Arianna Gasbarro, pubblica il suo romanzo d’esordio, ‘Alice in gabbia’ Miraggi Edizioni (euro 12,00). La vita di Alice è apparentemente perfetta: 28 anni, un lavoro a tempo indeterminato e un fidanzato che ama, ricambiata. Non le resta che cercare casa e fare dei figli, guadagnandosi il paradiso terrestre di una vita normale. Eppure di perfetto non c’è nulla. Il surreale sarcasmo di Alice fa scoprire al lettore situazioni che suo malgrado conosce fin troppo bene, nascoste dietro la maschera della normalità di un’ordinaria giornata in ufficio. Il badge che scandisce malignamente il tempo. La routine del ritmo aziendale che diventa ossessione. Le manie degli impiegati, a un passo dalla psicosi. La sindrome antisociale dell’open-space. Le figure clownesche dei capufficio, tronfi della loro incompetenza. I giorni che invece di allargarsi in un presente vivo si spengono con monotonia uno sull’altro. Le pause – caffè, sigaretta – sono le uniche boccate di sollievo. Finché Alice non scopre la pausa-papera! Osservando da dietro la recinzione dell’azienda i pennuti che vivono liberi nel loro stagno, ad Alice si rivela una nuova filosofia di vita, una possibilità di salvezza, di liberazione…
Intervista di Luigia Sorrentino
Roma, 22 gennaio 2011
Arianna, quanti anni hai?
“Ho appena compiuto trent’anni”.
Mi sembra di averti conosciuto ieri, e invece era l’anno 1996 se non sbaglio… Allora eri una liceale. Amavi moltissimo i classici greci e latini. Sorprendente per l’età che avevi. E poi, non a caso, un giorno, mi è arrivato il tuo primo libro, “Alice in gabbia” …
Come nasce questo lavoro?
“Alice in Gabbia è nato circa un anno fa, in un momento molto particolare della mia vita: avevo appena deciso di lasciare il lavoro per dedicarmi finalmente alla scrittura. Mi ero resa conto che le due cose non potevano coesistere e ho deciso di provarci, semplicemente perché non potevo farne a meno, perché per me era troppo importante.
In realtà in quel momento stavo lavorando a un’altra storia, ma i pensieri di Alice premevano per uscire fuori, per dar voce a un aspetto della nostra società contemporanea che avevo avuto modo di vivere in prima persona nel corso degli ultimi anni. Sapevo che prima o poi quelle considerazioni e quella rabbia per un mondo del lavoro che per troppi aspetti a me non piaceva avrebbero iniziato a svanire, allora ho messo da parte l’altro progetto e in pochi mesi è nato questo libro.
Quando hai capito che da grande volevi diventare una scrittrice?
“Credo di averlo sempre saputo, sin da quando a sedici anni leggevo fino a notte fonda i classici latini, ma anche Calvino e Oscar Wilde. Però ho trovato il coraggio e la forza di farlo solo alla vigilia dei trent’anni, quando in un certo senso mi sono detta: o ora o mai più.”
Come vivi oggi? Lavori o ti dedichi 24 ore al giorno alla scrittura?
“Da un anno a questa parte mi dedico interamente alla scrittura, sia come scrittrice che come traduttrice. Sono due attività che convivono bene insieme, tradurre romanzi dall’inglese all’italiano è una palestra linguistica che mi appassiona, anche se richiede molto tempo ed energia.”
Quanto c’è di te in Alice?
“Devo ammettere che il personaggio di Alice ha delle solide basi autobiografiche e che se non avessi vissuto in prima persona l’esperienza di un lavoro full-time a tempo indeterminato non avrei mai potuto spiegare le dinamiche psicologiche che si creano in quella sorta di gabbia di cristallo. L’esilarante ossessione per il badge, l’ansia per una quotidianità sempre uguale giorno dopo giorno per quarant’anni, il bisogno di evasione in un mondo immaginario popolato di demonietti, clown sanguinanti e papere che filosofeggiano.
La storia che racconti è molto interessante. In un’epoca in cui si parla molto dei problemi dei giovani legati all’occupazione, al lavoro che non c’è, arrivi tu e capovolgi il punto di vista: parli infatti di quelli che il lavoro ce l’hanno ma che non ce la fanno a tenerselo…
“Credo che la disoccupazione consenta di chiudere gli occhi su un altro grave problema legato al mondo del lavoro, di cui però nessuno parla.
Alice non riesce a tenersi il lavoro perché, a parte lo stipendio a fine mese, non ha nessun altro stimolo. Avrebbe una gran voglia di crescere, di continuare la propria formazione all’interno dell’azienda, ma per il suo capo lei non è altro che un moderno Charlot, inchiodato alla scrivania e pronto a svolgere le proprie mansioni, categoricamente di routine.
Ciò spalanca le porte all’enorme disagio di non trovare un senso per la propria quotidianità, ma anche all’inquietante consapevolezza che un contratto a tempo indeterminato con un’azienda privata è una sicurezza illusoria. L’azienda potrebbe fallire e Alice si ritroverebbe sul mercato del lavoro senza un’adeguata formazione, senza aggiornamenti, senza la possibilità di riciclarsi con dignità.
Il capovolgimento dunque è solo apparente. Il messaggio politico è che ai giovani bisognerebbe garantire un Paese che non sia precario, un Paese competitivo e desideroso di crescere, un mercato del lavoro fluido e vitale, non l’illusione di un contratto che in fin dei conti non garantisce affatto un futuro sicuro.”
Quand’è che il ritmo aziendale per coloro che lavorano a tempo indeterminato può diventare un’ossessione?
“È una questione molto personale, alcuni accettano quel ritmo di buon grado, mentre ad altri invece va stretto e difficilmente potranno liberarsi di un senso d’oppressione e ribellione latente.
Credo che uno dei fattori scatenanti sia l’utilizzo improprio del badge da parte dell’azienda, quando per un minuto di ritardo al lavoratore ne vengono addebitati dodici di punizione. Questa cosa genera un’ansia che cresce di giorno in giorno e va a sommarsi alla routine delle pause-sigaretta, pause-pranzo, pause-caffè che ogni giorno si ripetono con un ritmo sempre identico, fino a far pulsare la quotidianità di un battito che se per alcuni può essere in qualche maniera rassicurante, per altri sembra un tango strangolante che si protrarrà fino alla pensione.
È come immaginarsi di tornare a scuola, ogni giorno con la campanella alla stessa ora, l’ora di religione il sabato, i compiti il pomeriggio e l’interrogazione il giorno dopo. Per tutta la vita. Mai un diploma, una conclusione: la vita che scorre via in un ritmo estraneo dettato dall’alto.”
Attraverso il sarcasmo la tua protagonista svela profonde verità che mostrano l’altra faccia della medaglia, di cui mai nessuno parla, “il lavoro schiavo”, il lavoro che non rende liberi, bensì schiavi e che colpisce determinate fasce di lavoratori…
“Ho vissuto in prima persona questa realtà, quindi, come ti dicevo, certamente il libro parte dalla mia esperienza personale. Però è stato fondamentale vedere il modo in cui i miei colleghi reagivano agli stessi cappi che a me sembravano strangolanti.
La cosa più interessante è stato notare uno squilibrio totale tra la dedizione dei lavoratori, che effettivamente rinunciano alle proprie pause, al tempo per la propria vita privata e i propri figli senza poi di fatto ottenere alcun riconoscimento, e dall’altra parte l’atteggiamento strafottente di una classe dirigente che non solo spesso è incompetente, ma che pure pretende dai lavoratori sacrifici che i manager invece non hanno alcuna intenzione di fare.
Sembra un servilismo servo/padrone, sovrano/suddito. Un esempio lampante è quando un’azienda non concede ai dipendenti un giorno di chiusura in occasione di un ponte, ma poi tutti i manager se ne vanno in vacanza. È assurdo e alla lunga, secondo me, pericolosissimo.”
A un certo punto Alice però scopre la pausa-papera…che le cambia la vita… perché proprio la papera?
“La papera rappresenta la totale armonia con la propria natura. È uno di quegli animali che capita di osservare nei parchi e sui quali non ci si sofferma molto, se non per domandarsi che senso abbia la loro esistenza. La papera vive, galleggia, nuota, mangia il pane, si gode la propria semplice esistenza di papera.
L’uomo non riesce a vivere in quel modo, è a disagio con la propria natura primordiale quindi infarcisce la propria quotidianità di problemi e occupazioni totalmente superficiali, per poi lamentare di non avere il tempo per godersi la vita.
Ma proprio osservando le papere, Alice si rende conto a un certo punto che la sua quotidianità è totalmente priva di senso rispetto a quella di una sciocca papera galleggiante.”
In realtà il messaggio che viene fuori dal tuo romanzo è chiaro e inequivocabile. E’ un’esortazione rivolta a tutti gli esseri umani: “riprendetevi la vostra vita! Godetevi la vita, bene unico ed irripetibile”…
Va bene… ma come si vive senza lavoro?
“Il punto non è lasciare il lavoro e vivere senza, ma ritrovare un senso in quello che si fa. Alice non è un elogio dell’ozio, ma anzi quanto di più lontano ci possa essere dal concetto attuale di bamboccioni e simili. Il messaggio è quello di fermarsi un attimo, osservare i binari sui quali viaggiano le nostre vite, rendersi conto che spesso non sono stati costruiti da noi ma imposti dall’alto e a quel punto cercare un senso alla nostra quotidianità, che per noi, solo e unicamente per noi, abbia valore.
Poi si può tornare sui binari, purché si abbia una consapevolezza concreta e tangibile di ciò che si sta facendo.
Riprendersi la propria vita vuol dire anche solo lottare perché l’azienda non chiuda ogni anno ad agosto e i dipendenti possano scegliere di andare in vacanza dove e quando vogliono. Almeno quello, almeno la libertà di poter disporre del proprio tempo libero.”
Cosa pensi degli scrittori contemporanei? Li leggi, o non ti interessano?
“Generalmente preferisco leggere i classici, ammesso che titoli di trent’anni fa possano considerarsi tali. Leggo poco i contemporanei, in genere quelli consigliati da amici che hanno la mia stessa sensibilità letteraria.
Adoro andare in libreria a comprare i libri, non compro quasi mai su internet, però c’è così tanto chiasso negli scaffali di contemporanea che solitamente poi mi oriento su testi completamente diversi, ad esempio di cinema.”
I tuoi ‘mostri sacri’… i tuoi scrittori preferiti, chi sono ?
“Wilde, Calvino, Nabokov, Svevo, Henry Miller, Kureishi, Kundera. E senza dubbio Woody Allen, che considero un vero e proprio autore e del quale condivido lo sguardo sarcastico e catastrofista sul senso dell’esistenza dell’uomo.”
In quanto scrittrice, quali sono gli obiettivi che ti prefiggi?
“Per il momento solo continuare a scrivere, mettere su carta le visioni surreali che si affollano nella mia mente e dare voce al momento storico che stiamo vivendo, perché in futuro possano comprenderci (e perdonarci).”
A chi dedichi il tuo “Alice in gabbia”? Chi dovrebbe assolutamente leggerlo?
“Vorrei che lo leggessero i ragazzi all’ultimo anno di scuola perché potrebbe dargli il coraggio di puntare sui loro sogni, anche se si sentiranno dire che ‘è impossibile’.
Vorrei che lo leggessero i manager, dell’industria e dello stato, per ritrovare la dignità della propria posizione e guardare con occhi diversi, più attenti e preoccupati, gli individui demotivati alle loro dipendenze.
Io l’ho scritto per i miei genitori, perché potessero comprendere e accettare la scelta che ho fatto un anno fa e che, senza il supporto della filosofia della papera, non poteva sembrare che folle.”
Bioblibliografia
Arianna Gasbarro è nata a Roma nel 1980. Appassionata da sempre di letteratura, ha tentato di condurre un’esistenza normale, ma dopo tre anni di clausura in un ufficio ha deciso di stracciare il suo contratto a tempo indeterminato per dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. Attualmente vive tra le colline del Chianti, dove persevera nella sua attività di scribacchina sommersa da libri e dizionari.
Alice in gabbia è il suo primo romanzo (nonché la dimostrazione che tutto è possibile).
www.miraggiedizioni.it