita, la nostra vita non è mai coincidente con la semplice materia biologica – anche quando è schiacciata violentemente sulla sua parete. Anche in quel caso, forse mai come in esso, fin quando è tale, la vita rivela un proprio modo di essere che, per quanto deformato, violato, calpestato, resta tale – una forma di vita. A conferirle questo carattere formale – ulteriore rispetto alla semplice biologia – è la sua appartenenza a un contesto storico, fatto di relazioni sociali, politiche, simboliche. Ciò che fin dall’inizio ci istituisce, e che noi stessi continuamente istituiamo, è questa rete simbolica entro la quale quello che facciamo acquista significato e spessore per noi e per gli altri.

È proprio tale rete di relazioni comuni che il coronavirus minaccia di spezzare. Non solo la vita prima, ma anche la seconda – la socialità del nostro rapporto con gli altri. Naturalmente, come è evidente, per esprimersi, quest’ultima richiede intanto di essere in vita. Non c’è alcun accento riduttivo nel termine ‘sopravvivenza’. Anzi il problema della conservatio vitae è al cuore della grande cultura classica e moderna. Esso risuona nel richiamo cristiano alla sacertà della vita come nella grande filosofia politica inaugurata da Hobbes. Mantenerci in vita è il primo compito al quale questo maledetto virus ci richiama in una sfida mortale. Ma, dopo la prima vita, insieme a essa, dobbiamo difendere anche la seconda, la vita istituita e solo perciò capace a sua volta di istituire, di creare nuovi significati. Perciò, nel momento stesso in cui facciamo di tutto, come è fin troppo comprendibile, per restare in vita, non possiamo rinunciare all’altra vita – alla vita con gli altri, per gli altri, attraverso gli altri. Ciò, al momento, non è consentito e anzi è vietato, come è giusto e logico che sia. Continua a leggere

Franco Rella, “L’assenza della storia”

Franco Rella

INCIPIT

Un uomo si trova solo in una stanza e cerca di costruire una storia che possa intramare ciò che vive il dentro di lui e ciò che sta accadendo fuori, la sua vicenda e vicende collettive. La storia non riesce. L’uomo non riesce a costruire un racconto che tenga insieme le sue contraddizioni e le contraddizioni che solcano il mondo. E’ dunque sospeso in una sorta di lacerante esitazione, braccato da una serie di domande che si ripetono e si insinuano in lui inquietanti. Alla fine, da questo suo esilio, decide di mandare comunque al mondo, a qualcuno, a nessuno le poche parole che ha.

SCRIVERE

DI FRANCO RELLA

Si dice che nulla sarà più come prima. Ogni evento in gualche modo fa deviare il corso del mondo, persino la piccola increspatura sollevata dal volo di una libellula sul pelo dell’acqua di uno stagno. Il mondo è stato piagato da Auschwitz, dalla bomba atomica, dalle guerre postcoloniali, dalle grandi migrazioni di massa, dal sessantotto, dall’11 settembre, e poi dall’irrompere delle minoranze sulla scena delle metropoli contemporanee, neri, femminismo, gay, transgender. Ora è la pandemia, è il massacro dei vecchi nelle case di riposo, è la balbettante incompetenza della politica, che fa dire che nulla sarà come prima. Che porta un intellettuale, che non solo non ha previsto il virus, ma che si è sentito impreparato ad affrontarlo, a dichiararsi disarmato. Ma Auschwitz è stato, malgrado tutto, ben più dell’attuale pandemia virale. Auschwitz è stato mettere l’insieme del sapere, a partire dall’illuminismo fino al dispiegamento della scienza e della tecnica, al servizio dell’attuazione di fabbriche di morte. Auschwitz ha corroso le coscienze, ha intaccato le anime, ha bacato le menti. Adorno ha detto una frase, che è stata ampiamente equivocata, e che rimane pur tuttavia ancora comunque discutibile. Ha detto che dopo Auschwitz non è più possibile poesia. Ma dopo Auschwitz c’è stata l’immensa poesia di Paul Celan, il tardo Montale, Wystan Hugh Auden, La montagna magica di Thomas Mann, Beckett, Philip Roth e Don DeLillo, e Yoram Kaniuk, e Yehoshua Kenaz. C’è stato Francis Bacon, Lucio Fontana, Mark Rothko. Dopo Auschwitz c’è stata anche La dialettica negativa di Adorno.

Ma dove ti collochi tu con la tua scrittura? Qui dove sei ora, nella stanza con la finestra, non hai i tuoi libri, nemmeno quel centinaio di libri che – lo hai detto da qualche parte – costituiscono il tuo bagaglio essenziale. È vero che come ha scritto Joyce non si sa mai di chi si masticano i pensieri. Hai preso per caso in mano un libro di Marguerite Duras, che certamente non fa parte del tuo bagaglio essenziale, e hai letto alcune parole che ancora prima di averle completamente lette ti eri già ripetuto più volte in questo periodo, e che caratterizzano, almeno così credi, tutto quello che stai cumulando, riga dopo riga, in queste pagine. Hai parlato della necessità di una storia, e della tua esitazione a definirla. Leggi che Duras afferma che “scrivere non è raccontare storie”. Scrivere è raccontare “una storia e l’assenza di questa storia”. È quello che hai fatto finora. Questa storia e la storia assente di Wallas, di Dora. Anche la tua storia assente, dal momento che non sei riuscito a farti trasportare dai tuoi personaggi. Sai che andrai avanti fino ad un certo punto, quando deciderai che l’assenza della storia si sia finalmente compiuta, realizzandosi come assenza oppure costruendo la sua lacuna compiuta nel corpo del testo.

È per questo che vinci la tentazione di ripercorrere ciò che hai scritto, di mettere a posto le parti dissonanti, gli elementi che ciò che è venuto dopo ha reso incongrui o contraddittori. Qualsiasi correzione cercherebbe inevitabilmente di smussare gli spigoli e gli angoli del disegno che traccia via via il profilo di quella lacuna che è lo spazio della storia che non c’è, della storia assente, che è cresciuta fino a sovrapporsi e prendere il posto di qualsiasi storia possibile. Continua a leggere

Donatella Di Cesare, “La catastrofe del respiro”

Donatella Di Cesare

INDENNI?
DI DONATELLA DI CESARE

Forse ne verremo fuori con una patente di immunità che attesti i nostri anticorpi. Passeremo, quasi per abitudine, fra sofisticati termoscanner e fitti circuiti di videosorveglianza, in luoghi e non-luoghi sanificati, mantenendo la distanza di sicurezza, guardandoci intorno cauti e diffidenti. Le mascherine non ci aiuteranno a distinguere gli amici, e a venirne riconosciuti. A lungo continueremo a scorgere ovunque asintomatici che, ignari, annidano in sé la minaccia intangibile del contagio. Forse il virus si sarà già ritratto dall’aria, scomparso, dissolto; ma ne resterà a lungo il fantasma. E noi avremo ancora l’affanno, il fiato corto.

Potremo raccontare quell’evento epocale che abbiamo vissuto. Lo faremo da sopravvissuti – inconsapevoli, magari, dei rischi che ciò nasconde. Non solo per le insidie della rimozione; né solo per quell’impegno che la vita ha di portare con sé la vita che non c’è più, di riscattarla e indennizzarla, nel lavoro infinito del lutto. La sopravvivenza può inebriare, esaltare. Può diventare una sorta di piacere, una soddisfazione insaziabile, ed essere presa persino come un trionfo. Chi è vissuto oltre, chi è sfuggito alla sorte che si è abbattuta sugli altri, si sente privilegiato, favorito. Questa sensazione di forza, come ha osservato Canetti, prevale persino sull’afflizione. Come se si avesse dato buona prova di sé, e si fosse in un certo senso migliori. Bandito il pericolo, si avverte la prodigiosa, eccitante impressione di essere invulnerabili. Proprio questa potenza del sopravvissuto, la sua rinnovata invulnerabilità, potrebbe rivelarsi un boomerang, un danno di ritorno, spingendolo a credere di poter restare indenne anche in futuro.

Saremo dunque sopravvissuti sani e salvi, immuni e immunizzati, forse già vaccinati, sempre più protetti e assicurati, in lotta per indennizzi e indennità. Celebreremo una certa resistenza, lasciando indistinto il confine tra lotta politica e reattività immunitaria. Non potremo ritenerci reduci o scampati da un conflitto perché, anche se il gergo militare ha dominato la narrazione mediatica, sappiamo che non è stata una guerra. Immaginare così quel che è avvenuto sarebbe un errore reiterato, un ostacolo per ogni riflessione. Non è stata una guerra – nessuno ha vinto. Molti sono stati sopraffatti senza poter combattere; molti hanno perso tutto, integrità e proprietà. Proprio quelli che possedevano meno degli altri, i più indifesi, i più esposti.

Essere usciti indenni da quest’inedita e immane catastrofe del respiro non autorizza a credere di essere intatti e inaccessibili al danno. L’indennità non salva. E l’immunità, più che un successo, si capovolge nel contrario. È come quando il rimedio si rivela un veleno. Perciò fallisce il tentativo di evitare a tutti i costi il danno, di calcolare l’incalcolabile, di innalzare iperdifese. L’organismo che, nell’intento di tutelare la propria indennità, manda in giro la truppa dei suoi anticorpi per impedire l’ingresso agli antigeni stranieri, rischia di autodistruggersi. È quel che mostrano le patologie autoimmuni. Bisogna allora proteggersi dalla protezione. E dal fantasma dell’immunizzazione assoluta.

Il respiro è sempre stato il simbolo dell’esistenza, la sua metonimia, il suo sigillo. Esistere è respirare. Nulla di più naturale, nulla di più emblematico. Eppure, già a partire dal secolo scorso, il respiro è stato bersaglio sistematico. Basti pensare all’impiego sempre più esteso e sofisticato di gas e veleni: dal cloro, sul primo fronte bellico, all’acido cianidrico, nello sterminio, dalla contaminazione radioattiva alle armi chimiche. Anche in seguito sembra che la scienza delle nubi tossiche e la teoria degli spazi irrespirabili abbiano fatto progressi. Al punto che si può parlare, come ha suggerito Peter Sloterdijk, di «atmoterrorismo», dato che non si prende di mira la vittima designata, bensì l’atmosfera in cui vive. Non più colpi diretti, né responsabilità palesi. Chi muore cade sotto il proprio stesso impulso a respirare. Di chi sarà la colpa? La manipolazione dell’aria ha messo fine al privilegio ingenuo goduto dagli esseri umani prima della cesura novecentesca, quello di respirare senza preoccuparsi dell’atmosfera circostante.
Non è un caso che la letteratura abbia guardato a ciò con apprensione. È stato Hermann Broch a intuire che il respiro non sarebbe più stato naturale e a diagnosticare che, mentre l’aria avrebbe finito per diventare un campo di battaglia, la comunità umana sarebbe soffocata dai veleni impiegati contro se stessa. L’atmoterrorismo rivolto all’interno mostrava già caratteri suicidi. Nel suo saggio Il meridiano Paul Celan ha celebrato il respiro, ne ha denunciato lo sterminio, ha raccolto e articolato il rantolo delle vittime e promuovendone il riscatto nella poesia, che ha chiamato «svolta del respiro». Continua a leggere

Roberto Esposito, “Il fragile equilibrio fra comunità e immunità”

Roberto Esposito

IL DOPPIO VOLTO DELL’IMMUNITA’

DI ROBERTO ESPOSITO

Bisogna stare attenti a non ridurre il significato del concetto di immunità a un’esperienza recente, di carattere medico o giuridico, volta a chiuderci entro confini difensivi nei confronti dell’altro. Ciò non è sbagliato, ma va inserito in un orizzonte più ampio, adottando uno sguardo di lungo periodo.

Da questa prospettiva, per così dire genealogica, l’immunità, o l’immunizzazione è un paradigma attraverso il quale è possibile rileggere l’intera storia moderna. Se l’esigenza di autoprotezione della vita caratterizza tutta la storia umana, rendendola possibile, è nella modernità che essa viene percepita come un problema fondamentale, e dunque come compito strategico.

Privati delle protezioni naturali di carattere teologico che avevano caratterizzato la stagione premoderna, gli uomini sentono il bisogno di costruire dei dispositivi immunitari di tipo artificiale per proteggersi dai mali, dai conflitti e anche dalle novità che li minacciano, il primo dei quali è lo Stato moderno.

Quanto accade oggi non è che l’ultimo passaggio, sempre più accelerato e quasi ossessivo, di questo processo. Quello cui assistiamo, insomma, è uno straordinario mutamento di scala di un processo risalente nel tempo. Per capire il fenomeno in tutto il suo rilievo, storico, filosofico, antropologico, non dobbiamo smarrire la complessità del meccanismo di immunizzazione, evitando ogni semplificazione polemica o retorica.

Esso è un processo ambivalente, che produce effetti contraddittori. L’immunizzazione è allo stesso tempo necessaria e rischiosa, protegge dai rischi e ne genera a sua volta altri. È necessaria perché nessun corpo individuale o collettivo potrebbe sopravvivere a lungo senza un sistema immunitario che lo protegga da conflitti insostenibili – per esempio senza il sistema immunitario del diritto una società esploderebbe. Ma è rischioso perché, oltre una certa soglia, l’eccesso di protezione rischia di bloccare l’altra esigenza umana fondamentale che è quella della comunità, cioè della relazione tra gli uomini.

Il problema che abbiamo anche oggi di fronte non è quello, semplicistico, di contrapporre comunità e immunità, ma articolarle in una forma sostenibile che non sacrifichi l’una a favore dell’altra. Certo, oggi, forse mai come oggi nel corso di tutta la storia, assistiamo ad una crescita abnorme dell’esigenza immunitaria. Essa è diventata il perno intorno al quale ruota tutta la nostra esperienza reale e simbolica, il punto d’incrocio di tutti i linguaggi – biologici, giuridici, politici, economici. Riguarda insieme il corpo individuale e il corpo collettivo, il corpo sociale e il corpo informatico, tutti in difesa contro i virus di vario genere che li attaccano o sembrano attaccarli.

In questo modo l’equilibrio tra communitas e immunitas sembra spezzarsi a favore di quest’ultima. Il limite appare superato, con la conseguenza di ridurre al minimo non solo la vita in comune, ma perfino la libertà individuale. Il rischio ultimo cui le nostre società immunizzate vanno incontro è quello che si sperimenta durante le malattie autoimmuni, quando il sistema immunitario è talmente forte da rivolgersi contro lo stesso corpo che dovrebbe proteggere, distruggendolo.

Si è visto che questo – un eccesso di difesa da parte degli anticorpi – è quanto accade anche nel covid 19, con l’esito di infiammare i polmoni, come scrive nel suo ultimo libro sull’immunità – Il fuoco interiore – l’immunologo Mantovani. Qui si determina il classico controeffetto delle procedure immunitarie quando sono spinte aldilà della loro funzione normale. Continua a leggere

Valerio Magrelli, “violando l’ambiente l’uomo distrugge se stesso”

Valerio Magrelli credits ph Dino Ignani

UNA MODESTA PROPOSTA
DI VALERIO MAGRELLI

Era del 1969 l’articolo di Gregory Bateson Patologie dell’epistemologia. Lo si trova nel volume intitolato Verso un’ecologia della mente (Adelphi, 1991). Solo per dire che, oltre mezzo secolo fa, lo studioso aveva già perfettamente analizzato la situazione in cui ci troviamo in questi mesi. Il mio intervento si riduce a un semplice, sentitissimo invito: proporre l’adozione del suo testo nelle scuole dell’obbligo. Nient’altro. E passo adesso a riassumerne brevemente qualche pagina.

L’intervento denuncia gli errori epistemologici commessi dalla civiltà occidentale, a cominciare dai danni del Positivismo. In armonia con il clima di pensiero che predominava verso la metà dell’Ottocento in Inghilterra, Darwin formulò una teoria della selezione naturale e dell’evoluzione in cui l’unità di sopravvivenza era la famiglia, la specie, la sottospecie o qualcosa di simile. Oggi, però, sappiamo che l’unità di sopravvivenza nel mondo biologico reale non è questa: l’unità di sopravvivenza è piuttosto L’ORGANISMO PIÙ L’AMBIENTE.

Stiamo imparando sulla nostra pelle che, distruggendo il suo ambiente, l’organismo distrugge se stesso. Con la pandemia, aggiungo io, stiamo vedendo cosa accade quando si commette l’errore epistemologico di scegliere l’unità sbagliata.

Nella loro forma più virulenta, le idee che dominano oggi la nostra civiltà risalgono alla rivoluzione industriale, e si possono riassumere così: noi contro l’ambiente; noi contro altri uomini; l’unica cosa importante è il singolo (o la singola compagnia o la singola nazione); possiamo avere un controllo unilaterale sull’ambiente e dobbiamo sforzarci di raggiungerlo; viviamo all’interno di una frontiera che si espande all’infinito; il determinismo economico è cosa ovvia e sensata; la tecnica ci permetterà di attuarlo.

Ora, alla luce delle grandi ma in definitiva distruttive conquiste della nostra tecnica negli ultimi 150 anni, tutte queste idee, spiega Bateson, si sono dimostrate false. La moderna storia ecologica (e l’attuale contagio da virus, torno a sottolineare io) dimostrano che, violando il proprio ambiente, la creatura distrugge stessa. Possiamo dire anzi (continuo a parafrasare un saggio di cinquant’anni fa…) che tutte le attuali minacce alla sopravvivenza dell’uomo sono riconducibili a tre cause originali: 1) progresso tecnico; 2) aumento della popolazione; 3) errore nel pensiero e negli atteggiamenti della cultura occidentale. Insomma, i nostri valori sono sbagliati perché la maggioranza degli uomini è ancora guidata da un’epistemologia errata. La nostra insensata volontà di concentrarci sulla vita dei singoli individui, ha creato, nell’immediato futuro, la possibilità di una catastrofe mondiale. Continua a leggere

L’ordine del mondo



Nel tempo del coronavirus
di Luigia Sorrentino

 

 

La pandemia da coronavirus della quale si è cominciato a parlare in Italia dal 22 febbraio 2020 è l’epidemia mondiale chiamata COVID-19 e provocata dal virus SARS-CoV-2.

Di questo virus noi, persone comuni, sappiamo davvero ben poco.
Ci hanno detto che si era diffuso già molti mesi prima nel mercato del pesce di Wuhan, in Cina, per poi propagarsi in Giappone, poi in Italia, e via via, velocemente in tutto il mondo, causando migliaia e poi milioni di morti.
Successivamente abbiamo saputo che il virus, manifestatosi con febbre alta, tosse, e con una strana polmonite interstiziale, circolava in Italia già dall’ ottobre 2019.

Il governo italiano colto alla sprovvista ha preso decisioni drastiche: nel tentativo di arginare l’emergenza sanitaria e la diffusione del virus ha costretto l’intera popolazione a restare in isolamento per mesi, fermando, di fatto, l’intero Paese.

La necessità di contenimento imposte dalla pandemia hanno sollevato numerose proteste sul piano geopolitico e ideologico, volte a rivendicare i diritti umani che sembravano essere stati messi in discussione. Anche se nella maggioranza dei casi, le reazioni più condivise sono state di accettazione eppure spesso alla base vi era un fondo di amarezza per quello che sembrava essere, oltre che una misura di tutela sanitaria, anche un attentato alla libertà individuale e collettiva. Continua a leggere

Festivalfilosofia 2017, Le forme del creare


Da venerdì 15 a domenica 17 settembre a Modena, Carpi e Sassuolo quasi 200 appuntamenti fra lezioni magistrali, mostre, concerti, spettacoli e cene filosofiche. Tra i protagonisti Bodei, Bianchi, Cacciari, Cucinelli, Galimberti, Marzano, Massini, Recalcati, Severino, Vegetti Finzi, Augé, Clifford, Lipovetsky, Nancy.

Dedicato al tema arti, il festivalfilosofia 2017, in programma a Modena, Carpi e Sassuolo dal 15 al 17 settembre in 40 luoghi diversi delle tre città, mette a fuoco le pratiche d’artista e le forme della creazione in tutti gli ambiti produttivi, esplorando la radice comune che lega arte e tecnica. La diciassettesima edizione del festival prevede lezioni magistrali, mostre, spettacoli, letture, giochi per bambini e cene filosofiche. Gli appuntamenti saranno quasi 200 e tutti gratuiti.

Il festival è promosso dal “Consorzio per il festivalfilosofia”, di cui sono soci i Comuni di Modena, Carpi e Sassuolo, la Fondazione Collegio San Carlo di Modena, la Fondazione Cassa di Risparmio di Carpi e la Fondazione Cassa di Risparmio di Modena. Piazze e cortili ospiteranno oltre 50 lezioni magistrali in cui maestri del pensiero filosofico si confronteranno con il pubblico sulle varie declinazioni delle arti: il programma esplorerà la radice comune e talora sottovalutata delle arti e delle tecniche, che si manifesta negli oggetti “fatti ad arte”, con la maestria che accomuna artisti e artigiani in tutti i campi del produrre, anche quelli ad alta tecnologia. Si indagherà il carattere artificiale non solo delle opere, ma della stessa umanità nell’epoca in cui le biotecnologie permettono la manipolazione e riproduzione della vita.

LO PSICANALISTA E SCRITTORE MASSIMO RECALCATI POSATO DURANTE LA MANIFEStAZIONE CULTURALE “FESTIVALETTERATURA” A MANTOVA

Quest’anno tra i protagonisti si ricordano, tra gli altri, Enzo Bianchi, Massimo Cacciari, Brunello Cucinelli (Lectio “Confindustria Emilia”), Roberto Esposito, Umberto Galimberti, Michela Marzano, Salvatore Natoli, Massimo Recalcati (Lectio “Gruppo Hera”), Emanuele Severino (Lectio “Rotary Club Gruppo Ghirlandina”), Carlo Sini, Silvia Vegetti Finzi (Lectio “Coop Alleanza 3.0”) e Remo Bodei, Presidente del Comitato scientifico del Consorzio. Particolarmente nutrita la componente di filosofi stranieri: tra loro i francofoni Agnès Giard, Nathalie Heinich, Gilles Lipovetsky, Marie José Mondzain, Jean-Luc Nancy, Georges Vigarello e Marc Augé, che fa parte del comitato scientifico del Consorzio; l’americano James Clifford, il britannico Daniel Miller, il croato Deyan Sudijc, la tedesca Rahel Jaeggi e lo spagnolo Francisco Jarauta. Venti in totale i volti nuovi.
Il programma filosofico del festival propone anche la sezione “la lezione dei classici”: esperti eminenti commenteranno i testi che, nella storia del pensiero occidentale, hanno costituito modelli o svolte concettuali rilevanti per il tema delle arti: dallo statuto delle tecniche in Platone alla questione della poiesis in Aristotele, fino al ruolo di tecnica e lingua per la civilizzazione in Lucrezio. Per l’età moderna si discuterà l’intreccio di arti, tecniche e scienza nell’opera di Galilei. Con una lezione su Simmel si osserverà la vita urbana come palcoscenico, mentre risalto verrà dato alla teoria dell’opera d’arte di Benjamin. Si indagherà il ruolo della tecnica nell’antropologia filosofica di Gehlen, così come l’origine dell’opera nella prospettiva di Heidegger. Con Adorno emergerà il significato estetico del brutto.

Se le lezioni magistrali sono il cuore della manifestazione, un vasto programma creativo, non ancora completo, coinvolgerà performance, musica e spettacoli dal vivo, di cui saranno protagonisti, tra gli altri, il premio Oscar Nicola Piovani, Alessandro Preziosi, Luca Barbareschi, Massimo Zamboni. Un sorprendente Alessandro Bergonzoni raddoppierà la sua presenza e, oltre a una lezione, si esibirà in una performance presso la Galleria Estense di Modena incentrata sulla tutela del corpo. Non mancheranno i mercati di libri e le iniziative per bambini e ragazzi.

IL FILOSOFO EMANUELE SEVERINO

Quasi trenta le mostre proposte in occasione del festival, tra cui una dedicata alla carriera di Cesare Leonardi, una di xilografie di Georg Baselitz, una personale di Giuliano della Casa, un intervento di street art di Eron e un’installazione di luce di Mario Nanni. Talento e formazione saranno il tema di una mostra curata da Sky Arte e Fondazione Fotografia. Continua a leggere

Nancy e la poesia dell’eterno ritorno

Nota di Luigia Sorrentino

Ho ricevuto in dono questo piccolissimo libro di Jean-Luc Nancy , La custodia del sensoNecessità e resistenza della poesia, a cura di Roberto Maier (EDB, Lampi, 2017). Mi è piaciuto leggerlo, perché quando si legge un autore che ci è congeniale, il nostro pensiero si affina fino a diventare una potente architettura. Ho sempre creduto nella stretta familiarità fra filosofia e poesia e ho più volte espresso il mio auspicio che filosofi e poeti tornino a parlarsi, anche a odiarsi, senza più ignorarsi. Alcuni filosofi del Novecento, sono tornati a fare i conti con la poesia. Solo per fare qualche nome:  Derrida, lo stesso Nancy, (peraltro allievo di Derrida), ma anche Agamben, Badiou, e forse molti altri. Continua a leggere

Nessuno e niente scompaia, No one and nothing disappears

Arte e Poesia
a cura di Luigia Sorrentino

Giovedì 13 dicembre 2012 ore 19.00 1/9 unosunove (Roma, Palazzo Santacroce, Via degli Specchi, 20) presenta la mostra Nessuno e niente scompaia a cura di Raffaele Gavarro, con Raffaella Crispino Bruna Esposito, Fabio Mauri, Valerio Rocco Orlando, Eugenio Tibaldi.

Opening 12 dicembre 2012 ore 19:00 (fino al 16 febbraio 2013). Continua a leggere