La poesia di Dino Campana e la sua eccezionalità nella letteratura del Novecento

OLTRE IL MITO DELLA FOLLIA
DI MARCO TESTI

La fascinazione dell’oltre

Dino Campana (Marradi 1885, Castel Pulci, Firenze, 1932) rivelò già dalla prima adolescenza un carattere difficile, soprattutto per le sue tensioni, sfociate poi nella psicosi, con la madre. Iniziano così le sue peregrinazioni, causate anche da una fissazione itinerante, che lo porteranno, secon¬do quanto egli stesso raccontò, per l’Europa, la Russia, l’America meridionale. Una squassante relazione con la musa di quegli anni, Sibilla Aleramo, l’accentuarsi delle crisi depressive e il ricovero nel 1918 all’ospedale psichiatrico di Castel Pulci, la morte per una non meglio identificata “setticemia del sangue” il 1 marzo 1932, hanno contribuito a costruire il mito postumo del poeta maledetto italiano.

La sua opera più famosa, i Canti orfici, terminati in una prima stesura nel 1913 e poi pubblicati a sue spese nel 1914, è certamente la testimonianza più drammatica di come le nuove soluzioni stilistiche che cercavano di liberarsi dalle tutele positivistiche e romantiche abbiano coinvolto le individualità dei giovani intellettuali in una complessa operazione non solo letteraria: Boine, Serra, Rebora, Slataper, Michelstaedter, oltre a Campana, si trovano a fare i conti con una realtà profondamente mutata dai nuovi sistemi economico-industriali e dalla perdita di potere da parte dell’intellettuale, non più uomo di corte ma neanche inserito nei nuovi processi produttivi. Il rifiuto di quella realtà, come rimozione della perdita di potere, trova terreno nelle coscienze europee più inquiete e pronte ad una rimessa in discussione, e quindi alla trasgressione, del pensiero razionalista occidentale. Qui si potrebbe subire la tentazione-e in effetti il paragone venne fatto- di vedere in Campana un epigono di Rimbaud, un maledetto post-litteram, sfasato cronologicamente: ma paradossalmente il giudizio di suoi contemporanei, come Boine, arriva a sgombrare l’orizzonte da ogni nube sospetta di imitazione rimbaudiana: per Boine (e non solo per lui) Campana era un pazzo sul serio anche nel senso che la sua poesia era tutt’uno con la sua crescente perdita di comunicatività, con le sue iterazioni ossessive, con il suo precipitare verso quella notte che sarà la sua sconfitta e, ironia della sorte, la sua incoronazione poetica.

Spesso il suo destino, segnato così profondamente dal viaggio e dalla follia, ha attirato la curiosità e l’ammirazione soprattutto dei giovani, anche perché la sua poesia è testimonianza di una fedeltà estrema alle proprie ragioni umane; e queste ragioni esprimevano anche una critica risentita e radicale dell’industria culturale e della società del primo Novecento italiano.
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La virtù dei buoni libri

Un libro che riapre sentieri interrotti

di Franco Ferrarotti

Ecco un libro geniale e originale. Per questo va segnalato, letto e meditato. È un libro che parla di libri, ma, come dice bene l’Autore nell’avvertenza posta all’inizio, non è un libro di recensioni. Non è, in altre parole, uno di quei libri – temo che si tratti della maggioranza – che sono prodotti, oserei dire, incestuosamente mercé altri libri.

Contro tutte le apparenze e le prime impressioni, che a torto Voltaire riteneva le più giuste, (méfiez-vous de la première impression; c’est la bonne), questo libro non fa parte e non rientra nella cultura libresca. È vero che spesso, troppo spesso, quando gli scrittori parlano dei loro colleghi lo fanno in termini molto libreschi e intellettuali. Parlano e scrivono come se dovessero venir letti, e giudicati, solo da colleghi e intellettuali.

Questo libro è diverso. È un’altra cosa. Ha la virtù che hanno i buoni libri – una esigua minoranza nella sterminata produzione di molti editori, degradati ormai a meri stampatori, portati a vendere libri come se fossero carciofi o patate o altra frutta di stagione. Questo libro fa parlare i morti. Ne resuscita l’intento profondo. È una chiamata dall’oltretomba; richiama un passato ormai ritenuto lontano, che invece ha ancora cose importanti da dire nel presente o addirittura contiene i semi dell’avvenire.

C’è un merito ulteriore, che non va sottaciuto. Questo libro non parla solo di libri best-seller. Parla anche, se non soprattutto, di libri poco noti al gran pubblico. Oppure parla di libri divenuti noti o anche celebri per le ragioni sbagliate. Ma parla anche di «rivisitazioni» critiche necessarie, non più rinviabili, vale a dire di libri riscoperti pienamente, valutati solo generazioni dopo la loro prima pubblicazione.

Il successo commerciale non è ritenuto un test decisivo per il valore di un libro. Tutti sanno che Honoré de Balzac fu subito famoso. La sua «comédie humaine» vendeva molto. I suoi contemporanei – la borghesia francese in ascesa – vi si rispecchiavano come in uno specchio di alta fedeltà. Stendhal, invece, del suo trattatello De l’amour, aveva venduto tre copie in otto anni. Non solo nessuno lo comprava. Non lo toccavano neppure. Lo sconsolato Stendhal confessa, a malincuore: «On dirait qu’il est sacré. Car personne n’ytouche». Curioso com’era, si fa dare dal libraio – una specie di libraio in via di rapida estinzione – nomi e indirizzi dei compratori. Li va a trovare. Che delusione! Almeno due di loro avevano comprato il libro credendo che si trattasse di un Kamasutra. Ma Stendhal, con La Certosa, Il Rosso e il nero e i Souvenirs d’égotisme dava un appuntamento ai lettori di centocinquant’anni a venire. Inutile dire che l’appuntamento è puntualmente scattato. Continua a leggere