Vieni,
avrai un sorriso stanco alla parete.
Dileguàti gli uccelli nelle forre,
non suonano più scarpe al Gradenigo
se dici «accoglimi», la loro lingua
è mistificazione del mondo, archibugio.
Così sei stato, per gli dèi dell’ozio,
un amante impossibile – lucerna
che la terra chiama a mentire,
farsi grande alla finestra.
Così falliscono anche i versi,
ed ogni cosa – per sempre ferma e distante
– come quest’aria non ha voce.
***
Non c’è alternativa.
Stanca la bocca nell’esercizio del fiato,
ciò che resta – la più piccola parte
di me – trema per un lascito d’amore,
abbarbicato come cosa morta.
Conosco la ferocità della commedia; non m’incanta
la fanfara dei màrtiri a sera, l’irrilevanza di una lingua
e del tempo. Tutte le frecce puntano un centro,
lo stesso di quando in due abitavamo un corpo:
ma trent’anni non sono bastati a risalire le acque verdi.
E oggi le bevo perché torni alla verità della vite,
al remoto, al diverso che dà luce.
***
Col vero mi tenta a non piegare il ginocchio
chi per sete ha scatenato i cancelli.
C’è nell’intimo un mondo mentre l’altro
ha fallito; e solo dubitando
finalmente cadiamo. – Ma su gocce d’acqua
si abita la foglia sempre viva.
Non dorme la pietra, il sangue stravolto
è un no che sa tacermi sull’altare.
Dov’è stato un sogno
è il grido impresso.
E brucia la fronte
il sole che ho negato,
l’aculeo dentro al cuore di mia madre.
***
Credi a me, qualunque strada s’imbocchi
basta un abbaglio: quel rito – sempre lo stesso –
che tolga la cera fredda da sotto gli occhi.
Un po’ come resistere, prepararsi
un letto piano tra le ortiche
perché frani l’inverno e trasfiguri,
e soffino i vetri dai colli accesi
per la tristezza musicale dei barconi.
Resto l’uomo che guarda fisso il vuoto
dai ponteggi, che pensa
nulla di questa febbre andrà risolto.
Resto chi non sputa fuoco a margine
di un foglio, scrive di giorno
e perciò non sa realtà al di fuori
del deserto. Ma stamane rido mortalmente
con le scimmie. Mi ripeto, mi abbaglio.
E tu non conosci il mio nome;
dormi ancora tredicenne – celata
ai guasti della luce – sulle panche
dove siedo a sistemarmi i capelli
e a domandarmi se sarà fieno il tempo, se
soffro per sollevarmi o farmi neve.
Sergio Bertolino, da “La sete” (Marco Saya Edizioni, 2020)