di Giovanni Agnoloni
L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi (Exorma, 2017) è un romanzo che viaggia su molteplici piani spaziali, temporali e di identità. Marino Magliani, fedele a un tema – la lontananza e il perdersi in un incessante viaggiare – che è il Leitmotiv di gran parte della sua produzione letteraria, fluttua qui tra il pretesto narrativo di un traduttore immerso nelle asettiche strade della sua cittadina di residenza, IJmuiden, in Olanda (e in particolare di Zeewijk, il suo quartiere, già al centro di Soggiorno a Zeewijk, Amos Edizioni 2014), le vicine dune della spiaggia sul Mare del Nord e dettagli della sua vita reale, nella Liguria dov’è nato e nei tanti posti del mondo che ha toccato nel corso della sua esistenza.
L’Italia e i Paesi Bassi sono i due poli estremi, ideali e al contempo concreti, tra i quali si articolano tappe e fotogrammi attinti al passato dello scrittore, rifiltrati nel vissuto del suo alter ego letterario, sovrapposti e miscelati fino all’indistinguibilità. La nascita in un paese dell’entroterra di Imperia, nella paradossale sede di un ricovero per anziani, l’infanzia segnata dalle mosche in cucina, dalla presenza materna e dall’assenza del padre, cameriere stagionale in Costa Azzurra, e poi il militare, con le sue irragionevoli regole, che gli impediscono di andare a trovare il genitore morente – proprio lui che, col suo lavoro di lunghe trasferte, aveva introdotto nella mente del figlio, fin dalla più tenera età, l’idea della distanza. E ancora, crescendo, i viaggi verso una molteplicità di mondi indeterminati – un angolo remoto di Argentina, la Costa Brava di plastica e l’Olanda piatta e anestetica, con quei moscerini giunti dal Giappone su un cargo un numero imprecisato di anni prima e ambientatisi sulle rive del freddo mare nordico – portatori di un’idea molto speciale di esilio. Continua a leggere