Nunzio Bellassai, poesie inedite

Nunzio Bellassai, Foto di proprietà dell’autore

A vegliare la spiaggia che scompare
tra le alghe sbiadite e compatte
restano pochi silenzi interrotti
dal brusio delle fronde che indietreggiano,
saldate come una luce spenta
che assorbe le promesse e i buoni propositi.
Nel mutuo collassare di un tempo
che è già sale essiccato
non c’è spazio per il ricordo, ma solo
la moina dolce di una madre che stringe
e oltrepassa l’inerzia dello stupore,
l’attimo che fugge
e quello che deve ancora venire.

***

Si perde nel riposo del mondo
l’esile trama venosa delle cose mute
che stringe il letto al centro della stanza.
Allo spazio battuto dalle ginocchia
sul parquet si sottrae il corpo freddo,
il suono della buonanotte.
Il precipizio che esiste da sempre
ha il rumore di un citofono,
la voce di soprassalto rivela nuove altezze
e una mutua intrusione.
Le ombre che un tempo ci divertivano
appartengono ora alle pareti
e qui rimarranno:
nella pietà senza contatto.

***

Migreranno a ovest,
ripetevi prudente al fruscio senza
forma del cielo, al silenzio
che non temeva più mutamenti.
La linea di frattura esiste.
E quel vuoto che reputavi necessario
è l’obbligo mal celato di un tempo
che non ritorna.
Celebri ancora intatta
la sua calma apparente,
ogni singolo attimo concesso
senza perdono.
Quella notte davanti alle isole
hai giurato sottovoce
l’eternità in un istante.

***

Fisso ancora il vicino
osserva le finestre accese
dei palazzi di fronte
come se albeggiasse a dirotto
negli ampi sprazzi di circonvallazione.
Gli studenti al terzo piano
hanno lasciato i libri in disordine
sulla scrivania e poco altro,
torneranno a settembre.
Adesso sul bordo del terrazzo
le voci si riconoscono
in un sorriso insoddisfatto,
galleggiano penzolanti
le gambe che a volte si sfiorano,
ma solo per sbaglio,
è solo un vitale oblio
a scandire la memoria bianca del mondo,
la giuntura delle assenze simultanee.
La vita di chi resta
si scopre nascendo.
Come a stabilire un legame di sangue,
l’indefinita perdita di una vigilia
destinata al silenzio,
dove il fumo sale ostinato
osserva e tace,
dove tutto e tutti sono già partiti.

***

Dove non sono mai stati
i fenicotteri prima della migrazione
troveranno solo spiagge deportate
che si rinnovano morendo.
È l’augurio che cela l’inevitabile dubbio,
il crepuscolo che si accumula tenue
negli anfratti pallidi della costa,
una crepa esitante come spazi tra le dita,
tra le parole che sembrano un miracolo breve.
Di fronte al bunker, lo stormo ripete tre volte
la stessa onda del cielo ormai postumo
e si consegna all’attimo
prima che tutto crolli.

***

Rintocca cauto
il buio appena schiuso
sulle sporgenze senza cornice.
Dove finisce la luce
quando non si vede,
ripiega l’inizio remoto
della montagna spaccata.
La cicatrice che oscilla
sui morti soffoca il passo
e la nostra convergenza immobile
sulla cupola rossa.
Le pareti coincidono
nell’impronta perenne
della terra senza rientranze.
Si gonfia paziente
il distacco che è in noi.

***

Prima e dopo il cumulo di vestiti
nessuno si è accorto della voracità
della strada che assiste impassibile
di fronte alla metamorfosi della durezza,
al nulla che ci precede e copre quel corpo,
lucido ammasso di carta stagnola.
L’abbaglio tra gli scatoloni non riuscirà
a celare il torpore della notte
che è già verità: una sola coperta termica.
Suonano le due in piazza dell’Immacolata,
arretra il tempo per tastare il finto baratro
dei giorni che si stringe nel riflesso.
Tutto quello che resta
è somiglianza.

***

Nessuno riuscirà a interrogare i morti
né chiederà le parole giuste da usare
per ogni superbo rintocco di vita
che suona come il buio sullo scoglio inclinato
senza sottofondo e la pelle sporca di sale,
nel riverbero di pochi istanti vissuti
come segreti. Non si può sfuggire
da ciò che non si è mai stati: l’onda
timida è vertigine senza suono.
Nel silenzio che ritorna puntuale
tutto trova forma e vuoto.

***

L’ultimo treno alla stazione di Santa Severa
passa sempre puntuale alle venti,
discreto come la postura
dei turisti cosparsi d’autan
che ancora sperano nella luce.
Un saluto senza destinatario,
il prolungamento infranto
da qualche parola canticchiata
senza troppa voce: sarà così
andare via. Gli amici,
con gli asciugamani alle spalle,
più alti e robusti dell’anno scorso,
attraversano il binario
seguiti dal fischio indulgente
come la pelle scottata dalle partite
e dalle corse senza meta.
Il profilo scuro del Super Tele,
sospeso in aria, crolla nell’impressione
di essere stati un solo corpo,
la coincidenza di brevissime attese.
Dall’altro lato le ragazze ridono sporgendosi
senza approvazione né coraggio,
rallentano il misterioso gesto del ritorno,
come a sostenere incolume
l’ipotesi del dolore.
Forse resterà lì
l’esiguità della stagione
a misurare il distacco di un binario,
a contare negli annunci dell’altoparlante
la perdita e il passaggio.

***

Nessuno avanzerà vittorioso
sui rottami dei silos abbandonati,
sulle campagne dimenticate
dall’uomo che consegna al tempo
rimasto le sue fragilità. Scivola
come la speranza d’oblio
sui corpi armati, fratelli e nemici,
sgozzati e coperti dalla neve
dell’inverno più lungo.
Le sirene soffocano con giocattoli
e pupazzi le piazze svuotate,
le fosse docili scavate dai missili.
Ancora tace cauta la folla
accalcata sotto il ponte
nell’incastro febbrile degli sguardi,
l’esatta compostezza dell’abbandono.
Stretta nell’attesa,
compensa nel contatto
il freddo sospetto del vuoto.
Forse un giorno troverà
nel proprio alfabeto muto
parole senza conforto
che diano un senso
a tutte le cicatrici della terra.

Nunzio Bellassai ha conseguito con lode la laurea magistrale in Filologia Moderna presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Attualmente presso il medesimo ateneo è dottorando in Italianistica con un progetto sul patrimonio epistolare di Vitaliano Brancati.
Per il racconto La stazione, edito da Schena, ha vinto il Premio nazionale “Valerio Gentile” nel 2019. Con la sua raccolta d’esordio Due tempi (Ensemble, 2021, prefazione di Maurizio Cucchi) ha ottenuto le menzioni speciali del Premio “Città di Latina” e del Premio “Portopalo Più a Sud di Tunisi”, oltre al terzo posto al Premio “Diana Nemorensis” di Nemi. Suoi componimenti sono stati selezionati per la Bottega di poesia de «La Repubblica», la rubrica “L’Angolo degli inediti” della casa editrice Stampa-2009 e l’Ufficio Poesie Smarrite del «Corriere della Sera».
I suoi studi gravitano intorno alla letteratura italiana del Novecento, con un interesse per i fenomeni italofoni transnazionali. I suoi primi contributi scientifici sono apparsi su «Sinestesieonline» e «La rivista di Arablit» nel 2023.

Nunzio Bellassai, da “Due tempi”

Nunzio Bellassai, foto di proprietà dell’autore

Vi proponiamo alcune poesie inedite tratte dall’opera prima del giovane autore Due tempi (Ensemble editore, 2021) Prefazione Maurizio Cucchi.

 

Non era redenzione quel lampo di luce
goffo emerso in superficie, quello scorcio
intriso del freddo cutaneo dei mattoni
scheggia frantumata in mille
diffidenti pezzetti di vita.
Il mistero della roccia persiste.
Dove la linea di frattura si inarca
il passo più estenuante,
l’urto che liofilizza l’eterna
replica dell’attimo è erosione,
discrasia che nega il riconoscimento
della forma, l’anfratto spigoloso
del mondo. L’agonia della lastra
che diventerà lapide,
scheggia che sarà materia.

***

Al campo ottantasette è morosa
la vista, rispetta i nomi smorzati,
sono orfani bianchi dimenticati
scolpiti sulla plastica riottosa.

Milano accoglie avvizzita aria afosa,
secca di tribolazione, bendati
gridi di pace, lemmi tratteggiati
di una contorta prosa lacunosa.

Al campo ottantasette sta in precario
equilibrio con lo stesso livore
l’uomo che scava orbite vitali.

Viene da chiedersi – unico indiziario –
cosa ci fosse prima del pallore
delle seicento croci comunali.

***

A Černobyl trent’anni dopo
le giostre eseguono un moto regolare,
tintinnio macchinoso di ruggine
condensata. Le candele si piegano
all’aria reticente, sbuffo geloso
di un uscio che balbetta.
È domenica e i Samosely vanno
a messa, si riconoscono i visi
sempre uguali. Lo spiraglio di una porta
socchiusa suona come un invito a
entrare in un’anticamera che vive
respira si alimenta, eppure non esiste.

***

Solo i passi sveleranno l’illusione,
affossati nel mistero che circonda
i viali larghi di questa città
che vive dei rumori passati.
Avvolgeranno i confini dell’attesa
senza profanare né capire, ma ora
dentro di me ogni piccola cosa
del mondo splende e riaffiora.
Nel cielo tempestato di anime
hai già smesso di parlare.

***

Non parlarmi di tempi remoti.
In questo breve fiato si confondono
i nostri sogni. E anche se i giorni
scorrono invisibili sul tuo volto
olivastro, nonno, viviamo.
In quest’eterno presagio di un attimo
di comunione. E ci dà torto questo
nostro impossibile essere fratelli.

***

Il bambino che raccoglie i gusci di paguro
segue il flusso continuo dell’erosione,
consunzione di materia che si cela nelle volute
murate, rastrella le forme accresciute
in fragili gabbie atrofizzate.
Serrate le labbra violacee, resta inginocchiato
sulla sabbia nera. Dove il bagliore si interrompe
si coagula il respiro nervoso della gente.

***

Mi sembra di conoscere la cortina irregolare,
fortuito accumulo di scarti, impasto stratificato
di rifiuti. Sono le stesse alghe che si accumulano
sulla riva scomparsa che monologa compatta
con vagiti sepolti, movimenti retroflessi
di un’intimità rivelata. Ignora il suono afoso
di un richiamo collettivo, il massacro incolore.
Ignora il tratto collusivo di quelle promesse
che sono già a fondo, vittime adespote
essiccate nel solco miasmatico, depositate
all’ombra del bunker, putrefazione
diagnosticata in tempo, accolta in ritardo,
nutre gli illustri visitatori del nulla.

***

I cimiteri invaderanno le città,
sgusceranno dal suono afoso
delle preghiere incise su lastre esili,
che già riportano nomi, date,
pulviscolo monotono, alimenta
un impulso conformista di icone.
Non gli ammassi di cemento
trafitti da punte gotiche che non sfiorano
il cielo, non palazzine costipate
da presenze taciturne. E nemmeno
i volti devozionali, ritagliati nell’angusta
cornice ovale concessa dal marmo,
spazio fraterno che commuove. Colma
l’arretramento volontario della città.
La soglia disattesa offre un respiro greve.

***

Manca ancora l’icona in mezzo
ai satelliti immobili di cemento, alti
non contro il cielo, si stagliano rasoterra.
Le chiome rigide, volumi fissi in una rete
di impronte digitali ancora da scolpire,
in fila indiana. Un po’ mi stringe
un po’ mi allevia, quest’anelito
sempre identico, l’arte di non scomporsi.

***

Fu un vecchio a dirmi di voler tornare
in cima al promontorio, sembra quello
il destino della scogliera: una tenera stasi.
E gli ospiti incuranti delle isole
che negano alle ombre ristoro.
Eppure conta e dimentica, rinsavisce
nei rintocchi che nessuno ascolta.
Roccia bianca che galleggia,
prima ricorda: nessuno veglia la cenere
destinata alle onde. Disperse queste
intermittenze di luce ci conducono qui,
alla Chiesa Vecchia, ma la cenere non brilla. Continua a leggere

Nunzio Bellassai, da “Due tempi”

Nunzio Bellassai – Foto di proprietà dell’autore

Vi proponiamo alcune poesie tratte da “Due tempi”, di Nunzio Bellassai, Ensamble Editore, 2021

Non era redenzione quel lampo di luce
goffo emerso in superficie, quello scorcio
intriso del freddo cutaneo dei mattoni
scheggia frantumata in mille
diffidenti pezzetti di vita.
Il mistero della roccia persiste.
Dove la linea di frattura si inarca
il passo più estenuante,
l’urto che liofilizza l’eterna
replica dell’attimo è erosione,
discrasia che nega il riconoscimento
della forma, l’anfratto spigoloso
del mondo. L’agonia della lastra
che diventerà lapide,
scheggia che sarà materia.

***

Al campo ottantasette è morosa
la vista, rispetta i nomi smorzati,
sono orfani bianchi dimenticati
scolpiti sulla plastica riottosa.

Milano accoglie avvizzita aria afosa,
secca di tribolazione, bendati
gridi di pace, lemmi tratteggiati
di una contorta prosa lacunosa.

Al campo ottantasette sta in precario
equilibrio con lo stesso livore
l’uomo che scava orbite vitali.

Viene da chiedersi – unico indiziario –
cosa ci fosse prima del pallore
delle seicento croci comunali.

***

A Černobyl trent’anni dopo
le giostre eseguono un moto regolare,
tintinnio macchinoso di ruggine
condensata. Le candele si piegano
all’aria reticente, sbuffo geloso
di un uscio che balbetta.
È domenica e i Samosely vanno
a messa, si riconoscono i visi
sempre uguali. Lo spiraglio di una porta
socchiusa suona come un invito a
entrare in un’anticamera che vive
respira si alimenta, eppure non esiste.

***

Solo i passi sveleranno l’illusione,
affossati nel mistero che circonda
i viali larghi di questa città
che vive dei rumori passati.
Avvolgeranno i confini dell’attesa
senza profanare né capire, ma ora
dentro di me ogni piccola cosa
del mondo splende e riaffiora.
Nel cielo tempestato di anime
hai già smesso di parlare.

***

Non parlarmi di tempi remoti.
In questo breve fiato si confondono
i nostri sogni. E anche se i giorni
scorrono invisibili sul tuo volto
olivastro, nonno, viviamo.
In quest’eterno presagio di un attimo
di comunione. E ci dà torto questo
nostro impossibile essere fratelli.

***

Il bambino che raccoglie i gusci di paguro
segue il flusso continuo dell’erosione,
consunzione di materia che si cela nelle volute
murate, rastrella le forme accresciute
in fragili gabbie atrofizzate.
Serrate le labbra violacee, resta inginocchiato
sulla sabbia nera. Dove il bagliore si interrompe
si coagula il respiro nervoso della gente.

***

Mi sembra di conoscere la cortina irregolare,
fortuito accumulo di scarti, impasto stratificato
di rifiuti. Sono le stesse alghe che si accumulano
sulla riva scomparsa che monologa compatta
con vagiti sepolti, movimenti retroflessi
di un’intimità rivelata. Ignora il suono afoso
di un richiamo collettivo, il massacro incolore.
Ignora il tratto collusivo di quelle promesse
che sono già a fondo, vittime adespote
essiccate nel solco miasmatico, depositate
all’ombra del bunker, putrefazione
diagnosticata in tempo, accolta in ritardo,
nutre gli illustri visitatori del nulla.

***

I cimiteri invaderanno le città,
sgusceranno dal suono afoso
delle preghiere incise su lastre esili,
che già riportano nomi, date,
pulviscolo monotono, alimenta
un impulso conformista di icone.
Non gli ammassi di cemento
trafitti da punte gotiche che non sfiorano
il cielo, non palazzine costipate
da presenze taciturne. E nemmeno
i volti devozionali, ritagliati nell’angusta
cornice ovale concessa dal marmo,
spazio fraterno che commuove. Colma
l’arretramento volontario della città.
La soglia disattesa offre un respiro greve.

***

Manca ancora l’icona in mezzo
ai satelliti immobili di cemento, alti
non contro il cielo, si stagliano rasoterra.
Le chiome rigide, volumi fissi in una rete
di impronte digitali ancora da scolpire,
in fila indiana. Un po’ mi stringe
un po’ mi allevia, quest’anelito
sempre identico, l’arte di non scomporsi.

***

Fu un vecchio a dirmi di voler tornare
in cima al promontorio, sembra quello
il destino della scogliera: una tenera stasi.
E gli ospiti incuranti delle isole
che negano alle ombre ristoro.
Eppure conta e dimentica, rinsavisce
nei rintocchi che nessuno ascolta.
Roccia bianca che galleggia,
prima ricorda: nessuno veglia la cenere
destinata alle onde. Disperse queste
intermittenze di luce ci conducono qui,
alla Chiesa Vecchia, ma la cenere non brilla.

***

L’ombra galleggia nel fluido ammasso
del rimpianto, calpesta gli ultimi aghi
di pino del giorno che è stato,
i tronchi inerti, fissati al terreno tenace,
l’equilibrio immobile di quello che resta.
Il silenzioso reticolo delle alghe
nasconde lo scheletro roccioso
dell’Isola che ora vive solo per sé.
L’ebbrezza dei corpi che si cercano
ansiosi sul viso torbido della marea.

Nunzio Bellassai ha conseguito con lode la laurea magistrale in Filologia Moderna presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Attualmente presso il medesimo ateneo è dottorando in Italianistica con un progetto sul patrimonio epistolare di Vitaliano Brancati.
Per il racconto La stazione, edito da Schena, ha vinto il Premio nazionale “Valerio Gentile” nel 2019. Con la sua raccolta d’esordio Due tempi (Ensemble, 2021, prefazione di Maurizio Cucchi) ha ottenuto le menzioni speciali del Premio “Città di Latina” e del Premio “Portopalo Più a Sud di Tunisi”, oltre al terzo posto al Premio “Diana Nemorensis” di Nemi. Suoi componimenti sono stati selezionati per la Bottega di poesia de «La Repubblica», la rubrica “L’Angolo degli inediti” della casa editrice Stampa-2009 e l’Ufficio Poesie Smarrite del «Corriere della Sera».
I suoi studi gravitano intorno alla letteratura italiana del Novecento, con un interesse per i fenomeni italofoni transnazionali. I suoi primi contributi scientifici sono apparsi su «Sinestesieonline» e «La rivista di Arablit» nel 2023.

RaiPoesia2022. Uno sguardo sulla poesia italiana contemporanea

La reciprocità degli sguardi

Nell’immagine, un frame della sigla che introduce a partire da oggi, venerdì 16 dicembre 2022 alle 16.30 un ciclo di incontri con i poeti italiani contemporanei sul nuovo sito web della Rai: RaiNews&TGRCampania con il progetto Raipoesia2022 ideato e condotto da Luigia Sorrentino.

Raipoesia2022 è uno sguardo sulla poesia italiana contemporanea, uno sguardo nel quale ci si perde o ci si ritrova.

Raipoesia2022 è accoglienza, è la risposta a una chiamata che predispone un luogo e uno sguardo che viene in superficie.

Raipoesia2022 è un progetto pensato soprattutto per le giovani voci della poesia italiana contemporanea, ma non solo. Ai volti e alle voci dei più giovani, si affiancheranno poeti già noti ai lettori della poesia contemporanea italiana, perché se non fossero presenti ne sentiremmo l’assenza.

Raipoesia2022 mette in evidenza i volti, gli occhi pieni di fascino e d’inquietudine dei poeti, custodi dell’attenzione, della profondità e della verità della parola della poesia.

Ascolteremo frammenti di parole che tassello su tassello andranno a comporre un’unica grande opera.

(Luigia Sorrentino)

Postilla

Il titolo, Raipoesia2022, porta con sé l’anno in cui è nato il progetto.

 

Raipoesia2022

ideazione e progetto di Luigia Sorrentino

si ringrazia Dino Ignani per la cortese collaborazione

Continua a leggere