Alessandro Bellasio, “Lo strapiombo luccicato di pensiero”

LO STRAPIOMBO LUCCICATO DI PENSIERO

Quando giungono, spargendo
ozono ed estro, anche
i certi vegliano, trovano
l’ingresso, hanno il sibilo.
«Con colpi bruschi, tra le frenate
spifferi
mi gelarono il costato
chiamando quel mirino. È
questo
lo scalino dove incespico
con la gamba gelata
dentro il finito. Ed è
forte, qui, riceverne la luce
inginocchiata, gli anni
che ho avuto tutti nella vita,
scavandomeli dentro…»
Fa
tardi sui cuscini.
«Ho la mente
invasa dalle voci – travi potenti
che non controllo, quando tracimano
nell’acqua fortissima
che non so ringraziare. Sono
bellissima… Sono
metà stella, metà aneurisma –
bocca falcidiata da uno sfarzo
che mi stampa nella sete
con verdetto equanime – una
curia, giunta all’udienza del caos.
Entro ed esco, quasi appartenessi a un sosia,
un cencio sulla mia immobilità. Io
vi circondo, nettamente moderna
vi lascio a preparare
filosofie scolastiche, monumenti,
lo sterminio.
Vedo
gli anni, la lenta crepa
accolta in pace nella sua montagna.
E il grigio, che ne è il vivente –
un chilometro. Mente,
che impugni l’asta e salti
nel miracolo, lento
rovinio dei cieli
dove una volta siamo andati…
Anche
io coperta
su quel detto in frammenti, anche
io lavandino
di piastrelle che mi scrutano
da un freddo
straccio di puro abbandonare. Dentro voi
io
ho pianto. Ho
gettato gli indumenti
da un’ultima fessura nelle cose,
e ho detto il mondo
svegliandomi in un’iniezione.
Ho spento la morte
nella mia gamba di ragazzo – ho sfondato
con un colpo secco l’avantreno,
lacerandomi… Smarrita, quasi
in pianto, ho
gridato io
di allontanato sole, di travi.
Ho detto di come
le vite obbediscono al dolore,
di come il buio le nomini.
Ho spento le risaie.
Ho coperto tutto con il tempo».

Alessandro Bellasio, Lo strapiombo luccicato di pensiero

 

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Le mani di Franz Wright

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di Nicola d’Ugo

Una bellissima fotografia delle mani di Franz Wright su una vecchia macchina da scrivere, ripubblicata su Facebook dalla moglie e cotraduttrice Elizabeth a due giorni dalla morte del marito. Mani raffinate e vissute, unghie sporche, che danno un’idea della totalità affondata nell’humus e nella «singolarità» unica e universale della sua poetica esistenziale. Franz Wright si chiedeva e ci chiedeva su Facebook, e richiedeva a se stesso, ben prima della malattia: Quanto resisteranno i miei versi, mi sopravviveranno? E in che misura? Continua a leggere