Ai suoi inizi la poesia di Simone Zafferani si abbeverava, mi parve, degli umori limbali che intridono l’umbratilità del primo Sereni. Riconoscere i maestri non è una vana impresa, ma la garanzia di potersi presto avviare sui propri sentieri. Anche se la strada verso la maturità che s’inerpica nelle ultime poesie di Zafferani, si fa subito impervia, la meta che si spera di poter continuare ad aggirare desta stupore, rivela e impone un mondo “imprevisto”, come dice il titolo che si affranca da ogni precedente, amorevole servitù. E arrivano, a compensazione delle perdute e dolci amnesie adolescenziali, giuste parole d’amore, di pietà, di compartecipazione ai tremori delle creature umane. Non si può simulare “la vita che non c’è”, quando gli affetti famigliari, l’amore accumulato, i morti che oltrepassano la frontiera e si avvicinano pericolosamente impongono un’altra lingua, un registro sempre meno metaforico. Questo poeta, amante della liquidità, delle risonanze oblique della luce, magari scrutate in Emily Dickinson, è proprio attraverso tali “verità imponderabili” che viene a contatto della polpa segreta della vita e di sé stesso, infine. E quando avviene la trasmutazione delle creature più amate in quel mondo “altro”, prima solo intravisto nel riflesso dell’acqua che, non dimentichiamo, è l’elemento più cospicuo che forma il nostro corpo, allora la lingua della poesia si sbianca “come un’ostia”. Come nel compiuto poemetto La macchina naturale, in un gioco di continue rispondenze, ma anche un punto fermo che non permette rimozioni, regressioni, ripensamenti. Non resta che “mettere a posto il dolore”. E magari “con pazienza d’artigiano”, e scrivere nei Notturni le poesie più inclusive e arrese dell’intero libro. “Se venite di notte, versi,/ siate lievi nel forzare la porta/ di questi recessi impensabili che sempre/ da solo varco e mai del tutto”. Continua a leggere
Simone Zafferani, “L’imprevisto mondo”
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