di Tommaso Di Dio
Dodici ore è l’aspro resoconto di una felice parzialità. Dodici sono infatti le ore che formano la metà di un giorno e dodici è numero che si impunta su di una soglia e spartisce, per un giorno solo all’anno, la faccia in luce da quella in ombra. Il numero dodici sembra ricordarci che c’è una zona visibile e un’altra oscura, incosciente e perduta, dove tutto può accadere e dove ogni trasformazione trova il suo invisibile inizio. Nondimeno, il numero dodici, fin dalle più antiche tradizioni, è legato alla completezza, alla perfezione: dodici è il numero di chi trova compimento. Dodici sono le tribù che formeranno un popolo, dodici gli amici che saranno testimoni di un dio bizzarro che volle farsi carne e dodici sono i mesi che chiudono un anno come anche le case delle stelle che fin da Babilonia e dalle civiltà dell’Indo indicarono il ritorno del tempo. In questo numero c’è la gioia della perfezione, la festa della totalità; eppure, al contempo, in esso si annida il senso della parte, della partizione, di ciò che, diviso, scorre.
Con questo libro, siamo di fronte ad un esordio, ad una prima prova che non vuole dissimulare mai, neanche per un momento, il suo essere opera integrale di una giovinezza che ancora dura. Una poesia, quella della Rafaiani, che si dichiara programmaticamente in cerca di intensità; che del tempo cerca il picco, la vertigine: il momento quando il tempo sembra si annulli e si viva una vita ironicamente infinita («Il nostro tempo è infinito, buon viaggio», p. 13). Pregio e al contempo suo limite, pagina dopo pagina, si procede fra momenti apicali. Continua a leggere