Luigia Sorrentino. La pietà dello sguardo

Luigia Sorrentino (foto d’archivio)

Recensione di
Giancarlo Pontiggia

Inizia con una citazione plutarchea il nuovo libro di Luigia Sorrentino: «La morte dei vecchi è come un approdare al porto, ma la morte dei giovani è una perdita, un naufragio». E «naufragio» è forse la parole-chiave per interpretare questo libro doloroso e tragico, che parla di giovani vite perdute in spirali di violenza e di degrado. Lo sfondo è una Campania infera, riconoscibile da qualche minimo tratto, ma che sembra precipitare ad ogni verso in un tempo arcaico, scuro, sacrificale. E «antico» è epiteto che si ripete spesso, nel libro, quasi a indicare un fatale avvicendarsi di storie e di destini: antico è il silenzio (p. 22), antico l’adolescente (p. 27) che si avvia alla sua fine; e antichi sono anche «amore» (p. 38) e «cuore» (p. 93).

Luigia Sorrentino, Piazzale senza nome, Pordenonelegge-Samuele editore, Pordenone, 2021, pp. 102.

Si sarebbe tentati, leggendo, di assegnare alle zone in prosa, che si alternano ai versi, gli aspetti più realistici e crudi della rappresentazione: ma si capisce subito fin dalla prima di queste prose, come la morte dei due ragazzi venga descritta sullo sfondo di un rituale cosmico (presenze costanti della raccolta sono i nomi della «notte», del «cielo» e dell’«oceano») dai motivi dionisiaci (lo sgozzamento della capra, il ritmo frastornante della musica, lo smembramento, l’ebbrezza), motivi destinati a propagarsi per l’intera raccolta: «– È nel dolore totale –. Non oppone resistenza alle braccia che lo sollevano per distenderlo nudo sul tavolo. L’urlo irrompe nella stanza come quello di una capra sgozzata. Porta automaticamente le mani sui genitali per difendersi da gesti che offendono. Nelle sorsate d’alba il midazolam somministrato con l’ago esala nella vena. Poi il respiro sprofonda nella gola carsica risucchiando via, a uno a uno, i nostri volti prima di approdare alla riva, ai cupi occhi della grande notte. // Sotto la notturna volta della scala comunale è scomparso il ragazzo che infilzava lucertole trapassandole da parte a parte con il fil di ferro. Da poco si è accasciato sul terreno, in mezzo al groviglio di arbusti spinosi e rami secchi. Una striscia di cielo lo guarda. Nella testa della capra suona il ritmo assordante di una musica persecutoria. All’alba spalancherà gli occhi senza alcun ricordo. La morte dei giovani arriva all’improvviso, carica di violenza. Lo smembramento è totale. Su tutto domina l’ebbrezza gridata da un cuore felice e maledetto» (p. 13).

La tensione realistica dei quadri e il ritmo franto della descrizione sono soggetti a una forma di drammatizzazione scenica, segnata dalle pennellate espressionistiche delle scelte lessicali. La notte, qui come in numerosi altri passi del libro, sembra allearsi con le presenze scure e ctonie della vita, con il sangue che nutre la terra e l’asfalto. Realistico è il dato iniziale, che viene però subito investito di un simbolismo acceso e traumatico, spesso esaltato dai contrasti cromatici («neve»-«sangue»), come già nella poesia d’esordio: «su tutto il giardino neve / dilatata / silenzio armato nelle pupille / neve, tutta nel sangue / narici oltraggiate / bianco e nero // l’incedere violento / del battito cardiaco / si chiude su di sé // nella luminosa potenza / avviene l’incontro» (p. 11). Il tema della solitudine, su cui si chiudono tutte queste vite, si scontra nondimeno con una dimensione di coralità diffusa, spesso sottintesa.

La ripetizione a distanza di tratti e termini, spesso legati al corpo e in particolare al volto (pupille, narici, occhi, cranio, bocca, capelli, nuca, denti, orecchio, gola, labbra, voce, orbite, iride), risponde a un’esigenza di ritualità, più che di formularità: siamo nel territorio del tragico, non dell’epos, cioè nel territorio in cui tutto si è ormai consumato. Un tempo assoluto che può richiamare per analogia quello del mito, entro il quale la dimensione del quotidiano e del reale acquista un suo significato nuovo. Il dramma si ripete, perché solo in questo ripetersi – in questo poter essere rappresentato – trova una sua verità e una sua cadenza espressiva. Anche per questo la raccolta si distende in un unico movimento, privo di divisioni e di sezioni interne: non c’è, in queste storie, un prima e un dopo, ma un unico, circolare fluire in cui la cronaca sprofonda subito in evento, in qualcosa che era già accaduto.

Lo stile costeggia – anche per l’espansione orizzontale del verso – la nudità del referto, ma un referto che si dà in una lingua di alta densità metaforica, e che sembra ogni volta precipitare, nella concitazione delle immagini, verso una chiusa necessariamente sentenziosa: «poi scendeva la tenebra / il silenzio di tutte le parole» (p. 53); «morivano gli occhi / nel soffio della vita» (p. 58); «nella decomposizione / tutto il nostro destino» (p. 60); «deborda, cola sul pavimento / la tenebra» (p. 67); «sei entrata dal fondo, sei tornata / in un paese morto» (p. 69).

“Piazzale senza nome”, disegno di Giulia Napoleone, maggio 2022

Libro ossessivo, martellante nel ritmo delle immagini e dei pensieri, dominato dalla presenza della morte e del male, Piazzale senza nome è un libro senza ristoro e senza conforto («una storia cruda senza atti di grazia», p. 47), ma anche un libro fondato sulla pietà dello sguardo e dei gesti, come nella poesia intitolata Quando hai smesso di respirare: «l’amore è un tuffo sul corpo / il nome chiamato / non risponde / dita sorreggono la testa / da dietro, la tengono dritta // ti chiudono gli occhi / la bocca estrema / ha bevuto l’oceano» (p. 88). Continua a leggere

Maria Pia Quintavalla, da “Estranea (canzone)”

Mariapia Quintavalla, Foto dell’autrice

1)
La sensazione del tempo che passava
nello spazio e la lisciava, la pettinava
e arava a lungo,
permase rimase, diveniva cosa,
tangibile in nuove cose, in nuova
vita – se non paura millenaria,
deflagrata e colta fino
alle piu intime essenze e parvori
– cioè vera vita.

Semplicemente senza quel foco, quella
incantevole tenera e scintilla
lei non avrebbe.

***

Oggi più soste,
per tenere e disciplinate cose
predisponevano
il padre madre, lo stuolo tutto
di possenti anime in campagna
( già laghi e campi della sua regione)
e facevano più sola,
ripauperata
la sua diseguagliata prole.

2)
Allora grida e sortilegi, spinte della
vita con le spalle chine e le finestre
chiuse laggiù nell’ombra del fiorito fiume,
che a tratti buono tutto blu
e profondo
le facevano un vuoto (monito).

Allora lei sentiva che poteva
e domenica rifarsi intatta
ricongiungere i due lembi del passato,
e due nel terzo occhio
dimoravano felici.

***

3)
Mietute cose,
di pose e viole una generazione
né dissipata, ma mietuta, osip,
era di altri ami e lontani, ma
al fine secoli qualunque accreditati
di altri linguaggi, specimen, canzoni
( gli avi: nel ’50 i figli del quaranta,
e poi i sessanta).

Ma Io tenevo a dirvi quanto udii
di altre legioni eserciti bambini,
schiere di animule fraterne e fere,
miei vicini, che assai bene
nati, bene protetti e ripagati
dalle stelle in più doni si sentirono
perdutamente stanchi e intrisi
di una storia (babelico
sofferta), stesa al sole
da un corale distratto, decorata
ormai casuale.

e splendidi sentieri, ricchi
e Introvati al novecento ottanta.

Mariapia Quintavalla, da “Estranea (canzone)” Edizioni Puntoacapo, 2022

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Song for Wole

Wole Soyinka

Wole Soyinka, Photo Laboratorio Formentini

Giovedì 10 novembre, ore 19:30 – Laboratorio Formentini – Milano

Song for Wole

a cura di Roberto Mussapi

 

Per Wole Soyinka, il grande scrittore nigeriano, drammaturgo, poeta, romanziere, saggista, primo africano a vincere il Premio Nobel per la letteratura.

Mussapi, che conosce Soyinka dal 1882, due anni prima del Premio Nobel, e che con lui ha scoperto affinità elettive e amicizia, reciterà il Song for Wole, omaggio al suo amico e Maestro. Omaggio a una delle voci che il poeta italiano considera tra le più importanti del nostro tempo.

 

“Ora dimenticate i morti.
Dimenticate anche i vivi.
Rivolgete la vostra mente solo al nascituro.”

Wole Soyinka

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Video Intervista a Franco Loi

Franco Loi e Luigia Sorrentino, Milano 2006

Nota di Luigia Sorrentino

Vi propongo oggi una delle versioni più complete della mia video-intervista al poeta Franco Loi realizzata nel 2005.
L’aneddoto che mi lega a questa intervista è interessante. Ve lo racconto.
Avevo ricevuto dal mio direttore di Rainews24 l’incarico di andare da Roma a Milano per intervistare la poeta Alda Merini.
Conoscevo la Merini, il suo carattere particolare… quindi dissi al direttore che avrei “provato” a intervistarla, ma non era detto che l’intervista sarebbe andata a buon fine e allora, “contrattai” che se la Merini mi dava “buca”, avrei intervistato a Milano a Via Misurata, il poeta Franco Loi. Poiché la Merini mi diede appuntamento alle 14 nell sua casa sui Navigli, senza perdere tempo decisi di andare prima a intervistare Franco Loi alle 11:00. C’era la moglie, Silvana e Franco che mi ricevette in giacca da camera. Bene. Questo è il risultato di alcune ore che trascorremmo insieme, poi andai dalla Merini che ovviamente mi negò l’intervista sbattendomi la porta in faccia.
Però io andai dalla Nanda, da Fernanda Pivano, e feci con lei un’intervista molto esclusiva che vi proporrò fra qualche giorno. Quando tornai in redazione il mio direttore fu molto contento. Pacca sulla spalla! “Hai intervistato la grande Nanda”! Ma a dire il vero io ero felice soprattutto per Franco Loi.
Eccolo nella nostra indimenticabile (per me) intervista.

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Milo De Angelis presenta a Milano la sua traduzione del “De Rerum Natura” di Lucrezio

Giovedì 16 giugno, ore 19:30 alla  Casa della Poesia di Milano (via Formentini 10) presentazione di LUCREZIO a cura di Milo De Angelis. Con Vincenzo Frungillo, letture di Viviana Nicodemo. 

La traduzione di Milo De Angelis del De rerum natura di Lucrezio – da poco uscita nella collana dello Specchio Mondadori – verrà presentata da Vincenzo Frungillo, poeta da sempre vicino al mondo classico, mentre l’attrice Viviana Nicodemo leggerà un’ampia scelta di brani, che mettono in luce alcuni temi centrali di questo immenso poema: la potenza della natura, il vortice degli atomi, l’indifferenza degli dei, la novità del messaggio epicureo, la condizione umana, le malattie e la peste di Atene, di cui Lucrezio fa un ritratto sconvolgente e attualissimo alla fine dell’opera.

L’incontro si propone di mostrare ancora una volta l’inesauribile presenza di questo poeta solitario e misterioso, di cui non sappiamo quasi nulla, vissuto nel primo secolo A.C. e poi dimenticato con l’avvento del Cristianesimo.

Dopo la scoperta del suo manoscritto, avvenuta nel 1417 a opera dell’umanista toscano Poggio Bracciolini, Lucrezio non ha cessato di lasciare un’impronta duratura nell’arte e nella letteratura dei secoli successivi – da Botticelli a Tiziano, a Tasso a Shakespeare, all’Illuminismo, a Shelley, Foscolo, Leopardi, fino all’esistenzialismo di Sartre e di Camus e alle correnti più vive e appassionate del pensiero contemporaneo.

Teresa Maresca. “Il kimono d’oro dell’imperatore”

Testo presentazione mostra

Le cose sono andate esattamente così.
Avevo lavorato a un gruppo di opere diverse dalle mie solite: sono un pittore che usa pennelli e colori sulle tele, e  di solito prediligo le grandi dimensioni. Ma da tempo guardavo con più assiduità i libri sull’ Ukiyo-e, l’arte fluttuante dei maestri incisori del periodo Edo ,  Hiroshige, Utamaro, Okusai, fino a quando ho avuto la tentazione di provare a tradurre i loro temi con il mio modo.

Prima di me avevano intrapreso quella strada molti pittori come Monet, Whistler, o Gauguin, ma io sono innamorata di un piccolo olio di Van Gogh che copia fedelmente un’incisione di Hiroshige, un ramo di pruno fiorito.

Mi sono chiesta come sarebbe stato dipingere fiori di loto galleggianti,  alberi in fiore, aceri, templi buddisti immersi nei giardini; come sarebbe diventata la mia pittura declinata tra quei soggetti.

Prima di tutto è cambiata la dimensione, le opere si sono rimpicciolite, un solo fiore  ha riassunto interi stagni. Poi sono cambiate le tecniche, non ho dipinto su tela ma su fogli di rame sottilissimi,  lastre di ferro,   tavole di legno, e addirittura su seta.  Inoltre ho realizzato un libro d’artista, una copia unica, legata a mano, disegnata interamente da me, che inoltre ho inventato la storia del kimono d’oro.

Il rapporto con l’arte orientale da cui ero partita c’era sempre, ma dovevo verificarlo.

Quando sono entrata nella galleria di Renzo Freschi con il libro e qualche altra opera sotto il braccio, non sapevo che cosa sarebbe successo.  Avrebbero retto al confronto con quegli oggetti bellissimi che raccontano di una cultura antica?

Renzo Freschi è stato molto accogliente. Mi ha lasciato sistemare le mie opere tra i suoi Buddha di pietra e gli Specchi di bronzo, e ha ascoltato paziente la storia vera da cui è nato il  libro sul kimono d’oro. Non ci eravamo mai incontrati, anche se ero spesso entrata in galleria.  “Facciamo una mostra”, mi dice,  “dove il libro è il punto di partenza.” Continua a leggere

Milo De Angelis presenta a Milano Sylvia Plath

Sylvia Plath e Ted Hughes

Giovedì 12 maggio, alla Casa della Poesia di Milano alle ore 19:30  serata di poesia su Sylvia Plath a cura di Milo De Angelis.

Sylvia Plath è una poetessa geniale, capace di associazione violente e inattese, capace di unire cose che sembravano lontane e che invece attraverso la sua voce si scoprono congiunte da un legame segreto.

Proponiamo in questo incontro alcune testimonianze che riguardano l’ultimo periodo della vita di Sylvia Plath. Sono poesie, soprattutto, ma anche brani dell’epistolario – in particolare le lettere alla madre – e un testo del marito Ted Hughes a lei dedicato.

Presentazione di Paola Loreto
Letture di Viviana Nicodemo
via Formentini 10 – ingresso libero Continua a leggere

Clemente Rebora, “Canti anonimi”

A N T E P R I M A   E D I T O R I A L E

A cento anni dai Canti anonimi di Rebora (un libro che è una reazione al dramma della guerra) esce un’edizione commentata con un’anteprima il 6 aprile 2022 a Milano con reading di Patrizia Valduga. L’edizione di Interlinea è curata da Gianni Mussini.

Nel  libro c’è il rapporto tra natura e città, la sua Milano, e soprattutto c’è l’ansia per l’attesa di un futuro migliore, grazie a qualcuno o qualcosa, forse la donna amata o  forse la fede, dopo l’annichilimento e la strage della Grande Guerra («trincee fonde nei cuori – l’età cavernìcola è in noi.»); per questo scrive dei «canti anonimi» perché vuole cercare, nel donarsi anonimo agli altri, una ragione per continuare a vivere, per ripartire, per trovare prima o poi chi «verrà, se resisto / a sbocciare non visto»; l’edizione stampata da Interlinea nel 2022, è a tiratura limitata e andrà in distribuzione il 9 aprile 2022.

Roberto Cicala

L’IMAGINE TESA: L’ATTUALITÀ DI REBORA

PRESENTAZIONE

Mercoledì 6 aprile 2022 Aula Magna, ore 17.00 Largo A. Gemelli, 1 – Milano

Tavola rotonda di presentazione dell’edizione commentata dei Canti anonimi di Clemente Rebora (Interlinea, 2022).

Intervengono
Gianni MUSSINI curatore

Giuseppe LANGELLA
Università Cattolica del Sacro Cuore

Valerio ROSSI
Istituto Sant’Ambrogio, Centro Novarese di Studi Letterari

Coordina
Roberto CICALA
Università Cattolica del Sacro Cuore, Interlinea

Letture di Patrizia Valduga

 

Clemente Rebora ritratto da Michele Cascella negli anni ’20

UN ESTRATTO DAL LIBRO

Campana di Lombardia
di Gianni Mussini

Il paesaggio che si immagina sullo sfondo è sempre quello vasto e mansueto della campagna lombarda, verticalmente punteggiato di campanili. Mentre il discorso riprende con naturalezza dall’ultima strofa di Al tempo che la vita era inesplosa, le cui parole scorrevano in una lenta musicalità capace di assecondare quel senso di profonda comunione con il creato: quasi un “adagio” che man mano si affievoli- va sino alla confessione finale: «è bello il silenzio a te vicino». In questo contesto può ora sciogliersi «la “voce” (anonima e unanime: corale) della campana di Lombardia, ispiratrice di un’arcana, contagiosa fiducia “verso l’alto”» (Ramat 2008, p. 168). Fiducia di «guarir l’intimo pianto», suggerisce Rebora (v. 8) agganciandosi di nuovo all’Inesplo- sa, dove i valori del Carlo contadino erano antidoto alle «tèrree nostre notti». Ma c’è ancora un altro legame tra le due liriche, poiché nella seconda si realizza la particolarizzazione di uno spunto dell’altra: i cui sinestetici «effluvi di campane» (v. 54) si precisano ora in un’immagine più sem- plice e definita, ma non meno evocativa: la campana di Lombardia che, come recita un folgorante commento di Luca Doninelli (1987), «non dà malinconia perché è voce di qualcosa che è qui da sempre». Non si potrebbe spiegare meglio l’intima religiosità di questo testo, coerente con il nuovo clima morale della raccolta. Continua a leggere

Le poesie di Roberto Rebora

COMUNICATO STAMPA

 

 

Mercoledì 15 Dicembre 2021, ore 18.00

Milano, Libreria Popolare, Via A.Tadino 18

NON DESCRIVO, VEDO

Presentazione del volume che raccoglie l’intera produzione poetica
di Roberto Rebora, curato da Amedeo Anelli per l’editore Mimesis

 

Dopo la prima presentazione, tenutasi a Lodi il 21 novembre, il volume di poesie di Roberto Rebora recentemente pubblicato dall’editore Mimesis e curato da Amedeo Anelli, poeta, critico e direttore della Rivista di Poesia e Filosofia Kamen’, verrà presentato a Milano, mercoledì 15 dicembre alle ore 18.00 presso la storica Libreria Popolare di Via Alessandro Tadino 18.

Si tratta della prima presentazione a Milano del corposo volume di 400 pagine che raccoglie l’intera opera poetica edita – più alcune poesie inedite in volume – di Roberto Rebora (1910-1992, milanese di nascita ma con genitori provenienti da Codogno), nipote del più noto poeta Clemente Rebora, raffinato critico teatrale ma soprattutto “uno dei maggiori poeti europei del Novecento” anche se ben poco conosciuto, sia perché fu schivo, rigoroso e “sordo alle lusinghe della mondanità” in vita, sia perché le sue raccolte di poesie erano da molti anni fuori catalogo e vere rarità per bibliofili. Continua a leggere

Rileggere Testori

La Casa della Cultura di Milano rilancia Nella città contemporanea a partire dal 12 novembre, un nuovo ciclo di letture e incontri.

Il primo è dedicato a Giovanni Testori, lo scrittore, poeta, drammaturgo e attore di Novate Milanese.

Per Testori la Cultura è un continuo avvenimento che si contrappone all’astrazione e  all’omologazione: è un continuo ‘rinascere’.

Questo spirito di rinnovamento portò Testori, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, a dare vita a un nuovo senso del teatro sotto la spinta dell’incontro con l’esperienza cristiana.

La svolta prese avvio dopo la morte della madre che lo portò alla stesura di Conversazione con la morte nel 1978. Continua a leggere

Omaggio a Franco Loi

Franco Loi

C  O  M  U  N  I  C  A T  O      S  T  A  M  P  A

 

Riapre il 4 novembre 2021 in presenza la Casa della Poesia di Milano con una lettura dedicata a Franco Loi.

Come sempre l’ingresso è libero, ma a causa delle misure di sicurezza anti-covid, i posti sono limitati, per cui per partecipare alla serata, sarà necessaria la prenotazione.

L’evento sarà trasmesso in streaming sul Canale Youtube della Casa della Poesia di Milano.

Giovedì 4 novembre 2021, ore 19:30 – LABORATORIO FORMENTINI – Franco Loi e l’infinita giovinezza

a cura di Milo De Angelis

Omaggio a Franco Loi, con una scelta di poesie dal primo capitolo de “L’angel”.

Letture di Viviana Nicodemo    Continua a leggere

Addio a Giancarlo Majorino

Giancarlo Majorino

NOTA DI MAURIZIO CUCCHI

Ho avuto la fortuna di incontrare Giancarlo Majorino quando ero ancora poco più che un ragazzo, e di considerarlo da subito uno dei maestri a cui avere il privilegio di rivolgermi.

In lui è stata decisiva, e per certi aspetti inimitabile, la forza del pensiero complesso e della sua capacità di calarlo nei dettagli espressivi e innovativi della sua forma poetica. Un pensiero, oltre tutto, quanto mai vivo nella quotidianità dell’esperienza, e attivo nella identità di una parola lontana da ogni possibile condizionamento letterario, ma al contrario proveniente – nella piena consapevolezza della sua scrittura – dai termini concreti del reale vissuto.

Il suo lavoro poetico è stato “sperimentale” ben oltre le linee di un’avanguardia – quella dei suoi più o meno coetanei – costituitasi in gruppo, introducendo termini del rapporto con la contemporaneità e con la parola ricchi di interne tensioni, tensioni acute nella visione critica del contesto in cui lui stesso sapeva perfettamente di essere immerso, eppure sempre mosse da un irrinunciabile gusto naturale per la vita, per la sua incomparabile e in fondo misteriosa sostanza, capace di produrre insieme meraviglie e orrori.

Ciao, Giancarlo, ti ringrazio per avermi ascoltato e non cesserò, finché sarò in vita, di esserti fedele e riconoscente amico.

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E’ morto Giancarlo Majorino

Giancarlo Majorino

Lutto nel mondo della poesia. Se ne va Giancarlo Majorino, nato a Milano, il 7 aprile 1928. Poeta, insegnante e drammaturgo italiano è scomparso stamattina, nella sua città d’origine, Milano, all’età di 93 anni. E’ stato Presidente della Casa della Poesia di Milano, dal 2005, anno della sua costituzione, a oggi.

L’ultimo suo libro è stato pubblicato nel 2018, La gioia di vivere (Mondadori, Collana Lo Specchio) dalla quale è tratta la poesia che qui vi proponiamo.
.

davvero bell chiaro troppo
di non so quanto
e soltanto chi sta sotto
potrà comprendere rivivere
sia Gesù sia Marx l’han detto

e poesie non notizie (dopo, dopo)
nonché’ l cervello di uno dei ceti medi
come qui può cominciare a scrivere
chi sta sopra non può dirigere niente
chi sta sotto potrebbe ma è assai difficile

ma poi quando un uomo grida aiuto
un uomo una donna una vecchia un bimbo
è come se il mondo si fermasse
case mute zitte finestre chiuse
tutto ciò parla o o urla o tace sale s’agita

 

Da: La gioia di vivere (Mondadori, 2018) Continua a leggere

L’ “Odissea” di Kazantzakis, evento on-line

Giovedì 20 maggio 2021 – 19:30

L’ “Odissea” di Kazantzakis – memory lane + anteprima (80′)

LINK PER DIRETTA VIDEO: https://youtu.be/MS3L729RQW0

La serata di oggi, 20 maggio 2021, organizzata dalla Casa della Poesia di Milano è a cura di Milo De Angelis.
Voce recitante: Viviana Nicodemo.
Sarà presente Nicola Crocetti.

In occasione della sua uscita in volume (Crocetti, 2020), riproponiamo la serata del 15 maggio del 2019, in cui Milo De Angelis presentava l’”Odissea” di Nikos Kazantzakis nella traduzione di Nicola Crocetti, che ha lavorato per molti anni a questo magnifico poema dello scrittore greco (autore tra l’altro di “Zorba il greco”) e ora finalmente è giunto al termine di questa impresa titanica.

L’”Odissea” di Kazantzakis, pubblicata per la prima volta nel 1938 e composta di 24 canti – come le lettere dell’alfabeto greco e come i poemi omerici – è ricchissima di invenzioni linguistiche e neologismi che hanno fatto disperare tutti i traduttori del mondo. Ma in compenso ci immerge in una scena epica grandiosa, rinnovando fin dalla radice il suo protagonista, Ulisse: tornato a Itaca e annoiato dalla monotona atmosfera del luogo, egli riprende il suo infinito viaggio e cerca un nuovo significato per la sua vita e per la nostra.
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Marco Corsi, “La materia dei giorni”

Marco Corsi / credits ph Dino Ignani

 

LA MATERIA DEI GIORNI

hoc animi demum ratio discernere debet,
nec possunt oculi naturam noscere rerum.
Lucrezio, De rerum natura IV, 384-385

fissavo l’ombra sul muro e per esercizio
contemplavo le forme disfarsi agili
lungo il filo delle mattonelle. così, per più giorni,
nervoso come il morso del nero
in parte obliquo e in parte solo cedimento
mio sembrava il tuo corpo di carne compatta,
soda, del tutto insensibile al tatto.
poi divenne più esile, allungato stremò
l’ovale del bel volto sulle tapparelle chiuse,
nel reparto intensivo all’ultimo piano
cedette la pressione, la poca luce
emise un breve rantolo e io docile fissavo
l’ombra più lunga sul muro e salutavo.

***

l’insalata, il grande verde, la cicoria:
ciò che la dieta avrebbe vietato
con insidioso bolo di molecole
a te, in realtà, non piaceva per natura.
preferivi la città, le piste di animali
elettrici, mormorando appena qualcosa,
subito dopo sparendo per sempre
nel perfetto meccanismo mobile
che fissa notte e giorno
con perizia di entomologo.

***

nei casi estremi da manuale di parenting
trova traccia questa commozione
di essere famiglia in tutte le cose,
dovendo o non dovendo decidere
se piangere con molta naturalezza
oppure concretare un non so che di bestia.
ora la signorina srotola con cura
serpi di nylon intorno al petto
mentre riduci il tuo sembiante
a voce di scimmia mattutina
nelle ore deputate alla visita
nella camera senza ritorno.

***

con effetto di falso movimento
di giorno in giorno moriva il giorno
rivoltando il cielo su se stesso
fino al limite dell’area d’azione:
un tiro da tre punti su stelle dure.
affiora più lento sul dorso della mano
l’universo caotico del tempo, con molti
molti crateri di tempeste siderali
portatrici di vita e adesso
cattivi presagi, asperità,
mentre con cura rivolto
l’avambraccio e vi scruto
la vita silenziosa delle vene,
qualche rado pelo, l’incendio,
la notte vaga bipolare.

***

fissavo l’ombra sul muro e intanto
guardavo te sparire con tutta la specie
umana dei cordogli, chiedendo un linguaggio
più prossimo alla vita: ossigeno, globuli
rossi, piastrine, colesterolo, enfisema,
cattivo presagio convulso nel respiro,
doglia di parto inverso, artificio.
ma ora che vegli appena nel gioco cordiale
di peso e sovrappeso, avresti dovuto
dimagrire un po’, ti ripetevi, per inerzia o noia
lento lento retrocedi affabulando, squittisci,
gli occhi di radice immobile in secca
nel languore del reparto, mentre perdi peso,
senza più peso, tu dormi. Continua a leggere

Le fragili esistenze di Milo De Angelis

NOTA DI LETTURA DI MASSIMILIANO MANDORLO

Lì, sulla linea di confine “tra la gioia e il grumo più buio”, si muovono le creature notturne del nuovo libro di Milo De Angelis. Qualcosa di oscuro e segreto preme dietro l’apparente ritmo più disteso di questi testi, irrompe sulla scena congiungendo la biografia terrestre a un respiro cosmico, universale: “Tutto è come sempre / ma non è di questa terra e con il palmo della mano / pulisci il vetro dal vapore, scruti gli spettri che corrono / sulle rotaie”.

Tornano i luoghi familiari alla poesia di De Angelis: la Milano notturna dei tram e dell’Idroscalo, dei bar e della periferia con “l’infilata dei grattacieli che sembrano / una barriera corallina” e poi gasometri abbandonati, parcheggi e piscine, aule liceali dove si consumano “gloriose avventure terrestri”.

C’è nel gesto atletico, pindarico, dell’atleta sui blocchi di partenza o del tuffatore pronto per il salto una forza che illumina quel segmento di tempo e lo proietta nelle profondità di un altro tempo: “dovevo tornare / per un oscuro richiamo dei luoghi, per questo / rettangolo azzurro e per i suoi cinquanta metri […] per il tuffo /che illumina laggiù la piattaforma e il doppio avvitamento”.

Così, come in una sequenza cinematografica, in Sala Venezia l’occhio del poeta inquadra i passi al rallentatore di un uomo appena entrato in una sala da biliardo, si sofferma sui movimenti e sulle parole pronunciate, sul tavolo da gioco su cui va in scena l’attimo decisivo di una vita intera: “sorridi e ti acquieta il panno verde / come un prato dell’infanzia, ti acquietano i bordi / di legno che ora contengono il tuo evento / e la forza centripeta conduce l’universo / in un solo punto illuminato”. Il poeta se ne sta lì, come un mendicante o un eremita, a raccogliere “gli emblemi dell’inizio e della fine” come frammenti dispersi, linee intere o spezzate delle fragili esistenze che abitano il mondo.

Sono le linee di forza, continue o interrotte, che compongono il Libro dei mutamenti cinese, qui immagine e simbolo delle numerose vite che si agitano sospese “nel brivido del tempo”, ai bordi della vertigine.

È in questa spaccatura che abita la poesia di De Angelis, tra le ripetizioni e i continui andare a capo che frantumano il respiro del verso e lo tendono fino a un punto finale, assoluto: “e ora io mi fermo in un luogo / qualsiasi e lo riempio di purissima benzina, / la benzina che amavo da bambino ai distributori / della A7, e chiudo in ventidue metri quadrati / il mio episodio”.

Aurora con rasoio è il titolo dell’ultima, intensa sezione del libro in cui il poeta, navigando controcorrente, affronta un tema così controverso e innominabile come quello del suicidio.

Lontana da ogni passione o interesse sociale, la poesia di De Angelis compie uno scavo nelle profondità abissali dell’esistenza, anche a costo di compiere un’ulteriore tappa di questo viaggio al termine della notte.

Quando “la luna non concorda” più con il “battito terrestre” non c’è più nessun commento o parola possibile, ma un grande silenzio scende sulle vicende terrestri di chi ha già visto troppo “della vita e dei suoi sotterranei”. Continua a leggere

Ciao Franco

di Maurizio Cucchi

 

Torno a leggere una delle poesie di Franco Loi che rivelarono, ormai quasi mezzo secolo fa, una presenza nuova che convinse lettori sensibili e severi come Franco Fortini o Dante Isella. Parlo di quella lirica che fa così: “Mariuccia / prim tettin de la mia vita” e che poi prosegue portandoci in un luogo preciso di Milano: “Oh, ser de via Cardano / curt de fümara, / buff de scighera che dal Navilli vègn”. E così torno con la mente a passeggiare con Loi, di cui sono stato amico e che abbiamo da poco perduto, partendo proprio da via Gerolamo Cardano, lì dalle parti di via Melchiorre Gioia e via Galvani, ma poi il pensiero mi riporta al poeta, all’originalità sorprendente della sua opera e della sua lingua, e dunque del suo dialetto milanese così speciale, in quanto scritto non più secondo i canoni classici del Porta o del Tessa, ma ripreso in una grafia nuova, più vicina alla pronuncia, all’oralità. Ma non solo: un dialetto a volte reinventato, una lingua di chi come Loi , nato a Genova nel 1930, da padre sardo e madre emiliana, trasferitosi a Milano nel 1937, era costretto ad ambientarsi, anche linguisticamente, per potersi integrare. Il nostro poeta, vivendo a contatto quotidiano anche con la realtà di lavoro del suo tempo, aveva dovuto apprendere e far propria quella lingua. Una lingua cresciuta dalla concretezza di gente umile, e a volte, come lui, venuta da altri luoghi. Una lingua che gli ha consentito narrazioni liriche legate all’esperienza di un mondo operaio che aveva potuto conoscere e frequentare direttamente. Una poesia quella di Loi carica di tensioni e sentimenti che con estrosità oscilla tra alto e basso, tra elementi teatrali ( Teater è il suo secondo libro del 1978) e spinte epiche, di un’epica popolare frutto della memoria e di una attenzione ai fatti e alle figure dell’esperienza. Ed era bello ascoltarlo dire i suoi versi in pubblico: la sua forza comunicativa , l’emozione della sua poesia suscitavano una immediata adesione del pubblico. Ho avuto, dicevo, la fortuna di conoscere bene Franco Loi: mi piaceva ascoltarlo ricordare la Milano del dopoguerra, del Casoretto (il rione che ben conosceva). Quando ci capitava di passeggiare insieme per la città parlavamo di tutto e, qualche volta, anche di calcio, ma qui avevamo qualche contrasto: io interista … e Franco tifoso del Milan. Continua a leggere

Ancora due passi. Per Franco Loi.

Franco Loi

di Alessandro Santese

 

 

Consegnato alla sua giacca a vento grigia, la sciarpa multicolor lunga ai due lati del collo che spiove fino alla cintola, Franco Loi cammina su e giù, sopra un palco che potrebbe essere una via tra le tante che sapeva a memoria di Milano. C’è un incontro; lui parla; il titolo è: «Il silenzio dell’amore». Ma non parla soltanto, cammina, su e giù, da un lato all’altro, senza sosta: e si lascia sottilmente invasare. Camminare lo riporta alle sue vie, pensa, forse, qualcuno. Una scrivania, al centro esatto del palco, dell’acqua e un bicchiere rovesciato sulla testa della bottiglia, una sedia e tutto l’occorrente, lo attendono. Non li vede neppure. Entra ma come non entra davvero; comincia a parlare. Non si accomoda, declinando gli onori di casa. Tiene il cappotto e la sciarpa. E forse rifiuta, in silenzio, con grazia naturale, senza volere, la cerimonia degli arrivati, di chi è costretto a parlare poi borghesizzando i fatti in poltrona, dal pulpito morbido: vuole fare su e giù, continuando a scalpitare anche lì senza tregua, è probabile, le sue strade mentali, zeppe di rioni rumorosi o festanti, silenzi definitivi, occhi ridevoli, risa violente e pane caldo. Vento, tram, bèj tusann; balere; la guerra dentro.
Quarantacinque minuti. Su e giù, e ancora, continua, su e giù: mentre parla, ce ne accorgiamo, egli si lascia parlare, con la sua voce da giradischi magato unghiato dalla puntina, flautata nel timbro, dolcemente spiritesca. I temi sono quelli che lo muovono, grandissimi, da sempre: il silenzio mentale, lo spiro di amore dantesco, le dimensioni intersecanti del tempo, la dettatura dell’anima e dei versi, i morti e l’innamoramento, riportati tutti ad altezza d’uomo e a misura di vita con la disinvoltura di uno sciamano senza difese cresciuto nei sobborghi, quasi stesse, con la stessa naturalezza, continuando il porta a porta dei tempi del PCI, solo ora con l’anima e i suoi segreti da confidare.
E difatti cammina al bordo quasi del palco, come per immergere anche se stesso nel flusso di chi lo ascolta. Dunque termina: e se ne va, così come era venuto, senza stacco di cinepresa, il cappotto troppo grande ancora addosso, senza nulla toccare degli strumenti di chi si vuole a casa, lasciandoli lì intatti, dietro di sé, pungolato invece da un demone che lo spingeva con furia dentro sé e che chiamava, anche lui, poesia.
Chi sedeva ascoltando, io credo, stupiva. E lì sotto, non lontano dal flusso, quel giorno, al centro Asteria, stupivo sorridendo di gioia anche io.   Continua a leggere

Luna su Viale Misurata

Franco Loi

di Paolo Senna

Dal balcone vedo la casa di Franco Loi, il civico 60 di Viale Misurata, una strada a veloce percorrenza che sorge sopra la canalizzazione dell’Olona solcata senza sosta da lunghe file di automobili. Oltre al viale, tra casa sua e la mia, una piazza con la giostra dove spesso dall’alto potevo vedere Silvana, la moglie di Franco, passare per la spesa o per altre commissioni. Oggi vedo quella casa che per me come per molti altri resterà sempre “la casa di Franco Loi” così come una volta, accompagnandolo a casa in macchina dopo una serata di letture, passando da Viale Gorizia lui disse: “Questa è la casa di Vittorini”. Milano era la sua città, quella che lo aveva visto crescere e diventare uomo, quella che sarà sempre la città dell’Angel, con le partite interminabili a pallone, le rappresentazioni teatrali fatte da ragazzo un po’ per gioco e un po’ sul serio nella vecchia Via Teodosio, gli sguardi così densi di aspettativa e di vita dei primi amici e dei primi amori. Di Milano Franco conosceva i motti e le facezie, le pieghe cerebrali e intestinali, i personaggi che l’hanno popolata, che hanno riempito gli uffici delle case editrici e i locali delle osterie. Milano è stata anche il paradigma della città, del luogo dove si incrociano i destini degli uomini, dove iniziano e finiscono le dittature, dove la voce, e le voci, posso trasfigurarsi in vûs della poesia.

Molti hanno sentito il bisogno di scrivere di lui dopo il 4 gennaio, come a continuare un dialogo che per forza di cose si è interrotto e perciò scrivere di lui è diventato un modo per scrivere a lui, anche se nell’immediato non sarà semplice attendersi risposte. È comunque una cosa di cui non sono molto sicuro perché ci sono molte più cose tra cielo e terra (con quel che segue); e Franco lo sapeva benissimo.

La sua poesia è pervasa da un inevitabile trasporto metafisico; inevitabile non perché prestabilito a priori, come assunto di una fede o di un fideismo teorico o arbitrario; ma come semplice ed elementare dichiarazione della vita. In questo senso tale valore che chiamiamo a buon diritto spirituale è stato uno dei punti fermi della sua poetica (e si veda proprio in questo blog il ricordo di Umberto Piersanti). Basterà rileggersi quello Strolegh che nel dialetto milanese è “l’indovino”, ma è anche il folle, il personaggio bizzarro che vive fuori dalle righe e al limite fra due mondi, proprio come sarà per l’Angel ma anche per il puèta: che è sì l’“òm inamurâ” ma è anche quello stesso uomo che “la matina s’alsa desperâ”. Basterà rileggersi i moltissimi testi brevi da L’aria a Isman fino a Voci d’un vecchio cantare, dove ad ogni passo il poeta che attraversa il mondo osserva e al contempo si lascia osservare da quanto accade attorno a lui: una finestra che si apre, il colore cangiante di una nuvola, il volo degli uccelli, il canto di una voce, il passare di una figura femminile. E, su tutto, l’esclamazione di sorpresa che trafigge come quell’acerba puntura interiore che proviene dalla bellezza più tesa (“quèl mal che vègn de la belessa”) e che nasce quando si ha davvero esperienza di una compiuta, e inspiegabile, contemplazione:

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Una poesia per Franco Loi

Franco Loi, Milano,  Spazio Oberdan (viale Vittorio Veneto 2 –  in occasione della proiezione del film documentario a lui dedicato: ‘Il viaggo del poeta‘ (durata: 71’).

di Davide Rondoni

 Franco, poeta de l'Angel e dell'aria,
 era acuto di vita il tuo sentire
 veniva da un rimuginare senza
 quiete e senza amarezza
                        era una bellezza
 dei colletti aperti,
 della carezza che va via dove va, degli occhi
 che mai incerti
 cercavano umani gli occhi -
 un diapason preciso che veniva da chissà
 risuonava in te
 mentre compilavamo la nostra
 democratica antologia, poeti
 semisconosciuti, voci di malinconia -
 e di gratitudine,
                       profezia dei semplici.
 Caro Franco,
 di libertà noi complici...

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In memoria di Franco Loi

Franco Loi

di Gian Mario Villalta

C’è stato un lungo periodo che ha visto Franco Loi presente in Friuli con regolare e assidua frequenza. Qui aveva molti amici, non solo Amedeo Giacomini e tutti quelli che si raccolglievano intorno alla rivista «Diverse lingue», della quale Loi stesso era animatore, ma molti altri che volentieri partecipavano a incontri, letture e discussioni: ogni occasione era buona, per tutti gli anni ’90 e nei primi del nuovo millennio, per rinnovare il piacere di stare insieme, e non solo tra friulani, poiché spesso erano presenti i poeti e i critici di quella straordinaria stagione della poesia neodialettale, che provenivano da tutta Italia. Non di rado mi è accaduto di incontrare Loi anche fuori dai contesti casalinghi, a Milano, per esempio, o a Bologna, e sempre il momento della chiacchiera privata amichevole era altrettanto importante di quello della lettura e della discussione pubblica.

Franco Loi è stato uno dei principali protagonisti di quel processo di uscita dal novecentismo che oggi è un fatto (anche se a volte non del tutto consapevole) operante nelle scritture poetiche delle generazioni successive. La sua influenza diretta si è affermata non solo attraverso la sua opera, ma nelle relazioni personali e nell’instancabile e appassionato dialogo, anche e soprattutto con quelli che in quel periodo erano i “giovani poeti”. E il suo ascendente ha travalicato il confine di chi operava, in tutto o in parte, nell’area neodialettale, per interessare anche chi in dialetto o in una delle lingue minori italiane non ha mai scritto.

Dovessi riassumere in poche parole la sostanza di questo vero e proprio “magistero”, direi che ha riguardato soprattutto il richiamo costante al rapporto tra la lingua viva e la tradizione. Per lingua viva, però, non dobbiamo pensare l’allora dominante concezione “stilistica” di ciò che rappresentava la lingua viva: ovvero “l’effetto parlato” da produrre sulla pagina. Era ancora operante una distinzione molto forte tra lingua d’uso e lingua letteraria e troppo spesso ci si dimentica che l’accesso della lingua quotidiana alla poesia era considerato ancora fino a tutti gli anni ’80 come ambito di esperimento o di griffe personale. Ne è riprova il fatto che lo stesso impiego del dialetto o di una lingua minore, qualora risultasse nell’insieme legato da un rapporto di dialogicità diretta con un eventuale lettore, assumeva la definizione di “lingua della realtà”, a giusticazione dell’intenzione poetica, quando invece all’impiego di lessico e formule espressive arcaiche o desuete si conferiva il titolo di “lingua della poesia”. La contrapposizione tra “lingua della realtà” e “lingua della poesia” ha informato la distinzione critica della poesia neodialettale per molto tempo, infatti, e stava a fondamento esplicito di molte dichiarazioni di poetica da parte degli stessi autori, come si può riscontrare leggendo gli interventi del momento e ancora oggi si ritrova spesso come criterio di interpretazione.

Franco Loi, fuori da questa schematizzazione, ha proposto un’altra idea di “lingua viva”, che diventava al contempo lingua della realtà e lingua della poesia, perché non aveva nulla a che fare con la descrizione di un dato stilistico, ma riguardava la sostanza storica, psicologia, e oggi direi addirittura biologica della lingua. Che per Loi questa lingua viva fosse da reinventare dal dialetto era un fatto radicato nella sua personale esperienza, che non gli impediva di riscontrare nell’italiano della tradizione o in qualsiasi altra lingua straniera la possibilità e la realtà dell’evento poetico. La lingua viva era per Loi la memoria e la storia, sia conosciute che vissute, era l’innesto della percezione nei suoni e nell’espressione verbale, era una questione di appartenenza e di libertà nella lingua stessa, poiché dalla stessa lingua (e non da sovrapposte ideologie, teorie, strutture formali) proveniva la materia prima e il processo primario della creazione poetica.

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Ricordo Franco Loi

Franco Loi, credits ph. Luigia Sorrentino. Milano, 7 marzo 2005 

di Luigia Sorrentino

Ero partita da Roma in aereo il pomeriggio del 6 marzo 2005. Il direttore di Rai News 24 mi aveva inviata a  Milano per un’intervista televisiva alla poetessa Alda Merini, molto popolare in quegli anni in Italia. Avevo detto al mio direttore che mi faceva piacere incontrare la Merini, ma che, trovandomi a Milano, doveva concedermi la possibilità di intervistare anche il grande poeta di lingua dialettale, Franco Loi, quasi per nulla noto al pubblico televisivo. Lui accettò, di buon grado. Si fidava di me. Aggiunsi che la Merini era persona molto “umorale” e non potevamo fare affidamento solo su di lei… lo avvertii che avrebbe potuto far “saltare” l’intervista all’ultimo minuto, nonostante gli accordi presi al telefono.

E andò esattamente come avevo previsto.

Mi ero organizzata così. La mia personale scaletta, prevedeva il 7 marzo 2005 prima l’intervista a Loi, poi quella alla Merini, anche perché sapevo che Alda aveva l’abitudine di svegliarsi tardi.

Avevo concordato, quindi, per le 10:00 l’incontro con Franco Loi, dopo, alle 14:00, avrei raggiunto la Merini nella sua casa sui navigli.

Alle 10:00 in punto arrivai con la troupe a casa di Franco Loi, in Via Misurata, 60.

Fummo accolti molto calorosamente da Franco e dalla moglie, Silvana, una donna intelligentissima, colta, affabile e curiosa, studiosa d’arte e di Letteratura. La casa era calda e si stabilì subito un contatto umano fra tutti noi.

Rimasi colpita dal fatto che Franco ci avesse ricevuto con la giacca da camera, indumento che Franco volle tenere anche durante l’intervista televisiva. Solo dopo, riflettendoci, mi resi conto che quella giacca indossata con tanta disinvoltura era il segno di una grande disponibilità. Era come una porta che si apriva e conduceva a una dimensione “privata”, di grande intensità.

Il nostro primo colloquio durò complessivamente quattro ore. Prima di congedarci Franco ci mostrò la casa, i libri, i quaderni. Tutto era perfettamente ordinato e pulito.

Quel primo incontro suggellò la nostra amicizia.

Alle 14:00 eravamo davanti alla porta d’ingresso della casa di Alda Merini, in Via Ripa Ticinese, 47.

Ebbi una leggera esitazione prima di suonare il campanello, ma poi decisa lo feci.  Quale sarebbe stata la sua reazione? Mi chiedevo. Saremmo stati bene accolti, oppure no? La Merini aprì la porta. Mi presentai.  Alle sue spalle riuscii a intravedere il “muro degli angeli”,  ma lei mi richiuse subito la porta sulla faccia.

Cercai di convincerla a riaprirla e a farci entrare ma lei non lo volle nella maniera più assoluta. Disse che le era venuta la febbre.

Vero o non no, dopo aver insistito ancora un po’ senza ottenere più alcuna risposta, ce ne andammo scendendo velocemente giù per le scale.

Probabilmente non le ero piaciuta. Non ci fu mai più una seconda occasione d’incontro.

Sulla strada i ragazzi della troupe mi proposero con un sorriso: “Andiamo dalla Nanda”. Io chiesi ridendo: “Chi è la Nanda?” “La Nanda! Fernanda Pivano!”

Fui entusiasta della proposta, ma come avrebbe potuto riceverci senza appuntamento?
Comprai in libreria alcuni dei suoi libri che non avevo con me.

Luigia Sorrentino e Fernanda Pivano, Milano 7 marzo 2005

Arrivammo sotto casa della Pivano. Fui io a citofonare e a presentarmi. Lei fu molto gentile, ma disse che dovevamo aspettare perché doveva consultarsi con il  suo avvocato. Ci chiese, quindi, di ritornare alle 16:00. Ritornammo e lei disse al citofono che potevamo salire. Fu una bella esperienza. Fummo accolti dal grande sorriso di Nanda saggista, traduttrice, scrittrice e giornalista di grandissimo talento. E’ lei che ci ha fatto conoscere molti artisti e scrittori della letteratura e della cultura americana: grandi scrittori classici, come Ernest Hemingway, William Faulkner, Francis Scott Fitzgerald, Saul Bellow, fino ai poeti della Beat Generation fra i quali Allen Ginsberg, Jack Kerouac, Gregory Corso, Ferlinghetti, e molti altri. Ma soprattutto la Nanda ci parlò del suo mentore, Cesare Pavese del quale era stata allieva (nel 1935 prima dell’arresto e del confino) quando Fernanda frequentò a Torino il liceo D’Azeglio.

Quando tornai a Roma e comunicai al mio direttore che avevo realizzato l’intervista a Loi e a Fernanda Pivano, e non quella alla Merini per la quale ero stata inviata a Milano, come era solito fare, prima mi diede una pacca sulla spalla e poi disse con la sua voce tonda: “Brava! Sei riuscita a intervistare gratuitamente la grande Fernanda Pivano!”

Post-scriptum

L’intervista a Franco Loi e a Fernanda Pivano aprì la strada a tutta una serie di interviste televisive che realizzati per la Rai e Rai Educational con molti altri poeti e scrittori internazionali negli anni a seguire per Rai News 24. Tutto questo materiale non si trova negli archivi di Rai Play perché in quegli anni Rai News 24 non aveva un archivio. Rai News 24 è stata la prima emittente pubblica italiana a trasmettere in digitale questo significa che tutto il materiale “girato” per essere “montato” doveva essere trasferito da analogico a digitale. Per fare “spazio” sui server era necessario “cancellare il pregresso” e quindi anche quello che avevamo già trasmesso. Ecco perché l’archivio in analogico con tutto il girato e il montato delle interviste che ho realizzato in quegli anni, è stato donato a me dalla Rai dal direttore del personale nel 2012. Un materiale prezioso, che andrebbe “acquisito”, e messo in rete attraverso i moderni canali di diffusione per ricostruire un periodo della storia della Letteratura e della poesia nel nostro Paese.

4 gennaio 2021

 

Franco Loi e Luigia Sorrentino, Milano, 7 marzo 2005

INTERVISTA A FRANCO LOI
Milano, 7 marzo 2005

Per prima cosa, Franco e io parlammo di Giovanna Sicari. Stavo preparando un servizio per la Rai su di lei e raccoglievo le testimonianze di poeti che l’avevano conosciuta e amata, e Franco era uno di questi. Mi lesse una sua poesia inedita dedicata a Giovanna, sua grande amica scomparsa prematuramente il 21 dicembre 2003. Continua a leggere

Addio al grande poeta Franco Loi

Franco Loi, American Academy in Roma, 3 maggio 2012/ Credits ph. Luigia Sorrentino

NOTA DI FABRIZIO FANTONI

Si è spento il 4 gennaio 2021, all’età di novant’anni, Franco Loi, uno dei più grandi poeti del novecento.
Solo pochi mesi fa, se n’era andata la moglie, Silvana Loi, appassionata studiosa di arte e letteratura e vera compagna del poeta.
Franco Loi era nato a Genova nel 1930, da padre cagliaritano e madre emiliana, ma vissuto fin da piccolo a Milano – dove si trasferisce all’età di sette anni- approda alla poesia a quarantatré anni, nel 1973 con la raccolta I Cart alla quale seguono Poesie d’amore (1974), Stròlegh (1975) e Teater (1978), L’angel (1981), L’Aria (1981), Lunn (1982), Bach (1986) e molte altre.

Sin dalle prime prove la poesia di Loi è segnalata dall’uso di un inventivo dialetto milanese di periferia, che trova la sua origine in una commistione tra la parlata proletaria e quella degli immigrati dalla campagna, spesso mescolata con elementi tratti da altri dialetti e lingue straniere.

Il dialetto di Loi non è il frutto di una semplice regressione “materna “ alle origini, ma qualcosa di molto più profondo e densamente emotivo: è – come scrive lo stesso Loi “la lingua di ciò che tace dentro di noi e che si rispecchia nell’infinito, la lingua delle nostre divine incoscienze”.

Lingua, dunque, di elezione e di storia che si fa espressione di una scelta di classe socialmente impegnata.
Scrive giustamente Mengaldo “. Rifiutando, con voluto e minaccioso anacronismo, ogni mediazione e orizzonte borghese, Loi si concentra tutto nella rappresentazione di un mondo popolare che, giusta l’inevitabile tristezza storica che intride gli ideali del poeta, ha i toni stridenti e sinistri della disperazione senza via d’uscita, sulla linea della più nera letteratura popolare dell’Ottocento e del primo Novecento…”.

Da Stròlegh

II

E dansi, furli,
e ’n’ambra glissetera m’involg,
la sbiava, la m’unda tra i cȃ sbiess,
che ‘l cör ciuscatt par brascia ’n’üseléra
d’aria bibiana e de smiròld beless…
Bel zéfir,brisa,
galȗpp d’un Casurett!
Tra mí e i mund franguell gh’era ’n strighèss
ch’i bej revèrber e i tumbin secrett
me curr incuntra, e fan festa, e i stell
legriusen ’n’alamanda ai grund che scend,
e mí, l’è ’nfiur, un ciall, un va de firisèll
al durbià del timid che nel venter
se tegn scundü ’me se tegn l’üsèll…
Grí San Maternu,
Bianca Maria de semper,
mia edicula, scirossa di cantun,
pulver di òmm che passa e par che stemper
s’inultra al dí luntan che vegn lirun,
sfrûs sass di strȃd, umbrius tumbin che ria,
aria de Casurett, scür trani siún,
uh sí, ve tucchi, sí, ve parlaría,
ma quanti vus, quanti respir al vent!
e ’sta manfrina de la fantasia
che per la piassa dansa sciabelent…
E al spiöv di lüs lampiun
saltrella e slisa el furbol di record,
traversa el vent.

E danzo, furlo,
e un’ambra profumata e fuggitiva
mi avvolge, fa impallidire e sbiadisce gli oggetti,
mi trascina come un’onda tra le case sbilenche,
che il cuore che vuole ubriacarsi sembra abbracciare un’uccelliera
di un’aria interminabile e fresca e pregna di balenanti bellezze…
Bel vento di ponente, brezza, ragazzo vagabondo di un Casoretto!
Tra me e i mondi fringuellanti c’era un intrico di sortilegi
che i bei riverberi e le fogne segrete
mi corrono incontro, e fanno festa, e le stelle
improvvisano l’allegria di un ballo allemando alle grondaie che scendono,
e io mi sento un fiore in un giardino di fiori, un chiaccherare,
un andare come sorsate di vino chiarello frizzo
allo svolgersi dubitoso della più intima timidezza che nel ventre
si tiene nel buio nascosta come si tiene l’uccello…
Capriccioso-fantastico San Materno,
chiesa di Santa Maria Bianca di sempre,
mia edicola della giornata, turbine di polvere agli angoli delle strade,
polvere degli uomini che passano e sembra che stemperata in aria
s’inoltri verso il giorno lontano che viene pigramente,
furtivi sassi delle strade, ombrose condutture che scorrono,
aria di Casoretto, buie osterie da succhiavinacci,
oh sí, vi tocco, sí, parlerei con voi,
ma quante voci diverse, quanti respiri porta il vento!
e questa danza monferrina della fantasia
che per la piazza balla a gambe sciabolanti…
E, allo spiovere delle luci dai lucenti lampioni
schizza e saltella e rade la strada il gioco del pallone dei ricordi,
l’attraversa il vento.
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Roberto Mussapi, “Epifania in poesia”

Roberto Mussapi

COMUNICATO STAMPA

Casa della Poesia, Milano

 

mercoledì 6 gennaio, ore 19:30 – DIRETTA YOUTUBE “PREMIERE: https://youtu.be/OuV5HA-w68M

EPIFANIA IN POESIA (30′)

a cura di Roberto Mussapi

                    

La poesia vive di epifanie, di apparizioni, di illuminazioni. Nel 2021 l’Epifania si nutrirà di poesia: quella di Roberto Mussapi, di T.S. Eliot, di Rainer Maria Rilke e di William Butler Yeats.

“L’Epifania è la festa dell’Apparizione, di una realtà impalpabile ma visibile che prende forma. Epifania è un termine greco (ἐπιϕάνεια, «manifestazione»), usato nella sfera religiosa per indicare l’azione di una divinità che si manifesta attraverso un segno. Nel caso della nascita di Cristo, la stella che i sapienti Magi videro e seppero interpretare, dalla lontana Persia, e che i pastori analfabeti colsero nell’inebriante potente splendore.

Ecco perché l’etimologia stessa di questo giorno lo rende festa della poesia, che tramuta in realtà percepibili dai sensi (la poesia è scritta, si legge, se recitata la si ascolta) apparizioni incorporee. Epifania, festa dell’apparizione, rima non a caso con Poesia. Continua a leggere

Tomaso Kemeny, da “Per il lobo d’oro”

Tomaso Kemeny

Il racconto autobiografico di Tomaso Kemeny,Per il lobo d’oro“, (Effigie 2020) copre quaranta anni del Novecento, dal 1938, anno di nascita dell’autore a Budapest, fino al 1978 a Milano. L’azione include la caduta di suo padre sul fronte russo e la successiva “invasione-liberazione” dell’Ungheria da parte dell’Armata rossa.

Nel 1947 Kemeny viene adottato dal patrigno e nel 1948 la famiglia fugge dall’Ungheria per non venire deportata.

L’avventura esistenziale vede l’autore, peso medio negli Stati Uniti, sul ring di Chicago. Segue l’incontro con André Breton e le esperienze d’avanguardia nella Milano degli anni Settanta. Il libro evoca i labirinti di libertà percorsi e costruiti da un poeta nostro contemporaneo.

ESTRATTI

Il libraio Michele Morale, fu il mitico libraio di Piazza Piola A Milano. Più che vendere libri e CD si sforzava di fornire nutrimento culturale agli avventori. Era dotato di due lobi piuttosto pronunciati, e io ,scherazando, cercavo di tirarglieli, ma lui opponeva resistenza. “Professore, se lei fose una bella ragazza o Napoleone, le lascerei tirare i miei lobi, ma così…” Bisogna sapere che io gli avevo raccontato che mio nonno, Gyula, un cultore di Napoleone, da bambino raccontò come l’Impereur, in segno di benevolenza, soleva tirare i labi dei suoi guerrieri. Un giorno il Sig. Morale mi disse:” Le sue poesie, per quanto interessanti, vendono pochino. Perchè non scrive un romanzo, forse riuscirebbe a raccogliere un po’ di soldi…”.

Quando il caro Morale, con cui mi piaceva anche prendere il caffè, la mia abitazione essendo vicina al suo negozio, ci lasciò, decisi che avrei dedicato un mio lavoro in prosa, appunto, questo “Lobo d’Oro”. Decisi di fare l’autobiografia dei miei primi quarant’anni(1938 -1978) trascivendo di getto ciò che la mia memoria riusciva a custodire.

Era Natale a Budapest, l’albero era illuminato da candeline, non c’erano ancora quelle lampadine elettriche di oggi. L’albero, a un certo punto, oscillò per poi rovescirsi, incendiando il nostro salotto.

Fu mi Padre a spegnere il fuoco che stava divorando tappeti e tendaggi. Papà poi partì volontario in guerra per liberare la Transilvania, antica Patria magiara, ora rumena. Purtroppo la guerra si spostò sulla pianura russa, dove Papà cadde combattendo. Quando,nni dopo, l’Armata Rossa stava travolgendo gli eserciti germanici e maguari, mia Madre, la donna più bella di Budapest, chiese alla mia bambinaia, Miaria, di portarmi al sicuro a Gonyu. Maria si era appena sposata con Otto, capitano della flotta ungherese che presidiava il sacro Danubio, che ci portò a destinazione con la sua nave. Mentre i sovietici bombadavano a tappeto Budapest, io in campagna fui felice che mai, totando fiondate con i contadinelli, correndo per i campi, e per quanto le bambine mi paresser insignificanti, una bambina bionda, Rozsika, si immaginava di essere la mia fidanzata.

Purtroppo la mamma ebbe torto, l’Armata Rossa puntò sulla città di Gyor, a pochi chilometri da Gonyu. Il drappello di soldati tedeschi, comandati a non ritirarsi, e un giovane ragazzo di 16, anni, il fratello di Rozsika, morirono mentre avanzava l’Armata di migliaia di elementi. Non sapendo cosa facesserò i nazisti, io salutai l’arrico dei “barbari” con un “hei Hitler”. Ma i russi non facevano male ai bambi, li feci ridere, anche se più avanti, mi posero una mela sulk capo giocando a fare i Guglielmo Tell, per fortuna avevano buona mira. Oltre uccidere il pollame , i maiali e buttare bombe a mano nel Danubio per pescare senza fatica i pesci, i guerrieri “liberatori” si impegnarono a violentare le ragazze. Una vecchina, Veruska, di 70, ancora vergine e malata di tipoo, fu vilata a turno da sette soldati. Sculettava per l’aia ridendo e gridando “mi hanno violentata”. Il Pastore calvinista pensava avesse perso la mente, ma in realtà era felice di avere finalmente assaporata le verigini della sessualità, così dicevani i contadini, ridendo della sua allegria, in contrasto con la situazione di essere derubati, violati umiliati. Tra l’altro i russi rubanavano l’orologio a tutti, e nella loro ignoranza, quando l’orologio si fermava , lo buttavano via, pensando che l’animaletto tic-tac fosse defunto. Mia Madre mi venne a prendere e trovai Budapest invasa da truppe risse, inglesi, americane e francesi. Gli americani distribuivano caramelle e frutti (vidi la prima banana),Gli inglesi difendevano le donne dao tentativi di violenza dei sovietici, i francesi agitavano la lro bandiera tricolore sul “famoso” Ponte delle Catene”, sul Danubio. Anni dopo gli stalinisti ungheresi nazionalizzarono la notra fabbrica e offrirono al mio padre adottivo di diventarne il Direttore,dopo essersi iscritto al Partito. Ma anche il secondo Papà era un eroue.Fece due nni di lavori forzati durante il governo nazionalista in quanto pacifista. Rifiutò di iscriversi al partito dicendo di essere socialdemocratico e contrario al partito unico. La stessa notte dovemmo fuggire per non essere deportati come “nemici del popolo”. Un compagno comunista pacifista, che aveva subito il campo di lavoro insieme a Papà, di notte ci offrì i passaporti falsi, e mio Padre, campione nazionale di pallanuoto negli anno ’30, figurò come massaggiatore, della squadra di calcio dell’Ujpest, e abbandonammo il paese comodamente in aereo, atterrando a Venezia, In seguito chiedemmo l’asilo politico e fummo internati nrl campo profughi a Banoli, vicino a Napoli. Qui,strisciando sotto i fili spinati del campo, uscii per giuocare a calcio con i ragazzi napoletani (e da allora sono diventato tifoso della squadra del Ciuccio, del Napoli). Mi padre parlando sette lingue, fu chiamato a lavorare a Milano. Ma scendemmo a Firenze a vedere questa meravigliosa Atene conrtemporanea, come diceva la mamma. Mi innamorai delle Madonne di Rafaello, figure materne che tutto mi paiono perdonare. La Mamma voleva vedere la casa di Michelangelo, il vigile, a nostra sorpresa, pensò che cercasse una casa di moda. Papà osservò :”nemo propheta in patria”. Do po anni a Milano,dove iniziai a frequentare le elementari, ebbi una borsa di studio per gli Stati Uniti. A Chicago, nella Swift High School, soffrìi un rito di iniziazione .”Dp you want to fifght?”, mi disse un ragazzo-armadio. Dissi “Yes!” e fui picchiato a sangue. In seguito frequentai una palestra a La Salle Street, e scoprìi di avere un gancio di sinistro irresistible. Nella stessa palestra venne il grande Sugar Ray Robinson, che mi disse “com quel sinistro arriverai in alto”. Mi chiamarono “Absolute Tiger” dopo che al primo round vinsi 4 partite da dilettante. Il pubblico scometteva sulle nostre “match”. Con Sugar feci non solo footing lungo La Salle Street, ma un giorno ballammo con niente di meno che Abbe Lane( con la magnifica ho fatto due passi!). Il quinto incontro fu fatale, il mio sinistro fece solo il solletico a quel fenomeno di colore che mi inviò direttanmente all’ospedale e così addio pugilato e avanti tutta con la poesia. Continua a leggere

Milo De Angelis e il De Rerum Natura di Lucrezio

Dopo tanti rinvii è finalmente arrivato l’appuntamento con Lucrezio e con Milo De Angelis, il prossimo giovedì, IN STREAMING sul CANALE YOUTUBE della Casa della poesia di Milano.

giovedì 26 novembre, dalle ore 19:30 alle 20:15 – DIRETTA YOUTUBE “PREMIERE”: https://youtu.be/UDjy-nYUflM

Milo De Angelis parla del De rerum natura di Lucrezio

a cura di Milo De Angelis

Milo De Angelis parla del De rerum natura di Lucrezio e presenta alcune sue nuove traduzioni.

Letture di Viviana Nicodemo.

LINK PER DIRETTA VIDEO

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Tommaso Di Dio, “Il silenzio, l’assedio”

Tommaso Di Dio

DI TOMMASO DI DIO

Una qualità di silenzio unica, inaudita. Milano, come tante altre città d’Italia e del mondo, è stata fagocitata per alcuni mesi da uno stato di sospensione e apnea. È come se tutta la città e i suoi cittadini avessero smesso di respirare. La città è stata sommersa da un liquido invisibile: aveva il peso del piombo ma era come trasparente, un etere oscuro che, anche di notte, si adagiava come una pellicola sulle facciate delle case, dalle cui finestre rilucevano a centinaia le stanze dove erano intrappolate in una luce d’acquario cose affetti persone.

Mi è davvero difficile spiegare a parole quanto quel silenzio sia stato profondo, sconvolto. Confido che chi qui mi sta leggendo ne abbia una qualche esperienza. In queste settimane ho provato più volte ad ascoltarlo, a dirlo a me stesso, a pensarlo; ma niente, qualcosa sfuggiva, restava inerme al di là dello sguardo. Nella città dove vivo, anche a tarda notte, d’estate, se si tace e si ascolta a finestra aperta, di solito è possibile sentire il grande ronzio delle circonvallazioni, dove operai, automezzi, centraline, termovalorizzatori e ventole, continuano il proprio moto senza mai fermarsi. È il grande boato della città, il rumore bianco del suo sangue in circolo per le strade e le arterie nel suo corpo gigante, che si allarga fino ai confini della Lombardia, con i suoi 10 milioni di abitanti, immerso e connesso dalle sue macchine e strumentazioni, da cui la vita umana occidentale non può più prescindere. Nei mesi feroci della pandemia, gran parte del movimento di questi corpi pesanti è stato abolito; è rimasto invece lo spettrale movimento della luce e delle radiotrasmissioni: la luce che scorreva inesausta per le fibra sotterranea, entrava in ogni palazzo, risaliva i muri, pulsava, mentre il campo del 4G avvolgeva ogni nodo, ogni singolo device alla rete internet mondiale. Il silenzio di questi mesi, infatti, la sua particolare densità, non è stato causato dalla semplice assenza dei motori; è stato tutt’altro dal silenzio che si avverte quando si è dentro un bosco, in mezzo al mare, sulla cima di una montagna. Quello che abbiamo provato è stata invece l’ostinata presenza, finalmente resa palpabile dal diradarsi dei corpi visibili, del moto infinito dei dati che illuminano i nostri schermi. Quel silenzio erano onde, vaste, continue, pulsanti, di informazioni, paranoie, dolori, terrori, paure, speranze, cazzeggio, notizie, faccine. Tutto ciò che agitava il pensiero degli umani, ogni loro spostamento emotivo, era impercettibilmente tradotto in questo scroscio ondulare, frenetico, isterico che finalmente occupava, da solo, lo spazio della terra. Umano e macchinico insieme, ho sentito per la prima volta con la più grande forza questo respiro che è letteralmente l’indescrivibile contemporaneo, il suo sostrato materiale, il fondo brulicante di ogni nostro discorso. A volte, mi affacciavo dalla finestra, guardavo la strada, guardavo le altre finestre; cercavo di cogliere i minimi movimenti della gente, cercavo di sentire cosa si dicevano, cosa provavano dietro le tende, dietro i portoni, cosa si agitava all’interno di quegli spazi chiusi e sigillati e potevo vedere, con una chiarezza mai prima avuta, il fascio di dati che trasudavano e, rivolta contro quegli stessi corpi, a distruggerli, a farli scomparire in un fuoco interno, l’assedio di una forza centripeta, che poteva essere ovunque, che dilagava, che si espandeva. Continua a leggere

Il silenzio tenace di Mario Benedetti

Mario Benedetti, poeta italiano. Foto di proprietà dell’autore

di Lorenzo Babini

La mancanza di Mario Benedetti è per me innanzitutto legata ad alcuni ricordi personali, di quando cioè, tra gli anni 2011 e 2013, lo incontrai diverse volte, sempre in compagnia di Tommaso Di Dio. Rimasi sin da subito colpito da quella figura silenziosa, appartata e indifesa, le cui parole sembravano uscire a stento. Non ho avuto modo, tempo o fortuna di instaurare una consuetudine con lui ma posso dire che la mia percezione di allora fu che quel silenzio umile, grave e profondo avesse qualcosa da dire alla mia esperienza.

Ricordo che ne parlai una volta con Massimiliano Mandorlo, al termine di un reading che avevamo organizzato in un bar vicino a via Venini a Milano, in quel quartiere che oggi viene chiamato NoLo e di cui fino a pochi anni fa se ne ignorava l’appeal. Era venuto ad assistere a quella lettura di giovanissimi poeti anche Mario, che abitava in quella zona. La sua figura, da cui traspariva l’esposizione dolorosa e radicale dell’uomo di fronte al destino, aveva quella sera affascinato alcuni di noi, nonostante nessuno di noi lo avesse sentito pronunciare una sola parola. Questo accadeva per me prima di conoscere la sua poesia.

Più tardi, leggendo la sua opera, riconobbi la stessa presenza che era dell’uomo: la presenza cioè di un silenzio fragile e tenace, nato dall’umile aderenza alle cose, seriamente impegnato con il proprio vissuto e improvvisamente capace di esprimere, in un due versi slogati, dalla sintassi anomala, verità disarmanti sull’esistenza. Continua a leggere

Franco Buffoni, per Mario Benedetti

Mario Benedetti (poeta italiano)

Caro Mario,
sei finito a Piadena, in provincia di Cremona, nel momento peggiore: il luogo meno indicato per poter sopravvivere nella primavera del 2020. Ma lì c’era Donata che poteva venirti a trovare.
Ricordo quando ti preoccupavi per lei e mi telefonavi, ma lei non doveva saperlo.

Ricordo Giuseppe Genna, che vi frequentava nei tempi belli a Milano.
Ricordo anche il tuo esordio in poesia: per poco non finisti nei Quaderni, come Stefano e Antonio e Gian Mario. Tu eri un po’ più vecchio e restasti fuori.

Ricordo quando mi venisti a trovare all’oncologico di via Ripamonti: nel 2000, ero appena stato operato di cancro al polmone. Era anche appena uscito Il profilo del Rosa. E subito dopo apparve il libro di Stefano Ritorno a Planaval. Quando ti ebbi ben spiegato l’intervento subito, durato sei ore, ti limitasti a dirmi che si vive bene anche con un polmone e mezzo: “L’importante è che funzioni questa”, e con l’indice della mano sinistra ti toccasti la fronte. Continua a leggere

Vincenzo Mascolo alla Sormani

A Milano, lunedì 9 dicembre alle ore 17.30 nella Sala del Grechetto della Biblioteca Sormani, Donatella Bisutti incontra Vincenzo Mascolo, poeta, scrittore e organizzatore di “Ritratti di Poesia”, autore di Q e l’allodola, (Mursia, 2018) e Scovando l’uovo, Appunti di bioetica (LietoColle, 2009). Continua a leggere

Adam Zagajewski vince il premio alla Carriera del Festival Internazionale di poesia civile di Vercelli

Adam Zagajewski

A Milano l’Università Cattolica ospita il poeta polacco Adam Zagajewski mercoledì 23 ottobre alle 17 (Cripta Aula Magna, largo Gemelli 1) con letture dal nuovo libro Prova a cantare il mondo storpiato (Interlinea) a cura di Valentina Parisi, alla vigilia della cerimonia del premio alla carriera che gli viene assegnato dal Festival internazionale di poesia civile a Vercelli. In Università il poeta incontra gli studenti di varie facoltà a partire dal Laboratorio di editoria che promuove l’incontro, presentato da Roberto Cicala con un intervento di Giuseppe Langella.

«Ma noi siamo vivi, / colmi di memoria e ragione» è la risposta di Adam Zagajewski (nel nuovo libro, in uscita a novembre) ai drammi della storia e alla spersonalizzazione della società attuale, collocando sotto la sua lente d’ingrandimento piccoli particolari quotidiani molto rivelatori: così le ombre dei turisti sulla tomba di Brecht sembrano quelle degli informatori della stasi che lo pedinavano da vivo e la gatta di Ruth, ignara di essere ebrea come la sua padrona, di notte dal ghetto torna sempre alla parte ariana. Per l’autore di quest’antologia, che affronta la shoah come l’11 settembre ma anche gli ex paradisi naturali fagocitati dal turismo di massa, resta lo spaesamento dei «poeti, invisibili come minatori, nascosti sottoterra» che «costruiscono per noi una casa», quella della consapevolezza civile di dover essere vivi e vigili «e talvolta particolarmente orgogliosi, / perché in noi grida il futuro / e quel balbettio ci fa umani».

La poesia di Adam Zagajewski è stata definita dal premio Nobel Derek Walcott «voce sommessa sullo sfondo delle immense devastazioni di un secolo osceno, più intima di quella di Auden, non meno cosmopolita di quelle di Miłosz, Celan, Brodskij».

Adam Zagajewski è nato nel 1945 a Leopoli, città che ha lasciato quell’anno stesso insieme alla sua famiglia, espulsa dai sovietici che se ne erano impadroniti nel 1944. Cresciuto a Gliwice, Slesia, e cioè in quei territori tedeschi che nel dopoguerra furono annessi alla Repubblica Popolare di Polonia, Zagajewski ha studiato psicologia e filosofia all’università Jagellonica di Cracovia, diventando ben presto uno dei protagonisti della corrente “Nowa Fala” o “Generazione del ’68”, che riuniva i giovani poeti più critici nei confronti del regime. Pubblica la sua prima raccolta, Komunikat nel 1972. Nel 1975 è tra i firmatari della Lettera dei 59, sottoscritta da sessantasei intellettuali polacchi per protestare contro l’introduzione nella Costituzione di paragrafi riguardanti l’alleanza con l’Unione Sovietica e il ruolo-guida del Partito Operaio Unificato Polacco. Dopo aver vissuto a lungo all’estero, prima a Berlino e poi a Parigi, è tornato a risiedere a Cracovia nel 2002. Insignito del Neustadt International Prize for Literature (2004), del premio Heinrich Mann (2015) e del premio Principessa delle Asturie (2017), insegna da anni all’università di Chicago. In Italia Adelphi ha pubblicato una raccolta di prose, Tradimento (2007, a cura di L. Bernardini, traduzione di V. Parisi), e Dalla vita degli oggetti, un’ampia scelta dalla sua produzione poetica a cura di Krystyna Jaworska (2012).

Zagajewski sarà premiato giovedì 24 ottobre 2019 alle ore 21 nel Seminario di Vercelli e sarà distribuita in omaggio ai presenti la plaquette delle sue nuove poesie fino a esaurimento.

La premiazione di Zagajewski è l’evento centrale del festival internazionale di poesia civile 2019 con un’anteprima mercoledì 23 a Milano alle ore 17 in Università Cattolica.

In programma conferenze, reading, aperitivo in musica, il premio Brassens dedicato al padre italiano del rap Frankie hi-nrg mc e uno spettacolo contro la violenza sulle donne.

Tra gli ospiti Maurizio Cucchi, Franco Buffoni, Enrico Palandri, Ambrogio Borsani e Roberto Piumini che legge dalla sua nuova traduzione del Macbeth.

Il Festival internazionale di poesia civile di Vercelli, ammesso alla UNESCO’s World Poetry Directory, ha premiato nelle passate edizioni il siriano dissidente Faraj Bayrakdar, la poetessa-biologa Katherine Larson, la candidata Nobel Márcia Theóphilo, l’angry poet Tony Harrison, Lambert Schlechter e Ryszard Krynicki, fra gli altri. Anche quest’anno il festival di poesia civile fa emergere, attraverso il linguaggio universale dei versi, temi scottanti e civili, dalla violenza sulle donne alle armi di guerra, mettendo al centro le giovani generazioni, dalla scuola primaria all’università e premiando i migliori giovani poeti italiani. Continua a leggere

Fernanda Pivano e Edgar Lee Masters

Fernanda Pivano

Fernanda Pivano, nome tutelare della Beat Generation in Italia, cominciò la sua attività letteraria sotto la guida di Cesare Pavese, nel 1943, con la traduzione dell’Antologia di Spoon River, di Edgar Lee Masters. Un libro considerato scandaloso per quei tempi, che divenne, con la pubblicazione, un grande successo editoriale.

Il racconto di Fernanda Pivano a Luigia Sorrentino

“Cesare Pavese [n.d.r. professore di comparatistica della Pivano], un giorno mi lasciò in portineria alcuni libri: A Farewell to Arms di Hemingway, A Storyteller’s Story di Sherwood Anderson, The Leaves of Grass di Walth Whitman e, coperta da una carta da imballo arancione, di Edgar Lee Masters l’antologia di Spoon River. Avevo aperto il libro a caso e mi era capitata la poesia con l’epitaffio di Francis Turner. E lo tradussi così.”

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Vent’anni di perle con la Collana Stampa

Nata nel 1999 per volontà di Mauro Maconi, Maurizio Cucchi e Marco Borroni, questa iniziativa editoriale si prefigge lo scopo, tramite autori affermati e altri meno noti, ma sempre validi, di far conoscere la poesia in una società dove viene ritenuta una scrittura troppo alta e difficile da capire, quindi un prodotto per pochi eletti.

Non è così. La poesia sa essere chiara e trasmettere emozioni, stati d’animo, visioni, modi d’essere e di pensare, sguardi critici sulla società e sui comportamenti.

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La voce dei prediletti

Tutti gli incontri si terranno alle 21 alla Centrale dell’Acqua di Milano, Piazza Diocleziano, 5

A Milano, dal 6 al 27 maggio 2019 alle ore 21, alla Centrale dell’Acqua,  (Piazza Diocleziano, 5) si terrà LA VOCE DEI PREDILETTI, incontri tra i poeti a cura di MILO DE ANGELIS.

Per tutto il mese di maggio, ogni lunedì sera, un importante poeta del nostro tempo parlerà di se stesso e di un altro poeta che è stato essenziale nella sua formazione e nella sua vita. Potremo così assistere a un incontro tra due anime che, lungo i secoli, hanno trovato un’affinità elettiva e una visione del mondo capace di renderle vicine per sempre.

Maurizio Cucchi

Lunedì 6 maggio

MAURIZIO CUCCHI E GUIDO CAVALCANTI Continua a leggere

Amore e Tradimento

Kate Clanchy

Kate Clancky

Men

I like the simple sort, the soft white-collared ones,
smelling of wash that someone else has done,
of apples, hard new wood. I like the thin-skinned,
outdoor, crinkled kind, the athletes, big-limbed,
who stoop to hear, the moneyed men, the unironic
leisured sort who balk at jokes and have to blink,
the men with houses, kids in cars, who own
the earth and love it, know themselves at home
here, and so don’t know they’re born, or why
born is hard, but snatch life smack from the sky,
a cricket ball caught clean that fills the hand.
I put them all at sea. They peer at my dark land
as if through sun on dazzling waves, and laugh.

Franco Buffoni

Franco Buffoni

Uomini

Odorano di bucato quelli che mi piacciono
– Ma di bucati fatti da altre –
Sanno di mela e legno nuovo duro,
Portano il colletto floscio, slacciato.
E’ il genere sportivo d’ossa solide il mio,
Atleti d’aria aperta e pelle fresca
Che protendono il tronco per sentirci meglio,
Un po’ arruffati, con scarso sense of humour,
Non colgono i giochi di parole
Ma hanno i soldi le case le automobili
Coi bambini dentro,
E posseggono e amano la terra.
Lì si sentono a casa e a loro agio
Non sanno d’essere stati partoriti
Né come sia difficile far nascere
Perché colgono la vita
Come venuta giù dritta dal cielo,
Una palla da cricket presa bene
Che ti riempie la mano.
Li manderei tutti per mare, là dove
Tra onde abbaglianti di luce intravedono
La mia striscia di terra nera e ridono. Continua a leggere

Alda Merini, la poetessa dei navigli

Alda Merini, ovvero La dismisura dell’anima” è uno spettacolo dedicato alla “poetessa dei navigli”. 

Lo spettacolo è proposto dalla Compagnia dei Gelosi presso il circolo Arci Cuac a Gallarate .  L’evento è proposto insieme al Collettivo Lylith.

Appuntamento venerdì 22 febbraio 2019: il circolo apre alle 20, lo spettacolo inizia alle 21.

L’ingresso è gratuito e con tessera Arci, che è poi valida in ogni circolo Arci d’Italia per tutto il 2019.