DALLA PREFAZIONE DI MILO DE ANGELIS
L’infanzia percorre tutte queste pagine, con le sue scene antiche e il suo eterno «primo ottobre nel cortile della scuola», il suo giocare «a morra con le ore della notte». Ma non è l’infanzia crepuscolare del rimpianto. È una stagione vivissima che non possiamo situare nel passato, che ci raggiunge e ci supera, a volte ci aspetta. È un inizio incessante in cui siamo immersi, quello che ha ispirato un momento esemplare di quest’opera («Se penso al mattino del creato/ quando le cose furono toccate da uno sguardo per la prima volta/ io sono contento di tornare sui miei/ passi…») e sollecita nel profondo la sua ispirazione, ponendosi come continuo esordio o come rinascita dopo la caduta e accendendo una corrente impetuosa che scorre tra le righe nei momenti dello sconforto, della sconfitta, dell’essere vulnerabili alle potenze del cosmo: quando «il tuo mandala sarà disfatto/ al primo sogno di vento», ecco che un altro vento misterioso scuote il disfacimento e lo consegna alla metamorfosi. Così il fascino di questa poesia è un soffio polifonico che raccoglie in sé diverse tonalità – dall’elegia alla riflessione sapiente, dall’invettiva alla supplica – per ricrearsi continuamente dalle sue ceneri, che sono le ceneri personali ma anche quelle della Storia: è una prospettiva vasta e generale, un’inquadratura in campo lungo, uno sguardo nitido e insieme visionario.
viaggio nel mezzogiorno
sono reperti del futuro – spugne e cavi d’acciaio
piante infestanti in decomposizione, marmi
policromi, scampoli di pelle conciata.
sono, per certi versi, pensieri sbriciolati
dopo quattro inverni passati al buio – aria
che qualcuno potrà respirare
giungendo qui da lontano.
la scatola di vetro è un display di materiali poveri
e merci di valore
al primo sparo gli uccelli scappano dal cielo
il loro sbattere di ali è così umano, così vero
l’anno è il millenovecentocinquanta
il presidente de gasperi è in visita a matera.
in una trance che dura mesi, come se il verbo
scrollare sanguinasse fino all’alba, sorvoli
la tua prigione cavalcando una corda
di tramontana.
«io non so cosa accadde prima»
sei all’ultima stesura. solo negli oggetti hai fede.
nelle scarpe spalmate di grasso.
nella luce dei neon sotto il ponte.
nella kodak a soffietto di tuo padre.
per non morire come un lombrico,
da un grumo di sillabe, da un parcheggio interrato
gattoni fino a casa
quando esce da una di quelle abitazioni malsane
il presidente è sul punto di svenire.
il verdetto, quindi, collide con la falsa riga
con le stimmate di chi soffre in silenzio
con gli affanni di una vita.
nella cripta dei tuoi segreti
chi legge dal futuro ha la sua porzione di luce
***
salvatore sciarrino: “canzona di ringraziamento” per flauto (1985)
potremmo tracciare le linee del collo
e sarebbe lo stesso imbarazzo che provo
con chi altro da me si aspetta.
nella traversata la barba e i capelli
crescono due centimetri al giorno.
gli oggetti fuori posto e la cascaggine
mi impediscono il ritorno.
pure questa luce caravaggesca…
non riconosco i luoghi, è tutto così diverso.
guardate l’aratura irregolare dei fogli
le stazioni e i fiori di gelsomino
che collidono col mondo.
non vince mai nessuno, e sei costretto
a ricominciare daccapo guardando, come
sempre hai fatto, a chi non ha nient’altro
che il suo respiro
ma rovesciamo il ragionamento
e dotiamoci di coraggio.
la realtà non corrisponde a niente
***
brancola ogni forma di obbedienza
in questa sera bituminosa di febbraio.
tutto sarà fatto con calma,
dalla veglia in poi, dalle istruzioni
al ventottesimo giorno.
il nostro sabotaggio del reale
procede senza intralci.
abbiamo lune tatuate sul petto
e la capacità di intuire
il significato di parole sconosciute.
stiamo facendo il possibile
per adattarci ma non è facile.
ieri, domenica, mentre
traslocavamo per la terza volta,
abbiamo ricostruito a memoria
la nostra casa
***
albe mute ci mangiano
i sogni che facciamo.
la parola cade sul foglio
per scaricare il peso di mille storie
sembra una preghiera stare qui.
le labbra cercano in silenzio
la strada del ritorno
la notte resta impigliata nei vestiti.
fuori, non ci siamo che noi
sotto mentite spoglie
***
un bambino dietro una porta a vetri
guarda la strada coperta di neve.
lì dove torniamo
il senso raggruma nel bianco
volevamo che fosse così
il mondo, un luogo immaginato e vivo
come l’arte che pulsava alle tempie.
ma a furia di togliere ci è rimasta
la fortuna… e promesse come brividi…
scene mute che ci consumano…
cani che abbaiano in lontananza
arruolati nel sogno
***
prossimità del bene
ciò che si presta alla discussione è niente
i morti sono stati dimenticati
e i vivi si accontentano di essere vivi.
oh quanto questo oscuro brusio
intorno a noi che fummo
ci restituisce il bene
di chi credette in noi, le donne e gli uomini
che ci tenevano in braccio
sul treno in corsa dell’avvenire
c’è, ci deve essere, un modo per piangere
e non lasciarsi andare alle cose
inventate, qui dove non c’è anima viva