COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA
La poesia di Vittorino Curci – come quella del tedesco Jan Wagner e del cubano Víctor Rodríguez Núñez – parte da un elemento (grafico) che potrebbe sembrare trascurabile, ma che invece nasconde in sé una decisa dichiarazione di poetica: la presenza pressoché totale di lettere minuscole (anche e soprattutto dopo segni d’interpunzione forte). Ciò sta a evidenziare l’umiltà (jaccottettiana) della parola, del linguaggio lirico. Non la sfiducia e l’inaffidabilità à la Pessoa, ma il suo essere oggetto modesto e discreto. La poesia stessa appare come qualcosa di trascurabile, di infimo addirittura, di profondamente terrigno.
La sua celestialità risiede proprio nel contatto ancestrale con l’humus, con le piccole cose al di là di ogni significanza minimale (e senza alcuno spettro crepuscolare, ma con una notevole carica metafisica).
Dal piccolo, da ciò che è deferente, nasce quella magnificenza che il poeta sa cogliere e vuole offrire agli occhi del lettore, rovesciando ogni razionale prospettiva e delineando un inatteso “stacco” verticale che collega d’emblée la natura stessa della letteratura agli universali. Curci, amante di Trakl e del pensiero filosofico, musicista jazz e teorico della poesia, si inserisce in questo solco di dimessa oracolarità, cercando di trarre conoscenza ed ethos dalle esperienze che la poesia – con la sua incerta circumnavigazione dell’esistenza – pone allo sguardo interrogatorio e orante di chi è disposto all’ascolto.
brancola ogni forma di obbedienza
in questa sera bituminosa di febbraio.
tutto sarà fatto con calma,
dalla veglia in poi, dalle istruzioni
al ventottesimo giorno.
il nostro sabotaggio del reale
procede senza intralci.
abbiamo lune tatuate sul petto
e la capacità di intuire
il significato di parole sconosciute.
stiamo facendo il possibile
per adattarci ma non è facile.
ieri, domenica, mentre
traslocavamo per la terza volta,
abbiamo ricostruito a memoria
la nostra casa Continua a leggere