NOTA INTRODUTTIVA DI MAURIZIO CUCCHI
La poesia di Michele Hide, che si è rivelata in questi ultimissimi anni con poche uscite, ma sempre notevoli, ha, tra gli altri, un pregio evidente, che è quello di una immediata riconoscibilità. Un pregio oggi molto raro, dato che le innumerevoli voci nuove della poesia rischiano spesso un’impersonalità che le rende purtroppo quasi indistinguibili.
Ma che cosa, soprattutto, caratterizza il nostro autore? Sicuramente – come già si era visto nella plaquette d’esordio, Il baule di Zollikön del 2014, ripresa in questo libro – la fedeltà strenua ma al tempo stesso del tutto naturale, necessaria, alle proprie radici, a un mondo ebraico di appartenenza e alle vicende personali, anche drammatiche, legate a questa condizione. Ed è questo qualcosa di ancor più significativo se pensiamo che il nostro è poeta ancora giovane (è nato nel 1977) ma ha già in sé la saggezza di chi sa che è impossibile o insensato guardare verso il futuro senza una piena, sebbene inquieta, consapevolezza del passato e delle proprie origini. Naturalmente, agisce in modo decisivo la memoria, che riporta ritmicamente a galla, nella mente del poeta, momenti, episodi, luoghi, paesaggi e figure di un’esperienza sensibilmente vissuta e che contiene i più diversi colori della vita, non certo esclusi quelli della tenerezza negli affetti. Così, con percorsi interni articolati, Hide lavora alla ricomposizione di un’immagine di sé molto aperta e in fondo di continuo mutante, in una inesausta ricerca identitaria destinata a sempre nuove acquisizioni. Continua a leggere