Maria Borio, “Dal deserto rosso”

L’autrice riprende il titolo di un film del 1964 di Michelangelo Antonioni per rivolgersi a un interlocutore che l’accompagna in un viaggio di conoscenza 

Maria Borio, Credits ph. Dino Ignani

Nota di Alberto Russo Previtali

 

L’ultima raccolta di versi di Maria Borio è costruita su un titolo potente, carico di una fortissima valenza intertestuale. Dal deserto rosso: un titolo che rimanda subito e senza incertezze il lettore a uno dei film più densi e riusciti di Michelangelo Antonioni.

Fin dai primi versi si capisce però che la scrittura poetica che il titolo è chiamato a nominare non ha il suo centro in una perseguita ekphrasis o in un dialogo intertestuale tra la poesia e le immagini o la storia del film.

I movimenti dominanti di questi testi sono piuttosto l’esplorazione e l’attraversamento di due istanze profonde che animano il capolavoro di Antonioni.

La prima riguarda la dimensione referenziale instabile che viene aperta dalla metafora del “deserto rosso”: il rapporto prometeico dell’uomo contemporaneo con il suo ambiente, il presentimento oscuro di un punto opaco nella sua cosmologia che lo pone come attore aggressivo e senza limiti di fronte a una natura considerata passiva e staccata dalla dimensione sociale. Il titolo offre un indizio importante: la poesia non si scrive “su” questo complesso di fenomeni problematici, ma “da” esso, nel senso della provenienza come traiettoria dell’esperienza e dell’enunciazione.

È una voce sola, che si trova a esistere in un solo punto, come annunciato nell’incipit: “Sono un punto solo nel deserto rosso: / oggi è questa la mia dimensione” (p. 7); questo punto è rinchiuso in un orizzonte definitivo e fissato, in una verità obbligata e negativa che la voce è costretta ad affermare con la più disarmata semplicità: “Ti scrivo da una zona rossa ed è questa la verità / i confini sono tracciati, il rosso ha riempito lo spazio, / vuoto, neutro, senza uscita, e tutti sono con me, / punti soli, senza illusione nella primavera / del millennio che al tempo sta cambiando la faccia” (p. 7).

È una verità definitiva quanto la sua impotenza e la sua inutilità di fronte all’impossibilità dell’illusione, ovvero del pensiero di un cambiamento. Il compito che assume la voce è allora fare di questa verità ultimativa l’inizio di un movimento poetico verso un altro modo di pensare: “Pensarsi è unirsi […] e un bene, come mai, nuovo?” (p. 7). “Come mai”: constatazione e interrogazione di fronte a un tempo nuovo, uscito dall’alveo rassicurante della storia umana.

È proprio nell’interrogazione che trova parola il tentativo di fare esistere l’alterità, ed è in essa che si rende visibile il confronto con la seconda istanza profonda del film: seguire e attualizzare la voce femminile, intesa come soggettività che resiste alla chiusura utilitaristica del mondo.

Nell’interrogazione ripetuta, che è una delle linee stilistiche più rilevanti del libro e una delle novità più tangibili rispetto a Trasparenza, la voce femminile segue e oltrepassa la prospettiva aperta dal personaggio di Giuliana nel film.

La domanda è la cifra di un posizionamento estremo, in cui degli opposti decisivi si trovano a coincidere: fragilità e coraggio, stupore ignaro e ansia di sapere: “Era il cielo che si scioglieva? Ma il senso?” (p. 8); “Come capire la mappa?”; (p. 17); “Ma qual era la parola?” (p. 17); “ma come chiamare / davvero una sensazione?” (p. 19). L’insistenza della domanda rivela un vuoto di sapere, l’irriducibilità del femminile all’accentramento discorsivo del senso.

Anche la proliferazione pronominale, ovvero una delle dinamiche formali più caratterizzanti di Trasparenza, viene posta al servizio di questo attraversamento del femminile. L’“io” che si rivolge al “tu” si trasforma spesso in un “lei” in posizione enfatica, che fa eco alla scena più intensa del film, quella in cui Giuliana racconta, in terza persona, la propria storia di smarrimento mentale a Corrado, riversando su di lui l’intrico angosciante dei dubbi sul proprio desiderio.

Questa alta testimonianza del femminile fatta esistere da Antonioni e da Monica Vitti viene raccolta ed espansa dalla voce della poesia, che ne rivela la vocazione etica e conoscitiva: aprire una mancanza nel discorso votato al dominio totale della natura.

È questa verità che persegue Maria Borio, avanzando in una dimensione pericolosa del femminile, nella quale, come insegna il destino di Antigone, ricerca della verità e rivolta vengono a coincidere: “Poi una donna, in controluce, arriva / alta dall’altra parte del sole, ripete / ‘verità’ e ‘verità’, ‘eroismo spoglio…’ / E lei è solo una persona, e contempla, adesso” (p. 26).

La finalità di questo eroismo è ancora quella percettiva di Trasparenza, ma approfondita da un’urgenza etica, legata alla consapevolezza di una coincidenza tra irruzione del tempo geologico e apertura del millennio: “La nostra specie, la tentazione – Ciò che è, è / – se non è, non sono stato, non sono, non sarò?” (p. 26).

Questa domanda che s’impone alla fine del libro è una conquista. Essa rivela un pathos fecondo, sempre percepibile sotto lo schermo di un’intelligenza poetica che si confonde spesso con il suo oggetto. È un pathos che forse in futuro incontreremo nella sostanza stessa dei versi di Maria Borio, emerso dal flusso delle domande smarrite, delle penetranti interrogazioni percettive, delle traiettorie metamorfiche degli elementi.

Sono un punto solo nel deserto rosso:
oggi è questa la mia dimensione, un punto
che non ha lunghezza, larghezza, profondità,
caduto dalla parte più alta del cielo su una terra
piena di silenzio e pura improvvisamente.
Ti scrivo da una zona rossa, ed è questa la verità:
i confini sono tracciati, il rosso ha riempito lo spazio,
vuoto, neutro, senza uscita, e tutti sono come me,
punti soli, senza illusione, nella prima primavera
del millennio che al tempo sta cambiando la faccia.
Ti scrivo e da questa stanza sussurro che se un punto
non ha dimensioni è perché forse le ha unite tutte in sé?
Pensarsi è unirsi – mentre la notte e il giorno
hanno un unico colore e impariamo a pensarci –
e un bene, come mai, nuovo? Continua a leggere

Bolesław Leśmian

Bolesław Leśmian

di Fabio Izzo

Bolesław Leśmian, uno dei più importanti poeti polacchi, nacque a Varsavia il 22 gennaio del1877 dove morì il 7 novembre del 1937. Le sue spoglie riposano al cimitero Powązki, assieme a quelle di altri grandi scrittori, poeti e artisti della nazione polacca.

La figura di Leśmian smonta alla perfezione l’idea dell’intellettuale tormentato e viaggiatore. Burocrate di paese, avvezzo a maneggiare documenti, moduli e timbri, padre di famiglia, si è rivelato un perfetto demiurgo di un mondo poetico popolato e animato fantasiosamente da elementi fantastici, mitologici e folcloristici, sfociando anche in un erotismo raffinato e delicato.

Il suo battesimo poetico avvenne nel 1985, con la pubblicazione di alcune sue poesie sulla rivista letteraria Wędrowiec; i suoi lavori all’inizio passarono inosservati, La sua prima raccolta di versi fu pubblicata nel 1912 a Varsavia, Crocevia, pubblicò poi il suo lavoro più noto: Łąka (Prateria, 1920) a cui seguirono seguirono Benda ombrosa (1936) e le pubblicazioni postume Accadimento boschivo (1938) e Leggende polacche (1956).

Leśmian ha sviluppato uno stile unico, personale, ricorrendo ad ambienti fantastici e mitologici legati alle tradizioni e al folclore polacco. Ha descritto la sua vita in sillogi filosofiche. I protagonisti delle sue opere sono spesso esseri umani in difficoltà, sofferenti, vittime del conflitto esistente tra natura e cultura, impossibilitati ad accettare pienamente il loro destino. Per lui il poeta è un essere primitivo, l’unico in grado di vivere sia a livello culturale che naturale.

Per i polacchi Leśmian è un poeta idiomatico, accessibile per intuito, un poeta amato, potremmo quasi dire popolare. Lesmian è però così poco conosciuto al di fuori dei confini polacchi per via della sua reputazione storica, limitata a un piccolo circolo di intellettuali amici, tra cui Pasternak, che ne furono ammaliati, attratti dal fascino magnetico della sua parola.

Nacque nel 1877 e spese gran parte della sua gioventù in Ucraina, dove il padre lavorava da dirigente ferroviario. Studiò presso l’Università di Kiev e i suoi primi versi furono scritti in russo, una lingua che, a detta di molti, ha avuto un’influenza cruciale sul suo stile poetico in polacco.
Il suo libro d’esordio fu pubblicato nel 1912 e passò quasi del tutto inosservato. In vita Leśmian ha pubblicato solo tre libri, e a parte l’essere diventato un membro dell’Accademia Polacca di Letteratura, nel 1933, è sempre rimasto una figura marginale nella vita letteraria tra le due guerre .

Ha lavorato come funzionario pubblico, notaio di provincia in una piccola città polacca, si è sposato con Zofia Chylińska, da cui ha avuto due figlie. A titolo di curiosità segnaliamo come una di loro, per l’esattezza Wanda, sia stata la madre di Gillian Hills, l’attrice britannica diventata famosa per il ruolo interpretato in “Blow- Up“, la famosa pellicola di Michelangelo Antonioni. Continua a leggere

Michelangelo e il Novecento

michelangelo-pietaLa Fondazione Casa Buonarroti di Firenze e la Galleria civica di Modena celebrano la ricorrenza del 450 esimo anniversario della morte di Michelangelo con la mostra “Michelangelo e il Novecento”, evento dedicato alla fortuna della figura e dell’opera dell’artista nel corso del secolo scorso.
L’esposizione apre al pubblico a Firenze dal 18 giugno e a Modena dal 20 giugno 2014, per chiudersi, in entrambe le sedi, a ottobre prossimo.
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