Paul Celan e Gustav Chomed ,«Ho bisogno delle tue lettere»

Il carteggio di Paul Celan con Gustav Chomed, compagno di scuola e amico di giovinezza, è tra le corrispondenze del poeta quella che copre il più ampio arco temporale. La prima lettera, molto lunga e molto personale di Celan, è del 1938, anno in cui il poeta andò a Tours per studiare medicina (si tratta in assoluto di uno dei primi documenti epistolari di Celan). Le ultime lettere risalgono agli ultimi mesi di vita di Celan. Dal 1962 (anno della ripresa dei con- tatti tra i due amici), al 1970, ci sono diverse interruzioni dovute ai ripetuti ricoveri di Celan per via di una profonda crisi psichica, conseguenza, in gran parte, dell’Affaire-Goll e delle accuse di plagio. Il carteggio è di una straordinaria intensità e schiettezza. I due amici non si rincontreranno più dopo la partenza di Celan da Czernowitz e proprio perché Celan custodisce in Chomed (consapevolmente, i due amici ne parlano) un’idea dell’amicizia e dell’umano che sempre meno riesce a ritrovare nel suo mondo reale occidentale, il rapporto epistolare resiste nel tempo.

Paul Celan – Gustav Chomed, «Ho bisogno delle tue lettere», a cura di Anna Ruchat, FinisTerrae di Ibis 2024

Traduzione di Annalisa Nelson e Maria Chiara Susini

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Soffio ed epitaffio: riflessioni sull'”Olimpia” di Luigia Sorrentino

 di Irene Santori

Preliminarmente, occorre porre attenzione alla citazione in esergo, che apre la raccolta. “Non essere limitato da ciò che è grande, essere contenuto da ciò che è minimo, questo è divino“.
Essa è tratta dall’”Iperione” di Hölderlin, il quale a sua volta la mette in esergo al suo romanzo, riportandola nell’originale latino “Non coerceri maximo, contineri minimo, divinum est“.
Pertanto, questo motto è la citazione di una citazione, e già questo ci pone in un orizzonte di slittamenti, stratificazioni, ma soprattutto di sprofondamenti: poiché è Luigia Sorrentino che cita Hölderlin, il quale cita un epitaffio, per l’esattezza l’epitaffio inciso sulla tomba di un santo, Sant’Ignazio di Loyola.

È dunque da una tomba che esala e sale la parola che anticipa tutte le altre. È l’epitaffio, ovvero la parola ultima e definitiva, che qui invece si fa parola inaugurale. Un cenno etimologico: epi, significa sopra; tàphos, significa tomba, ovvero ciò che sta sotto, il sottoterra. L’epitaffio è in sé la simultaneità, il con-stare di due opposti: il sopra e il sotto. Nel caso particolare del messaggio veicolato da questo epitaffio, gli opposti si divaricano a dismisura, diventano maximo e minimo, l’infinito e il finito, l’uno e il tutto. Ed è divino, divinum est, stare, con-stare, esserci in entrambi, situandosi in questa divergenza, in questa divaricazione.

Ora, in “Olimpia” è all’opera la febbricitante e fredda presa in carico di questa situazione, laddove si assuma la parola situazione non nella sua funzione di sostantivo, come realtà data, bensì come azione nel suo darsi, come la tensione, l’operazione instancabile del situarsi.

Luigia Sorrentino – e qui l’aggettivo febbricitante assorbe una valenza quasi puerperale – mette al mondo, plasma, architetta un luogo e un logos: un luogo in cui quella divaricazione, quella difformità, quegli opposti possano corrispondersi, possano divenire tutt’uno e non più collisioni dell’essere. E se mai questo sarà possibile, lo sarà in virtù di un logos, di una parola pensata, hölderlinianamente, nella sua potenzialità demonica, ovvero della parola numinosa e perciò demiurgica e fondativa. Stiamo parlando della parola poetica, per come la intendeva Hölderlin, o meglio, per come la intendeva Heidegger esegeta di Hölderlin: la poesia è il nominare che istituisce l’essere e l’essenza di tutte le cose.

In altre parole, la parola poetica è quell’energia primeva, quell’Ur-Sprache, la protolingua che sta sotto, tombata nel profondo delle lingue storiche, da riattingere affinché l’epitaffio, da parola sepolcrale diventi inizio, avvento, evento, nascita di ogni discorso umano, ridiventi, per dirla ancora con Heidegger, voce del popolo. E però, nel dire popolo, non può non risuonare l’esclamazione corsivata della quart’ultima poesia della raccolta di Sorrentino, che sembra quasi gridare, spopolato!

“ciò che crediamo perduto possiamo
riaverlo, te l’ho già detto, spopolato!”

Ora – posto che assumiamo la poesia come istituzione dell’essere e dell’essenza di tutte le cose – in che modo accade questa istituzione, nel proprio, nello specifico della poetica di Luigia Sorrentino? In che modo, dall’epitaffio iniziale fino a questa esclamazione e poco oltre, vengono al mondo e vanno in scena tutte le cosmogonie e le agonie di “Olimpia”, ricapitolando il sottoterra ctonio e il cielo, il passato mitico e il destino, le rovine e le fondamenta, in una mai pacificata ma sempre febbricitante scommessa su una nuovissima alleanza tra divino e uomo?

Di nuovo, è solo il testo che fa testo.

Partiamo dunque dal titolo. Il titolo è trimorfico: Olimpia è la poesia, Olimpia è la divinità che la incarna, Olimpia è una città.

Affinché la poesia, intesa come mistica del Logos originario, come Ur-Sprache autenticamente rivelativo dell’intima essenza dell’essere, possa nascere occorre preliminarmente constatare, o forse confessare, l’inautenticità del mondo, vederne l’insignificanza e il nulla, ammettere che le sue proporzioni, simmetrie, magnificenze, i suoi palazzi e altari, non sono che ruderi, relitti, monconi: vedere, come scrive Luigia, su quelle rovine ciò che di noi viene disperso. Solo azzerando questo orizzonte saturo di vestigia storiche e culturali oramai afone, si farà spazio e prenderà corpo sottoterra, annidata come una radice nel grembo stesso di questa agonia e afonia, il soffio incorrotto, la voce pura, bianca, assoluta, ab-soluta poiché sciolta dalle scorie della condizione umana e proprio per questo capace di ripensare la condizione umana, di rinominarla, di ricomprenderla non più nella dispersione e nello sperpero di sé, ma in una forma altissima.

Questa è l’Olimpia dall’incarnato bianco, dalle pupille bianche, dal sorriso chiaro, che nasce nell’antro: il volto sbiancato nell’intangibile nulla. Immagine di assoluta innocenza, di assoluta epifania, ma anche talmente generativa da compendiare in sé non soltanto la nascita, ma la gestazione stessa: lei è la nascitura, la neonata e la gravida, è il frutto e la radice al tempo stesso, lei stessa madre e grembo, ma, attenzione, grembo che si prepara a ritornare estraneo ad ogni flutto. Poniamo molta attenzione a questo verso, a questo estraneo. Qui si insinua un pericolo. Vedremo perché.

Ma torniamo al titolo e all’Olimpia città: la città di Olimpia è figura massima di questo transito, di questo passaggio, di questa trasposizione (per inciso, sappiamo che Luigia sottintende un gemellaggio tra Olimpia e Napoli, morfologicamente, potremmo dire, omozigote): dagli albori della storia ad oggi, in lei sprofondano e concrescono rovine di templi, statue gigantesche, corone di alloro, eppure in lei si accendeva e si accende il fuoco sacro; ciclicamente dentro di lei si appicca la scintilla dei giochi cari agli dèi.

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Paul Celan, una poesia nella traduzione di Giuseppe Bevilacqua

Corona

Aus der Hand frißt der Herbst mir sein Blatt: wir sind Freunde.
Wir schälen die Zeit aus den Nüssen und lehren sie gehn:
die Zeit kehrt zurück in die Schale.

Im Spiegel ist Sonntag,
im Traum wird geschlafen,
der Mund redet wahr.

Mein Aug steigt hinab zum Geschlecht der Geliebten:
wir sehen uns an,
wir sagen uns Dunkles,
wir lieben einander wie Mohn und Gedächtnis,
wir schlafen wie Wein in den Muscheln,
wie das Meer im Blutstrahl des Mondes.

Wir stehen umschlungen im Fenster, sie sehen uns zu von der Straße:
es ist Zeit, daß man weiß!
Es ist Zeit, daß der Stein sich zu blühen bequemt,
daß der Unrast ein Herz schlägt.
Es ist Zeit, daß es Zeit wird.

Es ist Zeit.

Paul Celan

da Mohn und Gedächtnis,  Deutsche Verlags–Anstalt GmbH, Stuttgart, 1952

 

Corona

L’autunno mi bruca dalla mano la sua foglia: siamo amici.
Noi sgusciamo il tempo dalle noci e gli apprendiamo a camminare:
lui ritorna nel guscio. Continua a leggere

RaiPoesia2022. Uno sguardo sulla poesia italiana contemporanea

La reciprocità degli sguardi

Nell’immagine, un frame della sigla che introduce a partire da oggi, venerdì 16 dicembre 2022 alle 16.30 un ciclo di incontri con i poeti italiani contemporanei sul nuovo sito web della Rai: RaiNews&TGRCampania con il progetto Raipoesia2022 ideato e condotto da Luigia Sorrentino.

Raipoesia2022 è uno sguardo sulla poesia italiana contemporanea, uno sguardo nel quale ci si perde o ci si ritrova.

Raipoesia2022 è accoglienza, è la risposta a una chiamata che predispone un luogo e uno sguardo che viene in superficie.

Raipoesia2022 è un progetto pensato soprattutto per le giovani voci della poesia italiana contemporanea, ma non solo. Ai volti e alle voci dei più giovani, si affiancheranno poeti già noti ai lettori della poesia contemporanea italiana, perché se non fossero presenti ne sentiremmo l’assenza.

Raipoesia2022 mette in evidenza i volti, gli occhi pieni di fascino e d’inquietudine dei poeti, custodi dell’attenzione, della profondità e della verità della parola della poesia.

Ascolteremo frammenti di parole che tassello su tassello andranno a comporre un’unica grande opera.

(Luigia Sorrentino)

Postilla

Il titolo, Raipoesia2022, porta con sé l’anno in cui è nato il progetto.

 

Raipoesia2022

ideazione e progetto di Luigia Sorrentino

si ringrazia Dino Ignani per la cortese collaborazione

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Camilla Miglio. “Ricercar per verba. Paul Celan e la musica della materia”

Paul Celan

Dalla nota dell’autrice

Camilla Miglio

Paul Celan dà voce ai sommersi, mostrando come i salvati possano scrivere poesia dopo la distruzione, per antonomasia, dopo la Seconda guerra mondiale: il toponimo Auschwitz[1]– cui proprio Celan, in più occasioni, ha aggiunto il ‘Kompositum’ Atombombe. Lo fa cambiando molte regole dell’arte, in una lingua e in una scrittura segnate dall’esperienza individuale, eppure permeate da lingue altre, voci altrui.

Mettendosi in posizione scomoda, non sempre compreso, venne travolto da infamanti accuse di plagio o tendenziose – per lui che “diffidava del bello” – letture estetizzanti.

Diffidava del bello e della lingua tedesca, che interrogava fino in fondo, scavando dentro ogni parola.

Il tedesco dei carnefici era anche la lingua di sua madre, uccisa dai nazisti presso il lager di Michailowka, tra i fiumi Bug e Dnestr nell’inverno ucraino del 1942.

Rivoltando, riaggregando, ricercando la linguamadre Celan ne fa una patria portatile e una “tenda”[2].

Nel suo nomadismo europeo partito da un ‘Est’ ex asburgico, poi rumeno, sovietico e infine ucraino, approda all’Ovest parigino in una lingua diversa eppure familiare, per ventidue anni vivendo in francese, scrivendo in tedesco, traducendo da nove lingue; in una terra altra trovando casa, lavoro, famiglia, ma anche ricoveri in clinica psichiatrica e morte per acqua nella Senna, nel 1970.

A oltre cinquant’anni dalla morte, lo studio di fonti d’archivio consente una revisione del mito di un Celan poeta ‘oscuro’, rappresentato sul ciglio del mutismo, o invece depositario di una parola redentrice dal Male assoluto.

Celan scava, si tuffa più a fondo nella realtà – nel concreto, fisico stare sulla terra di uomini ed elementi. Scava e riaggrega, si tuffa e riemerge altrove, e mai una volta per sempre; seguendo ritmi e figure musicali, ma in un modo del tutto nuovo.

 

Note:

[1] Rimando al saggio di Adorno che ha scatenato, tra anni Cinquanta e Sessanta, il dibattito se fosse “barbarico” fare poesia dopo Auschwitz: Theodor W. Adorno, Kulturkritik und Gesellschaft, in Id., Prismen. Kulturkritik und Gesellschaft cit., p. 334; trad. it. Critica della cultura e società, in Id., Prismi. Saggi sulla critica della cultura cit., pp. 249-282; si veda anche la correzione di punto vista, a proposito di Celan in Ästhetische Theorie, a cura di Gretel Adorno e Rolf Tiedemann, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1970, pp. 475-477; trad. it. di Enrico De Angelis, Teoria estetica, Torino, Einaudi 1975; cfr. su questo argomento “Die wahre Flaschenpost”. Zur Beziehung zwischen Theodor W. Adorno und Paul Celan, “Frankfurter Adorno Blätter”, VIII (2003), pp. 151-176: 164-167. e Paola Gnani Scrivere poesie dopo Auschwitz. Paul Celan e Theodor W. Adorno, La Giuntina, Firenze 2010; si veda anche il recente volume collettaneo Auschwitz dopo Auschwitz. Poetica e politica di fronte alla Shoah con un testo inedito di Günther Anders, a cura di Micaela Latini ed Erasmo Storace, Meltemi, Roma 2018. Rimando anche a Giorgio Agamben Quel che resta di Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 1998.

[2] Zeltwort (parola-tenda), in un verso di Anabasis (DG, p. 151, trad. it. P, p. 441) – ma la memoria corre a Isaia 33, 20: “I tuoi occhi /vedranno Gerusalemme, dimora tranquilla, tenda inamovibile, i cui / paletti non saranno più divelti, né più staccata alcuna delle funi” e al libro Sefer ha-zohar. Idra rabba. Il libro dello splendore. Grande assemblea, in Giulio Busi-Elena Loewenthal (a cura di), Mistica ebraica. Testi della tradizione segreta del giudaismo dal III al XVIII secolo, Einaudi, Torino 1995 e 1999, p. 484.

IL LIBRO

In cerca di una realtà “abitabile” e dei suoi resti cantabili dopo le distruzioni novecentesche, la poesia di Paul Celan continua a parlare all’umanità di oggi esposta all’(auto)distruzione, mostrando come tutto si tenga, in una grande rete di relazioni.

Celan risillaba il ritmo e le forme del mondo annotando libri di geologia, astronomia, fisica quantistica, botanica; dizionari, articoli di giornale, opere filosofiche e letterarie.

Attraversando i territori della natura più lontana dall’umano – pietre, cristalli, sedimenti e faglie geologiche; spazi siderali e cosmici – egli crea una morfologia nuova, senza origine, in continua trasformazione.

 

 

Restituisce vita a ciò che è passato, dà nome e voce ai corpi di cui resta solo l’impronta o l’alone per il tempo di una poesia, di una canzone. Le forme musicali, anch’esse frammentate e fossili, diventano forza aggregatrice della materia esplosa. Ricercar è il titolo di questo libro, come quello di una poesia che Celan non volle pubblicare. Continua a leggere

Paul Celan, la pietà della parola

Paul Celan e Gisèle Lestrange

La guerra e la verità della poesia
Considerazioni in margine a una poesia di Paul Celan

di Marco Marangoni

C’è una questione che emerge in ogni guerra e tanto più in queste nostre, moderne e infine in questa ultima, così drammatica, in Ucraina: la perdita delle vite è preceduta e accompagnata della perdita della parola e della verità.

La lingua naturalmente nata per comunicare, per raggiungere l’altro, perde, in guerra, il suo senso, anzi viene contraddetta.

E’ in grado ancora, in guerra, la parola (segnatamente la parola “guerra”) di ospitare l’altro? O invece lo rifiuta?

A regolare i rapporti di belligeranza c’è, prima di tutto, questo rifiuto, questa messa al bando del dialogo. C’è la violenza. Che ne è allora di parole che dicono per non dire, per fingere di dire, avendo di mira la distruzione di ogni vis unitiva che la parola esprime? C’è ancora spazio sim-bolico, spazio linguistico, in una guerra? O siamo piuttosto alla mistificazione della funzione ospitale della parola, al grottesco più dia-bolico?

Ecco che cosa dice la chiacchiera che giustifica una guerra: l’anti-parola, l’anti-poesia; se la poesia è la parola che per definizione cerca di svincolarsi su un sentiero di verità, di trasparenza, di dialogo.

Questo sanno i poeti che della rovina della verità si disperano, ma nella distretta dei loro versi, scuri, ancora sperano?

La poesia alza la posta dei criteri, tra relativamente giusto e ingiusto, polarizzata da un cammino dialogico, inoscurabile, resistente, combattente sul terreno del linguaggio-realtà, per tenere in vita un respiro, nonostante tutto. Giocando la partita magari estrema, tra “Ormai-non più” e “Pur sempre”. Poesia contro antipoesia, ospitalità contro violenza: finchè la “guerra” non sia svergognata.

Questo sanno i poeti?

Nonostante tutto, anche e soprattutto in una guerra, la poesia di certo resta un “cambio di respiro” e intrattenendo un dialogo insperato con le vittime, patisce la loro perdita, si interroga sul loro destino, e le intrattiene in una attenzione, in un dialogo, per quanto tramato questo di una inevitabile oscurità.

L’ultima ospitalità è dunque la pietà della parola? La poesia è, può anche questo? La poesia non si impone, ma si espone, è stato detto. La poesia come un certo cammino.

Leggiamo qui di seguito questa poesia di Paul Celan, nato a Czernowitz, nella Bucovina settentrionale, che oggi fa parte dell’Ucraina: “ una contrada – come ebbe a dire il poeta stesso – di uomini e libri” (Allocuzione, Premio letterario di Brema,1958).

La poesia è tratta dalla raccolta Atemkristall ( 21 testi) pubblicata nel settembre del 1965 ( poi nel ’67 ripubblicata in Atemewende, Suhrkamp, Frankfurt/M), in una edizione di lusso (ottantacinque esemplari), presso l’editore Brunidor di Parigi, con otto incisioni della moglie del poeta Gisèle Celan-Lestrange.

Secondo Giuseppe Bevilacqua, Atemkristall sarebbe “l’opera lirica di Celan più compatta, più essenziale; e può essere considerata il vero culmine del suo operare” (Eros-Nostos-Thanatos, saggio introduttivo a Paul Celan, Poesie, Mondadori, Milano 1998, XCII) .

Proponiamo la poesia in una duplice versione: più concettuale di Franco Camera e più liricamente intensa di Giuseppe Bevilacqua. Continua a leggere

Paul Celan, “È tempo”

Paul Celan, foto del passaporto

CORONA
di Paul Celan
di Luigia Sorrentino

La poesia che vi proponiamo oggi Corona è di Paul Celan (1920-1970) uno dei maggiori poeti di lingua tedesca nato a Czernowitz, nella Bucovina, oggi Ucraina, da genitori ebrei.

Corona è una poesia che agisce sul significato musicale del termine. Lo stesso utilizzo musicale Celan lo adotta in altre poesie, ad esempio “Fuga di morte”, che si riferisce a un tempo musicale, alla forma musicale polifonica della fuga.

Ma mentre in Corona – suggerisce Luigi Reitani – “il tempo della poesia di Celan equivale a una fermata, a una sospensione del tempo – nel linguaggio musicale la corona è un segno grafico (un puntino dentro un semicerchio) che sovrapposto a una nota ne prolunga indefinitamente la durata” -,  in Fuga di morte il tempo musicale diventa quello della fuga: un tempo veloce, rapidissimo.

Corona, inoltre, oltre ad essere un simbolo regale, è anche la corona del fiore, la corona formata dai petali rossi del papavero (simbologia ricorrente nella poesia di Celan) simbolo di oblio e di memoria.

“E’ tempo che sia tempo” scrive Celan in questa memorabile poesia, “è tempo che la pietra accetti di fiorire”. Questo scrive Celan. E’ tempo che si fermino le guerre, i conflitti. È tempo che l’aridità, la violenza del potere, si trasformino in amore, nel più puro sentimento della vita. “E’ tempo”. Scrive Celan.

“Corona” di Paul Celan viene qui proposta in due diverse traduzioni dal tedesco: quella di Giuseppe Bevilacqua e quella di Luigi Reitani, purtroppo recentemente scomparso.

 

CORONA

Aus der Hand frißt der Herbst mir sein Blatt: wir sind Freunde.
Wir schälen die Zeit aus den Nüssen und lehren sie gehn:
die Zeit kehrt zurück in die Schale.

Im Spiegel ist Sonntag,
im Traum wird geschlafen,
der Mund redet wahr.

Mein Aug steigt hinab zum Geschlecht der Geliebten:
wir sehen uns an,
wir sagen uns Dunkles,
wir lieben einander wie Mohn und Gedächtnis,
wir schlafen wie Wein in den Muscheln,
wie das Meer im Blutstrahl des Mondes.

Wir stehen umschlungen im Fenster, sie sehen uns zu von der Straße:
es ist Zeit, daß man weiß!
Es ist Zeit, daß der Stein sich zu blühen bequemt,
daß der Unrast ein Herz schlägt.
Es ist Zeit, daß es Zeit wird.

Es ist Zeit.

Paul Celan: “Mohn und Gedächtnis” , Deutsche Verlags–Anstalt GmbH, Stuttgart, 1952

CORONA

L’autunno mi bruca dalla mano la sua foglia: siamo amici.
Noi sgusciamo il tempo dalle noci e gli apprendiamo a camminare:
lui ritorna nel guscio.

Nello specchio è domenica,
nel sogno si dorme,
la bocca fa profezia.

Il mio occhio scende al sesso dell’amata:
noi ci guardiamo,
noi ci diciamo cose oscure,
noi ci amiamo come papavero e memoria,
noi dormiamo come vino nelle conchiglie,
come il mare nel raggio sanguigno della luna.

Noi stiamo allacciati alla finestra, dalla strada ci guardano:
è tempo che si sappia!
È tempo che la pietra accetti di fiorire,
che l’affanno abbia un cuore che batte.
È tempo che sia tempo.

È tempo.

Traduzione di Giuseppe Bevilacqua

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Paul Celan, video di Luigia Sorrentino

QUANDO LA POESIA ARRIVA A RIVA 

“La poesia può essere un messaggio in bottiglia inviato nella convinzione – certo non sempre salda – di potere chissà dove e chissà quando venire sospinto a riva”. Così auspicò Paul Celan nel 1960 ricevendo il prestigioso Premio Büchner.

Dopo il conferimento del Premio Büchner si interessarono a questo poeta più editori europei.

In Italia Mondadori, che avviò una trattativa complessa coinvolgendo a più livelli diversi poeti italiani, tra cui Sereni, Zanzotto, Fortini, Spaziani e Balestrini.

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Naufragio con spettatore

Luigia Sorrentino /credits ph. Fabrizio Fantoni

Naufragio con spettatore: Luigia Sorrentino, Piazzale senza nome, Pordenonelegge-Samuele Editore, 2021.

di Giuseppe Martella

 

Piazzale senza nome segna una svolta nella poesia di Luigia Sorrentino, offrendoci al contempo una spassionata testimonianza della condizione umana e una riflessione in sottotraccia sulla parola poetica, nella sua duplice funzione, inaugurale e testimoniale, nell’attuale tempo del disamore e del disincanto del mondo, del narcisismo e della solitudine di massa ormai giunti a un punto di non ritorno. Il dettato secco, febbrile, verticale procede per affondi e frammenti, scoprendo i vari livelli di lettura possibili e mimando l’esplosione della forma (d’arte e di vita) nell’attuale spazio dei flussi di informazioni, capitali e merci, in questa nostra tarda modernità liquida. Il testo possiede dunque una implicita valenza politica ed ecologica, mettendo in scena in modo solidale il declino dell’autorità e della fiducia, insieme alla sofferenza della madre terra sulla soglia del disastro ambientale.

Questo tema della sofferenza tellurica, è stato peraltro una costante della poesia di Sorrentino da La Nascita, solo la nascita (2009) a Olimpia (2013), richiamandosi al mito cosmogonico di Rea cui lo sposo, Crono, ingoiava i figli lasciandola in uno stato di lutto permanente. Tale mito ci riporta dunque anche alla situazione di tempo fermo, passato che non passa, chiusura d’orizzonte che caratterizza il presente allargato dell’attuale globalizzazione e il “tempo reale” degli scambi su internet, che appare così come la odierna incarnazione della rete di Ananke. Perché la poesia di Sorrentino si è da sempre mossa in uno spazio intermedio fra la cronaca e il mito, solo che ora qui avviene una sorta di ribaltamento gestaltico, sicché il mito recede sullo sfondo mentre la cronaca balza in primo piano. Si tratta di una cronaca scheletrica, a forti tinte e contrasti, in bianco e nero, come fosse una radiografia impietosa delle malattie del nostro tempo.

La dedica al padre e l’epigrafe da Plutarco (“La morte dei vecchi è come un approdare al porto, ma la morte dei giovani è una perdita, un naufragio.”) ci offrono dall’inizio le coordinate di lettura del testo, introducendo il suo topos fondante: quello del “naufragio con spettatore”, tratto dalla ben nota immagine lucreziana dell’uomo che da sopra una roccia guarda con distacco e quasi con compiacimento una nave che sta per affondare al largo nei flutti, fungendo da metafora dell’atarassia del saggio epicureo a fronte delle tempeste della vita. La storia di questa metafora ha segnato le varie epoche della letteratura occidentale, assumendo sempre nuove connotazioni, fino al ribaltamento secco che subisce ad opera di Pascal, il quale afferma che ci troviamo tutti sulla stessa nave e che perciò nessuno può chiamarsi fuori dal suo possibile naufragio, sicché occorre accettare l’infinita scommessa della fede e della compassione. Questa storia è stata esplorata egregiamente nel secondo Novecento da Hans Blumenberg, dove però a quanto mi consta non figura la tappa precoce ivi segnata da Plutarco, che assegna, tra i morenti, ai vecchi il ruolo di spettatori e ai giovani quello di naufraghi. Non più dunque il saggio epicureo ma il vecchio navigato riassume la prospettiva teoretica, il ruolo di spettatore (theoros) a fronte dei giovani naufraghi, attori della tragedia dell’esistenza. Si tratta perciò di una declinazione importante di questa figura epocale, che nel nostro testo viene evocata e messa a frutto come seme generativo, a fondamento dell’intera fenomenologia della violenza che ne innerva forme e contenuti.

Un altro topos letterario avito qui richiamato con profitto è quello del “giardino”, hortus conclusus, spazio chiuso e ordinato, contrapposto ai luoghi aperti e anonimi che verranno visitati in seguito. E il padre, in punto di essere seppellito, apparirà infatti alla fine del poema in guisa di Giardiniere, custode dello spazio familiare (Oikos), dell’ordine e della bellezza che fanno scudo all’anomia generale. Il padre morente, figura dell’autorità in dissolvenza, viene però già dall’inizio connotato come “capra sgozzata” (13), evocando così la terza grande figura che presiede all’ordinamento poetico del testo, quella del capro espiatorio su cui si scaricano la violenza e il conflitto delle comunità umane. Questo ruolo di capro espiatorio tocca indifferentemente a vecchi e giovani, così come appare subito nella prima parte in prosa del nostro testo, nell’alternanza di campo e controcampo che caratterizza le loro morti parallele.

Questo testo è infatti un prosimetro dove le sezioni in prosa fungono da vere e proprie sceneggiature preparatorie della drammaturgia in versi che seguirà, ossia da scenari per gli atti di questa tragedia degli anonimi e dei perdenti. Come ci avverte il titolo infatti, quello dell’anonimato è il tema centrale della silloge ed è connesso alla remota possibilità della donazione dei nomi. Funzione squisitamente poetica che si profila man mano nel corso del testo, specialmente a partire dalla lirica intitolata “Nunzia”, “la ragazza dal volto antico” (52) vittima di uno stupro, che reca nel nome la speranza di un annuncio salvifico che andrà di qui in avanti concretizzandosi in figure successive come quella dell’Eroina (martire della droga) dai capelli biondi che ha “ceduto la vita alla gioia”. (61) Sono figure che si possono tutte ricondurre a quella mitica della fanciulla divina (Kore), la cui prima incarnazione è quella di Persefone rapita da Ade e fatta regina degli inferi, mentre la seconda è quella di Euridice che ivi sprofonda nel ben noto mito di Orfeo. Entrambe sono state figure centrali di Olimpia, a conferma della continuità dell’opera di Sorrentino, pure nella svolta netta che assume in Piazzale senza nome. Continua a leggere

Alberto Russo Previtali, l’ultimo Zanzotto

ANTEPRIMA EDITORIALE 

 

Il centenario della nascita di Andrea Zanzotto si pone come un tempo propizio per capire la sua presenza nella contemporaneità. Da qui il progetto di una raccolta di saggi, Le estreme tracce del sublime, Studi sull’ultimo Zanzotto a cura di Alberto Russo Previtali, (Mimesis, 2021) offre una descrizione e un’interpretazione degli aspetti più rilevanti degli ultimi libri, nel tentativo di cogliere la preziosa eredità poetica ed etica di cui sono portatori.

Studi sull’ultimo Zanzotto
Giorgia Bongiorno, Matteo Giancotti, Massimo Natale, Jean Nimis, Giuliana Nuvoli, Alberto Russo Previtali, Luca Stefanelli, Luigi Tassoni.

 

INTRODUZIONE
di Alberto Russo Previtali

Nella sua ultima produzione poetica, iniziata con la pubblicazione di Meteo nel 1996, e sviluppatasi compiutamente con Sovrimpressioni nel 2001 e Conglomerati nel 2009 (senza dimenticare gli Haiku for a season del 2012), Andrea Zanzotto ha confermato e approfondito le conquiste stilistiche e conoscitive più mature della sua poesia, quelle che gli hanno assegnato una centralità indiscussa nella letteratura italiana ed europea del Novecento. Ma in quest’ultima fase del suo percorso Zanzotto è andato oltre quelle conquiste, spingendo il proprio dire dentro le tensioni e le dinamiche profonde degli albori del millennio, in un superamento interno della propria posizione di soggetto e di poeta. Oggi, a dieci anni dalla sua scomparsa, il lettore “versato nel duemila” (Zanzotto) sente tutta la prossimità di questa seconda pseudo-trilogia, in cui pulsa un senso prezioso e veritiero sulla condizione dell’uomo contemporaneo, immerso in una realtà sempre più pletorica, attraversata dall’insensatezza e dalla minaccia di forze autodistruttive fuori controllo.

Negli ultimi anni sono fioriti numerosi studi importanti e approfonditi su quest’ultima parte del percorso zanzottiano, ma il sapere critico prodotto su di essa non è ancora comparabile a quello che interessa le fasi precedenti. Inoltre, l’edizione delle Poesie e prose scelte nella collana “I Meridiani” di Mondadori ha fissato in anticipo l’opera di Zanzotto, escludendo dalla sistemazione organica e dal commento capillare gli ultimi libri. Ciò ha reso a posteriori parziale la collocazione di Meteo, la cui lettura critica può dispiegarsi in modo fecondo soltanto in seno alla prospettiva unitaria della pseudo-trilogia. La pubblicazione dell’edizione Tutte le poesie negli Oscar ha colmato solo in parte queste lacune, offrendo una ricostruzione soltanto introduttiva dell’ultima produzione, della quale molto resta da esplorare, comprendere, analizzare, interpretare. Ecco perché il presentarsi all’orizzonte del centenario della nascita di Zanzotto, che coincide con il decennale della sua scomparsa, è stato sentito da alcuni studiosi come un tempo propizio per uno studio approfondito della fase finale del suo itinerario. Da questo comune sentire, da questa condivisa passione critica, è nato il progetto di questa monografia collettiva, in cui delle voci riconosciute della critica zanzottiana si misurano con la vivissima densità e con la profonda attualità degli ultimi libri del poeta.

Dire “centenario della nascita”, “decennale della morte”, insistere su questi ritorni di date, non significa, non deve significare, scadere nell’ufficialità delle celebrazioni, farsi aspirare dalla logica burocratica delle rimemorazioni retoriche, quelle di cui Zanzotto si è fatto beffe in modo insuperabile ne Il Galateo in Bosco. Farsi coinvolgere nel circolo delle date è un modo di entrare nello spazio più proprio della poesia, la quale è sempre impegnata nella scrittura impossibile di ciò che accade una sola volta. È la data che Paul Celan fa risuonare ne Il Meridiano, quel “20 gennaio” ripreso dall’incipit del Lenz di Büchner (“Il 20 gennaio Lenz attraversò la montagna”) e portato nella singolarità di ogni testo poetico: “Forse si può dire che in ogni testo poetico rimane inscritto il suo 20 gennaio?”[1]. La data del “20 gennaio” è per Celan un nome del trauma, della sua innominabilità, poiché fu il 20 gennaio del 1942 che Hitler e i suoi collaboratori, nella conferenza di Wannsee, programmarono definitivamente “la soluzione finale della questione ebraica”, in cui persero la vita i genitori del poeta. Di questo modo di ritornare della data, Jacques Derrida, come lettore di Celan, ha messo in luce il carattere ambivalente, singolare e universale, legato alla sua doppiezza strutturale e inconciliabile: da un lato l’unicità dell’evento, la sua insostituibilità, e dall’altro l’anello della ripetizione che la minaccia[2].

L’accoglienza di questo ritorno della data come traccia di un’unicità traumatica emerge in diversi punti dell’itinerario di Zanzotto, e nel modo più intenso in quel testo-ómphalos che è Microfilm, in cui le cifre del dieci ottobre, 10 10, compleanno del poeta e giorno in cui, nel 1963, egli venne a conoscenza dei tragici fatti della strage del Vajont, si trasfigurano negli elementi elementari della scrittura (I O), combinandosi in significanti in cui la tensione tra particolarità del trauma e spinta alla comunicatività universale raggiunge la sua massima apertura. Particolarmente significativi e istruttivi sono anche i componimenti che esplorano poeticamente la ricorrenza del 25 aprile, Verso il 25 aprile in Idioma e Altro 25 aprile in Conglomerati. Nella loro diversità essi mostrano un modo poetico comune di confrontarsi con un anniversario: porsi in ascolto delle istanze sepolte che giacciono in esso, far rivivere il desiderio di uomini scomparsi che si è cristallizzato nell’unicità della data, e che in essa continua a pulsare come segreto, parola muta e sacra, alla quale solo un lettore, ovvero colui che raccoglie, può ancora dare voce.

È dunque a partire dall’insegnamento stesso del poeta, dal suo modo di abitare l’anniversario, che gli interpreti qui riuniti hanno voluto onorare il centenario della sua nascita, cercando di raccogliere nel modo più consono e fecondo la parola dei suoi ultimi libri. Il primo effetto di questo posizionamento è l’emersione del carattere estremo, in tutti i sensi del termine, dell’esperienza dell’ultimo Zanzotto rispetto alle fasi precedenti del suo percorso esistenziale e poetico. Gli aspetti apocalittici e testamentari di questa produzione, sempre sospesi tra l’esperienza privatissima e la spinta insopprimibile della passione civile, non possono che far pensare all’intero percorso poetico-biografico del poeta, al quale, per “privilegio d’anagrafe” – come suggerisce il Benandante Pasolini[3] – è toccato di assistere alla fine di un tempo storico, alla distruzione del paesaggio, alla perdita sempre più radicale, per il soggetto, della possibilità di orientare il proprio essere nel mondo attraverso la fascinazione erotica e il sentimento del sublime. Continua a leggere

Jean-Luc Nancy, “Hymne stomique”

NOTA DI LUIGIA SORRENTINO

Lunedi 23 agosto 2021 la notizia della morte a Strasburgo a 81 anni di Jean-Luc Nancy, il grande filosofo francese discepolo di Jacques Derrida.

Jean-Luc Nancy  ha scritto opere indimenticabili tradotte In molti paesi del mondo.
Tra i suoi libri pubblicati in Italia, Essere singolare plurale, (Einaudi, 2001); La creazione del mondo (Einaudi, 2003); i due volumi di Decostruzione del cristianesimo (Cronopio, 2007-2012), Sull’amore (Bollati Boringhieri, 2009); Politica e essere con. Saggi, conferenze, conversazioni (Mimesis, 2013); Prendere la parola (Moretti&Vitali, 2013) e Noli me tangere (Centro ediotoriale Dedhoniano, 2015).

Con Nancy, uno dei maggiori protagonisti della discussione filosofica contemporanea, avevamo cominciato a scriverci con una certa regolarità da febbraio 2020, fino all’ aprile di quest’anno, e cioè da quando, in piena pandemia, avevo dato vita, sul blog, al progetto Catena Umana/Human Chain, un dialogo a più voci fra diverse discipline umanistiche nel tempo del Coronavirus. A prendere  la parola sulla “crisi globale” innescata dal Covid 19, il 29 maggio 2020, era stato proprio Jean-Luc Nancy, con un’intervista a me rilasciata pochi giorni prima.

Quest’anno, in una fredda mattina di gennaio,  Nancy mi inviò  per email un suo testo inedito scritto a dicembre 2020,  Hymne Stomique, che qui pubblico integralmente per la prima volta e in lingua originale.

E’ un testo di rara bellezza. Custodisce un mistero che ognuno potrà fare suo.

Unica indicazione per lettore che vorrà cimentarsi nella traduzione nei commenti del blog: la parola “stoma” deriva dal greco e significa “bocca”, qui da intendersi come “figlia del respiro“. La bocca per Nancy è il luogo dell’accadere, è l’esperienza del toccare, del toccarsi, è la nudità del mondo che non ha origine né fine.

 

HYMNE STOMIQUE

Jean-Luc Nancy, décembre 2020

 

Chant premier

Fille du Souffle et de la Chère,
père exhalé, mère absorbée
en toi par toi dans ta trouée
comme le veut l’ordre des choses
mâle aspiré dans les nuées,
femelle sucée avalée,

toi passage dedans dehors
en haut en bas et leurs mêlées,
leur brassage leur masticage
– Mastax fut de ta parenté –
toi la mêleuse la brouilleuse
souveraine des amalgames
amal al-djam’a al-modjam’a
ou malagma du malaxer
toujours l’un qui dans l’autre passe
en transmutation d’alchymie

toi la parleuse la mangeuse
la discoureuse la buveuse
la clameuse la dévoreuse

salut, Stoma commissures humides
rejointes disjointes
viande en logos, mythos en bave

salut, toi seule véritable
seule réelle dialectique !  Continua a leggere

Paul Celan, “Di soglia in soglia”

NOTA DI PIETRO ROMANO

Il senso della soglia come condizione liminare che soddisfa il ricongiungimento con un’idea di origine trova nella poesia di Paul Celan il massimo della sua rappresentazione. In particolare, la raccolta di 47 poesie del 1955, Von Schwelle zu Schwelle, in Italia riproposta nella traduzione einaudiana dal titolo Di soglia in soglia a cura di Giuseppe Bevilacqua, sottolinea il bisogno di riallacciarsi alla «soglia non rimossa», al di là della quale tutto ciò che ha preso congedo dall’esistenza possa vedersi riunito.

Tuttavia, per capire la pregnanza di cui l’immagine della soglia appare intrisa, occorre rifarsi alla vita del poeta il quale, perduti i familiari nei lager nazisti, si trova a dovere cercare nella parola un luogo che faccia propriamente «casa» e colmi così lo sradicamento che lo accompagna.

Infatti, come nota Bevilacqua, se si tiene conto delle origini ebraiche del poeta, appare doveroso segnalare la cifra simbolica che, nella tradizione giudaica, assume la soglia in quanto luogo iniziatico dei valori familiari. L’uso sineddotico di tale immagine, nella quale peraltro paiono condensarsi due componenti fra loro strettamente correlate, ovvero il ricordo e la lingua materna, non toglie però valore alla soglia in quanto spazio pregno di evento, oltre il quale si staglia la dimensione del possibile: al contrario, i due significati si trovano compenetrati all’interno di una visione che, a cominciare dalla dedica nuziale all’amata Gisèle de Lestrange, intende il travalicamento come una vera e propria esperienza di apertura cosmologica. Le scelte cromatiche che tinteggiano le atmosfere del primo ciclo di Von Schwelle zu Schwelle suggeriscono l’ingresso dell’io all’interno di un percorso iniziatico chiamato a prospettargli la visione di due soglie e il legame che le sottende al fine di rivelare una realtà inafferrabile e comunque in continua metamorfosi. Al lucore del bianco e ai rossori serali si contrappone sempre lo spazio della notte, che è luogo dell’ombra e dei sommersi e come tale dimensione percepita temporalmente eterna.

È l’incrocio fra due mondi in costante comunicazione a fare della parola poetica l’unico canale percorribile tra la vita e la morte: Celan se ne serve per assistere alla propria immersione nel «mondo pietrificato dei sommersi» e a un tempo consacrare l’esperienza del passaggio, la vita nuova:

Sentii dire che nell’acqua
vi era una pietra ed un cerchio
e sopra l’acqua una parola
che dispone il cerchio attorno alla pietra.

Vidi il mio pioppo calare nell’acqua,
ne vidi il braccio tastar giù nel profondo,
e, protese al cielo, le radici ad implorar notte.

Io non gli tenni dietro,
soltanto colsi da terra quella briciola,
che ha del tuo occhio la nobile forma,
dal collo ti tolsi la collana dei motti
e ne orlai la tavola, ove adesso stava la briciola.

Ed il pioppo sparì alla mia vista

Ogni immagine in questo componimento assurge a simbolizzazione del possibile: l’acqua, in quanto colma di significato liminare e situata a metà tra la vita e la morte; la pietra, come ombra di un passato non ancora dissolto, e il cerchio che la parola dispone intorno a essa; il pioppo, le cui radici capovolte in direzione del cielo implorano notte. Sono tutte figure attinenti a un’idea di origine, cui l’io accede sprofondando entro di sé e riconoscendone la sacralità che le abita.

L’inabissamento acquista i connotati di una vera e propria tentazione cui il poeta alla fine decide di non cedere abbracciando il preludio a una soglia nuova, che si invera nella vita: «io non gli tenni dietro, / soltanto colsi da terra quella briciola, / che ha del tuo occhio la nobile forma, / dal collo ti tolsi la collana dei motti /e ne orlai la tavola, ove adesso stava la briciola». Peraltro, l’immagine del pioppo come figura simbolo di un sé scisso ancorato al passato ricorre anche in componimenti presenti nelle sezioni successive, come in Campi: Continua a leggere

Paul Celan, “Conseguito silenzio”

Paul Celan

Der Andere

Tiefere Wunden als mir
schlug dir das Schweigen,
gröBere Sterne
spinnen dich ein in das Netz ihrer Blicke,
weiliere Asche
liegt auf dem Wort, dem du glaubtest.

L’altro

Piú profonde ferite che a me
inflisse a te il tacere,
piú grandi stelle
ti irretiscono nella loro insidia di sguardi,
piú bianca cenere
giace sulla parola cui hai creduto.

*

Auch wir wollen sein,
wo die Zeit das Schwellenwort spricht,
das Tausendjahr jung aus dem Schnee steigt,
das wandernde Aug
ausruht im eigen Erstaunenund
Hütte und Stern
nachbarlich stehn in der Bläue,
als ware der Weg schon durchmessen

Anche noi vogliamo essere,
dove il tempo dice la parola di soglia,
il millennio giovane si alza nella neve,
l’occhio errante
si calma nella propria sorpresa
e capanna e stella
stanno nel blu da vicini di casa,
come se la strada fosse già percorsa.

da “Conseguito silenzio” a cura di Michele Ranchetti, Einaudi, 2010 Continua a leggere

L’orizzonte del tragico

Luigia Sorrentino

Nota critica di Giuseppe Martella

Fatto salvo il suo valore poetico intrinseco, il testo “Olimpia, Tragedia del passaggio” di Luigia Sorrentino (in scena al Napoli Teatro Festival Italia, direzione artistica di Ruggero Cappuccio, il 16 luglio h.22.30, Giardino Romantico di Palazzo Reale, a Napoli)  ha tutte le valenze proprie di una sceneggiatura rituale, come per esempio La sagra della primavera di Stravinsky, di per sé musica memorabile che tuttavia si compie appieno nelle movenze del balletto omonimo. Alla sola lettura, Olimpia (Interlinea, 2013, 2019), sembra infatti quasi opporre resistenza come un diamante: un’architettura splendida e tagliente, immersa nell’azzurro intenso di un cielo mediterraneo. Una creatura di luce: donna, città e dea. Nel corso del testo, ti rimanda poi figure cangianti in cui ti rifletti ruotandovi intorno, come in un assedio senza fine. Una città-tempio ben difesa da alti bastioni, sui cui spalti appaiono visioni elusive di larve e di donne, di colossi e di chimere. Una città fuori del tempo, certo, nuova e vecchia insieme, sfuggente visione nel bianco che ti acceca.

*

Un’architettura più che umana che custodisce gelosa i segreti di un mondo e i possibili tempi della sua storia. Il testo appartiene alla linea alta, visionaria e veggente, del simbolismo europeo (tra Otto e Novecento, da Rimbaud a Valery, da Hölderlin a Rilke, e fino a Paul Celan), condensata al massimo in un intreccio archetipico che ha già di per sé movenze da tragedia greca, dal momento che i ruoli degli attori e del coro si fondono in una dimensione estatica, impersonale e sembrano obbedire ai dettami di un fato occulto tanto più quanto ci sembra di essere “sempre sulla soglia di una scoperta cruciale” (Milo De Angelis) e quanto più la scena sembra annegare in un tripudio di luce (il dominio del colore bianco assume qui infatti la doppia connotazione della purezza e del lutto).

Strutturalmente si tratta infatti di un dramma pronominale dove la permutazione delle tre persone (io, tu, lei) avviene con cadenze cerimoniali che distribuiscono il dentro e il fuori ad ogni cambio di scena. Lasciando poi che siano gli spettatori (lettori) ad assegnare le sfere dell’immaginario, del simbolico e del reale in questo percorso iniziatico che coniuga le due facce del mito greco, essoterica ed esoterica, la luce di Olimpia e l’ombra di Eleusi, proiettandole verso l’irrisolvibile ambiguità del tragico. Nel complesso il testo organizza i suoi spazi semantici proiettandoli sulla mappa dei luoghi della città sacra, sicché l’intreccio che ne risulta è letteralmente una serie di superamenti di soglia o di riti di passaggio, per cui la costruzione e la visita di questa città di parole alla fine coincidono. L’architettura e l’archeologia si sovrappongono in modo tale che quando si è giunti alla fine del percorso si viene rinviati all’inizio e la città nuova lascia intravedere in sé lo scheletro di quella vecchia, l’insieme di detriti e di rovine che costituiscono le sue fondamenta. Torniamo così nella grotta dell’inizio, nel ventre della terra madre da cui siamo usciti, chiudendo una specie di cerchio magico di cui l’immagine del lago, che si trova al centro del poema, costituisce il fuoco virtuale della riflessione, l’occhio immoto del ciclone, la sua soglia simbolica interna: il luogo del possibile sprofondamento del volto che ci manca, la “lei che è lì” dall’inizio, l’oggetto del desiderio e dell’adorazione, della ricerca e del canto, l’Euridice di Orfeo, l’ombra amata che può ad ogni istante sprofondare “a un passo da noi”. Perché qui si tratta di una iniziazione che è nel contempo esistenziale e poetica. Ed è a questo punto che, in Olimpia, all’io poetico come allo spettatore, viene incontro “il traguardo dell’ombra” (39), la porta liquida che gli può consentire di scendere nell’immemoriale inconscio per trarne fuori immagini mirabili, oppure al contrario condannarlo a sprofondare insieme ad esse in un vortice allucinatorio, nel labirinto di specchi e nella foresta di simboli che pure deve necessariamente costruire e attraversare. La struttura del testo di Olimpia, pure nella descrizione sommaria che si è data, ci rimanda dunque imperiosamente a quell’orizzonte mitico in cui soltanto quest’opera può davvero essere vissuta e compresa.

*
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Giuseppe Capitano, “Impastare la calce”

Opera di Giuseppe Capitano

DI
GIUSEPPE CAPITANO

 

Come immagino il dopo quarantena?
Io penso che animarsi di BUONI sentimenti è sempre BENE.
Questi sentimenti in quanto tempo si esauriranno?
Quanti potranno permettersi di conservarli?

Sentimenti generati dal pensarsi meglio di quello che si è , secondo una visione cristiana nella quale il passato è male , il presente è espiazione e il futuro redenzione.

Sentimenti ancora assorbiti da una società disillusa e scissa nei suoi mattoni base: la famiglia, le istituzioni, la chiesa. Piena di bisogni non tutti primari ma comunque bisogni, non per nulla disposta a cambiare vita.

I cambiamenti coatti degli ultimi mesi sono stati imposti con la forza per limitare il contagio e aiutare la gente a prendere maggiore consapevolezza di un distanziamento che era già in atto anche prima della diffusione del virus.

La crisi di identità che i più dementi esplicano con un ego smisurato , con cattiverie di vario genere (neanche troppo nascoste ), mostra la fragilità di uno schema che risulta ai più lucidi, superato .

Opera di Giuseppe Capitano

I sogni per il futuro erano già annichiliti prima del male comune, tolto il domani, oggi si rosicchia l’oggi. Mi spiego meglio: l’ ordine sociale è garantito da regole condivise non solo dalla legge ma da un senso comune.

Il discorso dell’ uomo è un discorso evidentemente di specie e non di individuo; la politica economica che ci ha amministrato ha diffuso un modello che sviluppa l’ individualismo, ai fini del prestigio, della ricchezza e della notorietà.

Questo modello tende alla monade , la monade però non ha né porte né finestre , così cresce in noi un senso di smarrimento che pare verso gli altri ma è prima di tutto verso noi stessi.

Già prima del virus avevamo disimparato a stare insieme, oggi è legge non formare assembramenti .

I cambiamenti di costume , anche se forzati servono alla maggior parte per sentirsi parte di qualcosa che vorrebbero essere e non saranno mai se non a discapito di qualcun altro , 60000 volontari per vigilare contro gli assembramenti è un evidente principio di fascismo.

Il blocco ha avuto degli effetti positivi ? Certo.

Porre l’ attenzione su problematiche che sono più profonde : qual è lo scopo del nostro vivere insieme? Dimostrare di essere un po’ meglio del vicino? Certo che no.

Possedere più cose per aumentare la distanza dagli altri? Certo che no.

Avere la capacità di provare empatia anche per chi non ci è vicino? Certo.

Saper rinunciare a qualcosa per un bene superiore: la collettività? Continua a leggere

Franco Rella, “L’assenza della storia”

Franco Rella

INCIPIT

Un uomo si trova solo in una stanza e cerca di costruire una storia che possa intramare ciò che vive il dentro di lui e ciò che sta accadendo fuori, la sua vicenda e vicende collettive. La storia non riesce. L’uomo non riesce a costruire un racconto che tenga insieme le sue contraddizioni e le contraddizioni che solcano il mondo. E’ dunque sospeso in una sorta di lacerante esitazione, braccato da una serie di domande che si ripetono e si insinuano in lui inquietanti. Alla fine, da questo suo esilio, decide di mandare comunque al mondo, a qualcuno, a nessuno le poche parole che ha.

SCRIVERE

DI FRANCO RELLA

Si dice che nulla sarà più come prima. Ogni evento in gualche modo fa deviare il corso del mondo, persino la piccola increspatura sollevata dal volo di una libellula sul pelo dell’acqua di uno stagno. Il mondo è stato piagato da Auschwitz, dalla bomba atomica, dalle guerre postcoloniali, dalle grandi migrazioni di massa, dal sessantotto, dall’11 settembre, e poi dall’irrompere delle minoranze sulla scena delle metropoli contemporanee, neri, femminismo, gay, transgender. Ora è la pandemia, è il massacro dei vecchi nelle case di riposo, è la balbettante incompetenza della politica, che fa dire che nulla sarà come prima. Che porta un intellettuale, che non solo non ha previsto il virus, ma che si è sentito impreparato ad affrontarlo, a dichiararsi disarmato. Ma Auschwitz è stato, malgrado tutto, ben più dell’attuale pandemia virale. Auschwitz è stato mettere l’insieme del sapere, a partire dall’illuminismo fino al dispiegamento della scienza e della tecnica, al servizio dell’attuazione di fabbriche di morte. Auschwitz ha corroso le coscienze, ha intaccato le anime, ha bacato le menti. Adorno ha detto una frase, che è stata ampiamente equivocata, e che rimane pur tuttavia ancora comunque discutibile. Ha detto che dopo Auschwitz non è più possibile poesia. Ma dopo Auschwitz c’è stata l’immensa poesia di Paul Celan, il tardo Montale, Wystan Hugh Auden, La montagna magica di Thomas Mann, Beckett, Philip Roth e Don DeLillo, e Yoram Kaniuk, e Yehoshua Kenaz. C’è stato Francis Bacon, Lucio Fontana, Mark Rothko. Dopo Auschwitz c’è stata anche La dialettica negativa di Adorno.

Ma dove ti collochi tu con la tua scrittura? Qui dove sei ora, nella stanza con la finestra, non hai i tuoi libri, nemmeno quel centinaio di libri che – lo hai detto da qualche parte – costituiscono il tuo bagaglio essenziale. È vero che come ha scritto Joyce non si sa mai di chi si masticano i pensieri. Hai preso per caso in mano un libro di Marguerite Duras, che certamente non fa parte del tuo bagaglio essenziale, e hai letto alcune parole che ancora prima di averle completamente lette ti eri già ripetuto più volte in questo periodo, e che caratterizzano, almeno così credi, tutto quello che stai cumulando, riga dopo riga, in queste pagine. Hai parlato della necessità di una storia, e della tua esitazione a definirla. Leggi che Duras afferma che “scrivere non è raccontare storie”. Scrivere è raccontare “una storia e l’assenza di questa storia”. È quello che hai fatto finora. Questa storia e la storia assente di Wallas, di Dora. Anche la tua storia assente, dal momento che non sei riuscito a farti trasportare dai tuoi personaggi. Sai che andrai avanti fino ad un certo punto, quando deciderai che l’assenza della storia si sia finalmente compiuta, realizzandosi come assenza oppure costruendo la sua lacuna compiuta nel corpo del testo.

È per questo che vinci la tentazione di ripercorrere ciò che hai scritto, di mettere a posto le parti dissonanti, gli elementi che ciò che è venuto dopo ha reso incongrui o contraddittori. Qualsiasi correzione cercherebbe inevitabilmente di smussare gli spigoli e gli angoli del disegno che traccia via via il profilo di quella lacuna che è lo spazio della storia che non c’è, della storia assente, che è cresciuta fino a sovrapporsi e prendere il posto di qualsiasi storia possibile. Continua a leggere

Donatella Di Cesare, “La catastrofe del respiro”

Donatella Di Cesare

INDENNI?
DI DONATELLA DI CESARE

Forse ne verremo fuori con una patente di immunità che attesti i nostri anticorpi. Passeremo, quasi per abitudine, fra sofisticati termoscanner e fitti circuiti di videosorveglianza, in luoghi e non-luoghi sanificati, mantenendo la distanza di sicurezza, guardandoci intorno cauti e diffidenti. Le mascherine non ci aiuteranno a distinguere gli amici, e a venirne riconosciuti. A lungo continueremo a scorgere ovunque asintomatici che, ignari, annidano in sé la minaccia intangibile del contagio. Forse il virus si sarà già ritratto dall’aria, scomparso, dissolto; ma ne resterà a lungo il fantasma. E noi avremo ancora l’affanno, il fiato corto.

Potremo raccontare quell’evento epocale che abbiamo vissuto. Lo faremo da sopravvissuti – inconsapevoli, magari, dei rischi che ciò nasconde. Non solo per le insidie della rimozione; né solo per quell’impegno che la vita ha di portare con sé la vita che non c’è più, di riscattarla e indennizzarla, nel lavoro infinito del lutto. La sopravvivenza può inebriare, esaltare. Può diventare una sorta di piacere, una soddisfazione insaziabile, ed essere presa persino come un trionfo. Chi è vissuto oltre, chi è sfuggito alla sorte che si è abbattuta sugli altri, si sente privilegiato, favorito. Questa sensazione di forza, come ha osservato Canetti, prevale persino sull’afflizione. Come se si avesse dato buona prova di sé, e si fosse in un certo senso migliori. Bandito il pericolo, si avverte la prodigiosa, eccitante impressione di essere invulnerabili. Proprio questa potenza del sopravvissuto, la sua rinnovata invulnerabilità, potrebbe rivelarsi un boomerang, un danno di ritorno, spingendolo a credere di poter restare indenne anche in futuro.

Saremo dunque sopravvissuti sani e salvi, immuni e immunizzati, forse già vaccinati, sempre più protetti e assicurati, in lotta per indennizzi e indennità. Celebreremo una certa resistenza, lasciando indistinto il confine tra lotta politica e reattività immunitaria. Non potremo ritenerci reduci o scampati da un conflitto perché, anche se il gergo militare ha dominato la narrazione mediatica, sappiamo che non è stata una guerra. Immaginare così quel che è avvenuto sarebbe un errore reiterato, un ostacolo per ogni riflessione. Non è stata una guerra – nessuno ha vinto. Molti sono stati sopraffatti senza poter combattere; molti hanno perso tutto, integrità e proprietà. Proprio quelli che possedevano meno degli altri, i più indifesi, i più esposti.

Essere usciti indenni da quest’inedita e immane catastrofe del respiro non autorizza a credere di essere intatti e inaccessibili al danno. L’indennità non salva. E l’immunità, più che un successo, si capovolge nel contrario. È come quando il rimedio si rivela un veleno. Perciò fallisce il tentativo di evitare a tutti i costi il danno, di calcolare l’incalcolabile, di innalzare iperdifese. L’organismo che, nell’intento di tutelare la propria indennità, manda in giro la truppa dei suoi anticorpi per impedire l’ingresso agli antigeni stranieri, rischia di autodistruggersi. È quel che mostrano le patologie autoimmuni. Bisogna allora proteggersi dalla protezione. E dal fantasma dell’immunizzazione assoluta.

Il respiro è sempre stato il simbolo dell’esistenza, la sua metonimia, il suo sigillo. Esistere è respirare. Nulla di più naturale, nulla di più emblematico. Eppure, già a partire dal secolo scorso, il respiro è stato bersaglio sistematico. Basti pensare all’impiego sempre più esteso e sofisticato di gas e veleni: dal cloro, sul primo fronte bellico, all’acido cianidrico, nello sterminio, dalla contaminazione radioattiva alle armi chimiche. Anche in seguito sembra che la scienza delle nubi tossiche e la teoria degli spazi irrespirabili abbiano fatto progressi. Al punto che si può parlare, come ha suggerito Peter Sloterdijk, di «atmoterrorismo», dato che non si prende di mira la vittima designata, bensì l’atmosfera in cui vive. Non più colpi diretti, né responsabilità palesi. Chi muore cade sotto il proprio stesso impulso a respirare. Di chi sarà la colpa? La manipolazione dell’aria ha messo fine al privilegio ingenuo goduto dagli esseri umani prima della cesura novecentesca, quello di respirare senza preoccuparsi dell’atmosfera circostante.
Non è un caso che la letteratura abbia guardato a ciò con apprensione. È stato Hermann Broch a intuire che il respiro non sarebbe più stato naturale e a diagnosticare che, mentre l’aria avrebbe finito per diventare un campo di battaglia, la comunità umana sarebbe soffocata dai veleni impiegati contro se stessa. L’atmoterrorismo rivolto all’interno mostrava già caratteri suicidi. Nel suo saggio Il meridiano Paul Celan ha celebrato il respiro, ne ha denunciato lo sterminio, ha raccolto e articolato il rantolo delle vittime e promuovendone il riscatto nella poesia, che ha chiamato «svolta del respiro». Continua a leggere

«L’ho letto su un foglio di un giornale. Scusatemi tutti.»

Mario Benedetti, poeta italiano foto di proprietà dell’autore

Giornale di un infante saggio (e insolente)

di Alessandro Anil

 

Il primo libro che lessi di Mario Benedetti, Pitture nere su carta, lo trovai in una piccola libreria vicino alla piazza del Collegio Romano. Avevo vent’anni, il libraio provvidenzialmente, saputo il mio interesse, indicò il libro. Negli Appunti su Kafka di Adorno, Celan sottolineava: «invece di guarire la nevrosi, Kafka cerca in essa la forza terapeutica, cioè la forza della conoscenza: le ferite che la società imprime a fuoco nel singolo sono da questi lette come cifre della non-verità sociale, come negazione della verità». Penso che questa definizione di Adorno sia appropriata anche per la poesia di Benedetti. Cambierei leggermente il finale. Da una parte trovo nella poesia di Benedetti una realtà allontanata, percepita in difetto, in una mancanza spaesante, con un senso di perdita e sdoppiamento «Ho freddo ma come se non fossi io.», ma dall’altra non riesco a non vedere in questo percorso poetico un tentativo, quasi ipertrofico, di cambiare la non-verità in una verità, anche se minima, anche se difesa con l’aggressività di un infante spietato, in una forzata auto-istanza, come per dimostrare che per ritagliarsi un piccolo spazio di autenticità bisogna indossare i panni del «Idiot boy» di Wordsworth, o molto diversamente quella di alcuni personaggi di Dostoevskij, che sporadicamente appaiono cifrati nelle pagine di Umana gloria.

Se c’è un filo che lega in comunanza sia Celan che Benedetti a Kafka è quella ferita che viene impressa a fuoco nel singolo e in questo la poesia di Benedetti, come ha scritto Roberto Galaverni qualche giorno fa, cade a capofitto sulla priorità della persona Mario. È infatti la sua esistenza letteraria ad essere un’occasione diffusa per comprendere la ferita che trova un segno visibile, diventa materia che dona conoscenza, per noi che ci troviamo dall’altra parte del testo ed è in questa posizione etica, nella autogenesi della sua opera che si può comprendere un legame storico e politico nel senso più ampio. Ma il valore più grande della poetica di Benedetti, più che storico, più che politico, resta spaziale, nel senso che apre un altro spazio, non solo quello dello sguardo, compito più del filosofo direbbe Nancy, ma eseguendo, mi viene da dire, un compito per eccellenza poetico, quello di portarci anche per mano. Così, a fronte della nostra vita troviamo il testo di Benedetti, a fronte del testo di Benedetti c’è la vita di Mario, dentro cui iniziamo ad addentrarci. È un’esperienza che immediatamente ci porta in uno altro spazio, in un’altra atmosfera, chiara, precisa, diversa, fatta di slavine, di campagne, di desolazioni come diffusamente mostrato, ma anche di una sacralità ritrovata attraverso la ripetizione di piccoli gesti nel quotidiano. Così, appaiono quelle piccole forzature grammaticali, quei anacoluti, quelle ripetizioni che si avvalgono di cortocircuiti tra causa-effetto, quegli scarti minimi eseguiti con maestria su un linguaggio prevalentemente ordinario ad aprire l’altro spazio: «Si sta dentro con la paura che il corpo è strano che non faccia male».

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La stanza dei poeti

Mario Benedetti e Luigia Sorrentino a “Ritratti di poesia”, Roma, 28 gennaio 2014. Credits ph. Dino Ignani

E’ stato un grande sogno vivere
di Luigia Sorrentino

Se io dicessi: “Questa è la stanza dei poeti”. Quanti ne entrerebbero e quanti ne uscirebbero?

(Silenzio)

Che cosa determina e definisce il poeta e la poesia?

(Silenzio)

Il successo in vita di una persona che scrive poesie, è decisivo?

(Silenzio)

Quando il valore di un poeta o di una donna poeta è indiscutibile?

(Silenzio)

Valgono forse premi, riconoscimenti a definire il valore di un poeta o di una donna poeta?

(Una voce, la mia)

Forse in alcuni casi sì. I Premi e i riconoscimenti internazionali possono avere un valore. Continua a leggere

Benedetti, straniero alla propria morte

MARIO BENEDETTI A RITRATTI DI POESIA, 2011 CREDITS PH DINO IGNANI

Ecfrasis
di Antonella Anedda

“Ho freddo ma come se non fossi io”. In questi versi c’è il mondo di Mario Benedetti, morto il 27 marzo 2020 a sessantaquattro anni.

Chi ha ascoltato le sue letture ricorda come fossero il rendiconto di una distanza all’interno della quale però succedeva qualcosa di sorprendente: Benedetti scavava con il suo linguaggio uno spazio di indifferenza dove inaspettatamente si accendeva una promessa.

Può sembrare un paradosso, ma dire come se non fossi io ci allontana da quella prossimità che avrebbe impedito di scriverlo davvero. Si guarda se stessi, si constata la presenza del gelo e insieme si scandaglia quello che siamo di fronte alla percezione. Dire “come se non fossi io” significa aver attraversato lunghe distese, essere saliti, caduti, risaliti. Freddo, fossati, torrenti, case color ocra, pitture nere come quelle dell’amato Goya, incubi e strappi luminosi.

Mario Benedetti a Nimis in Friuli sul bordo della Slovenia, il paese della madre. Il confine è il sigillo di un’identità che può essere spostato facilmente, è la prova della storia che agisce sulla geografia. Perché se la “storia è fievole” la storia è anche un fiele che corrode. Il confine mostra a tutti noi cosa possiamo diventare e cosa possiamo smettere di essere. Tenuta e smarrimento, coerenza e contraddizione.

La lingua, come il paesaggio (Cividale con la sua arte è a pochi passi) è colta e periferica, attraversata da scosse, sedimentata in fossili, acque di torrente. Fa corpo con quello che guarda, non può prescindere dal dialetto, ma, come hanno riflettuto i suoi amici e poeti Stefano dal Bianco e Gian Mario Villata, invece di usarlo Benedetti se ne lascia “investire”, lo patisce per poi trasmutarlo nell’ italiano estraneo, straniero e straniato di chi è vissuto ascoltando una lingua diversa. Dal dialetto si coagula un quotidiano fatto di suoni fitti di consonanti, fatica, sprofondamenti, ma in grado di farsi colpire da folate di altri linguaggi (il francese prima di tutti) e pensieri, da altri spazi aperti al vento, alle ginestre, alle maree come la Bretagna, con quella materia che aveva già accolto la poesia di Paul Celan. Continua a leggere

Paul Celan, poesia, esistenza e verità

Paul Celan

COMMENTO E TRADUZIONE DI ALESSANDRO BELLASIO

Tesa, lampeggiante, cesellata fino all´estremo e di volta in volta incandescente o raggelata, ipnotica o allarmante, quella di Paul Celan (1920 – 1970) è una poesia che accade in uno spazio mitico, turbato da uno spettro di luce siderale, dove tutto appare come attraverso la propria filigrana ontologica, in forma di emblema e di cifra.
Della vasta produzione di uno dei più grandi lirici del novecento, proponiamo alcuni brevi, folgoranti testi attinti da raccolte diverse, ma nei quali comune e decisiva è la ricerca sul senso della parola e sull’indissolubile intreccio tra poesia, esistenza e verità.

(Traduzioni di Alessandro Bellasio)

Mit wechselndem Schlüssel
schließt du das Haus auf, darin
der Schnee der Verschwiegenen treibt.
Je nach dem Blut, das dir quillt
aus Aug oder Mund oder Ohr,
wechselt dein Schlüssel.

Wechselt dein Schlüssel, wechselt das Wort,
das treiben darf mit den Flocken.
Je nach dem Wind, der dich fortstößt,
ballt um das Wort sich der Schnee.

Con alterna chiave
tu apri la casa dove
vortica la neve delle cose taciute.
A seconda che il sangue ti sgorghi
da occhio o da bocca o da orecchio,
cambia la tua chiave.

Cambia la tua chiave, cambia la parola,
cui è concesso vorticare tra i fiocchi.
A seconda del vento che via ti sospinge
intorno alla parola si fa più fitta la neve.

(da Von Schwelle zu Schwelle, Di soglia in soglia, 1955)

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Giornata della Memoria, Itzhak Katzenelson e Paul Celan

Itzhak Katzenelson e i suoi due figli uccisi dai nazisti

Quest’anno in occasione della  Giornata della Memoria, ho prodotto per la Rai – con il montaggio di Simona Belliazzi – due servizi giornalistici in memoria della Shoah.

Ho scelto di ricordare questa giornata attraverso la lingua di due grandi poeti , profondamente diversi fra loro, che furono, diversamente diversamente coinvolti nella strage degli ebrei d’Europa:  Itzhak Katzenelson e Paul Celan. Essi infatti, raccontarono nella loro poesia la strage degli ebrei perpetrata durante il periodo fascista e nazista, con due lingue opposte che però affermano la medesima condizione.

Katznenelson, da un punto di vista anagrafico più adulto di Celan – nato in Polonia nel 1886, viene ucciso nel campo di concentramento di Aushwitz nel 1944 – vive la deportazione e l’internamento lasciando in eredità un canto:  “Il canto del popolo yiddish messo a morte”. Katzenelson  quindi, racconta l’orrore con una lingua materna, un canto di culla, “affettivo”, lo yiddish, la lingua parlata da 11 milioni di ebrei  d’Europa prima della Shoah e dopo la Shoah totalmente cancellata.

ITZHAK KATZENELSON
SERVIZIO di LUIGIA SORRENTINO
MONTAGGIO di SIMONA BELLIAZZI

Paul Celan

Paul Celan, invece, nato nel 1920 in Ucraina, riesce a sfuggire alla deportazione e ai campi di sterminio, anche se viene spedito in diversi campi di lavoro in Romania – figlio unico, perderà entrambi i genitori catturati dai nazisti: il padre morirà di tifo e la madre, alla quale Celan era legatissimo, viene fucilata nel campo di concentramento di Michajlovka, in Ucraina -. Celan quindi, pur essendo un sopravvissuto, è fortemente traumatizzato dall’esperienza della Shoah. Tutte le sue memorabili poesie le scriverà in tedesco, nella  lingua del suo aguzzino,  come “ testo a fronte” della sua drammatica esperienza:  la patria perduta, la madre morta nella deportazione, il popolo ebraico sterminato, nella cancellazione totale della lingua e dell’identità ebraica.

PAUL CELAN
SERVIZIO di LUIGIA SORRENTINO
MONTAGGIO di SIMONA BELLIAZZI

Barnaba Maj, “Apocalisse e teologia: poetica del creaturale. Il ciclo Atemkristall

Atemkristall / Cristallo del respiro
di Paul Celan
Traduzione di Barnaba Maj

1.

Du darfst mich getrost
mit Schnee bewirten:
sooft ich Schulter an Schulter
mit dem Maulbeerbaum schritt den Sommer,
schrie sein jungstes
Blatt.

Non temere, tu puoi ospitarmi
offrendomi neve:
ogni volta che con il gelso spalla
a spalla io marciavo lungo l’estate,
gridava la sua più tenera
foglia.

La raccolta Atemwende (Svolta del respiro) è apparsa a Frankfurt am Main nel 1967. La prima parte è costituita da un ciclo di 21 poesie. Sotto il nome Atemkristall (Cristallo del respiro), che ricorre nella chiusa  dell’ultimo testo (21, 19), era già apparso nel 1965 a Parigi, con le illustrazioni di Gisèle Lestrange, moglie di Celan. Che la poesia sia una svolta del respiro è Celan stesso a dirlo. E’ un’immagine metonimica. Quindi Atemkristall è una metonimia nella metonimia.

21.

Weggebeizt vom
Strahlenwind deiner Sprache
das bunte Gerede des An –
erlebten – das hundert –
züngige Mein –
gedicht, das Genicht. Continua a leggere

Paul Celan, da “Conseguito silenzio”

Der Andere

Tiefere Wunden als mir
schlug dir das Schweigen,
größere Sterne
spinnen dich ein in das Netz ihrer Blicke,
weißere Asche
liegt auf dem Wort, dem du glaubtest.

(10 dicembre 1952)

L’altro

Più profonde ferite che a me
inflisse a te il tacere,
più grandi stelle
ti irretiscono nella loro insidia di sguardi,
più bianca cenere
giace sulla parola, cui hai creduto.

Traduzione di Michele Ranchetti Continua a leggere

Lo spazio del sacro, lo spazio del testo

NOTE PER UNA RILETTURA di OLIMPIA

di Giuseppe Martella 

  1. Fonti

A una prima lettura, Olimpia (Interlinea, 2013)[1] appare come un diamante: un’architettura splendida e tagliente, immersa nell’azzurro intenso di un cielo mediterraneo. Una creatura di luce: donna, città e dea. Nel corso della lettura, ti rimanda poi figure cangianti in cui ti rifletti ruotandole intorno, come in un assedio senza fine. Una città ben difesa da alti bastioni, sui cui spalti appaiono visioni elusive di larve e di donne, di colossi e di chimere. Una città fuori del tempo, certo, nuova e vecchia insieme, sfuggente visione nel bianco che ti acceca. Un’architettura più che umana che custodisce gelosa i segreti di un mondo e i possibili tempi della sua storia.

Forse per questo, il poemetto ha avuto parecchie, anche lodevoli, recensioni ma a quanto ne so nessun approfondimento critico vero e proprio. Ci si è fermati insomma al miraggio della città e alla superficie del testo. Eppure, nella sua breve e perspicua introduzione, Milo de Angelis ci aveva fornito alcuni validi indizi, se non addirittura le chiavi dell’interpretazione, quando parlava di “libro orfico”, “percorso iniziatico”, “sguardo lungimirante”, “tempo assoluto”, e di quella sensazione del lettore di essere “sempre sulla soglia di una scoperta cruciale”. Questi sono tutti attributi infatti che bene si confanno alla tradizione cui appartiene quest’opera: cioè a quella linea alta, visionaria e veggente, del simbolismo europeo, tra Otto e Novecento, che sfocia poi anche nei migliori esiti del modernismo, secondo traiettorie che vanno da Baudelaire a Rimbaud, da Mallarmé a Valery, in Francia; che in Gran Bretagna, sotto l’influsso congiunto dei classici (greci, latini, rinascimentali) e dei simbolisti francesi, generano le opere memorabili (nel contempo classiche e rivoluzionarie) di Ezra Pound, T.S. Eliot e dell’ultimo Yeats; e che infine in Germania annoverano tutta una schiera di validi poeti, nel lungo arco di tempo che porta da Hölderlin a Rilke, e fino a Paul Celan.

A questa linea appartiene il poemetto di Sorrentino, piuttosto che a quella musicale ed estetizzante che, a partire da Verlaine e attraverso Swinburne in Inghilterra, conduce dritto all’estetismo, al decadentismo e a D’annunzio qui da noi. L’unico poeta italiano che si può dire appartenga a pieno titolo alla linea visionaria di cui dicevo, è a mio avviso Dino Campana. E desta davvero meraviglia che i critici non abbiano osato chiamare in causa l’autore dei Canti Orfici nella lettura di un testo che è stato definito “orfico” nella sua prefazione. Campana è infatti un nume tutelare della poesia di Olimpia molto di più di quanto non lo sia lo Hölderlin evocato in epigrafe. Mi soffermerò perciò in particolare su questo debito, non certo per diminuire il valore della poesia di Sorrentino quanto piuttosto per inquadrarla meglio nel contesto del simbolismo italiano ed europeo, al quale credo fermamente appartenga, e per renderla pertanto più accessibile e significativa. Continua a leggere

Il ritorno di “Poesia e destino”

Un libro, POESIA E DESTINO, dopo una lunga assenza, torna nelle librerie italiane con l’assoluta voglia di esserci.

L’autore, Milo De Angelis, ripropone nel 2019 integralmente il volume stampato con Cappelli nel 1982 senza alcun ripensamento. Queste pagine,  spiega Milo De Angelis nella nota introduttiva, “da una parte possiedono qualcosa che mi è rimasto dentro [ …] e dall’altra qualcosa che ho perduto per sempre.

 

POESIA E DESTINO
Nota introduttiva di Milo De Angelis

 

Perché ristampare queste mie vecchie pagine? Perché da una parte possiedono qualcosa che mi è rimasto dentro – intatto, quasi intoccabile dal tempo – e dall’altra qualcosa che ho perduto per sempre. Molti temi di Poesia e destino sono quelli che mi scuotono ancora oggi: la tragedia, l’eroismo, l’adolescenza, il mito, il gesto atletico. Ma il tono è un altro. Il tono è furente, perentorio, imperativo, dà sempre l’impressione di un ultimatum che io pongo a me stesso e a chi mi legge. E’ come se da lì a poco dovesse scaturire una sentenza senza appello, l’ultimo grado di un processo dove si gioca la condanna o la salvezza. E questo tono guerresco circola nel sangue di una sintassi verticale, scoscesa, rapidissima, piena di strappi e impennate, la stessa di Millimetri, per intenderci, che è stato scritto nei medesimi anni. Ora non potrei nemmeno immaginare quella corsa sulle macchine volanti della parola. Me ne sono accorto trascrivendo il libro in un file per necessità editoriali. A volte ero pienamente d’accordo con me stesso, felice di essere rimasto fedele alle grandi passioni giovanili. Ma molto più spesso non capivo, letteralmente, il nesso troppo segreto tra due termini o due affermazioni. Dovevo leggere e rileggere, farmi aiutare dall’insieme della pagina. Continua a leggere

Osip Mandel’štam, nell’inferno dei gulag

(da Ottanta poesie, Einaudi, Torino, 2009)

 

Epoca

Chi potrà, mia epoca, mia belva,
fissarti nelle pupille un istante
e di due secoli agganciare le vertebre
incollandole con il proprio sangue?
Le cose terrestri dalla gola
zampillano sangue carpentiere;
sul limitare dei nuovi giorni
chi, se non il mangiaufo, trema?

La creatura fino a che c’è vita
deve in giro portare la sua schiena,
e l’onda, il flutto al gioco si affidano
di un’invisibile spina dorsale.
Tenera cartilagine di bimbo
è l’epoca neonata della terra:
di nuovo hanno sacrificato l’apice
della vita come fosse un agnello.

Per scioglier l’epoca dalle catene,
per dare inizio a un mondo nuovo
bisogna, a mo’ di flauto, unire insieme
le piegature dei nodosi giorni.
È l’epoca a gonfiare d’angoscia
umana il flutto che s’increspa; e l’aurea
misura dell’epoca ha il respiro
della vipera nascosta fra l’erba.

E ancora le gemme si gonfieranno,
la vegetazione schizzerà talli,
ma, epoca mia, bellissima e grama,
è in pezzi la tua spina dorsale.
E con un povero sorriso demente
ti volti a guardare crudele e fiacca,
come una belva che fu agile un tempo,
le orme lasciate dalle tue zampe.

1922 Continua a leggere

Le rive del sole di Ingeborg Bachmann

Ingeborg Bachmann

LE ONDE DEL DESTINO DI INGEBORG BACHMANN

commento e traduzione di alessandro bellasio

Tra le voci più alte e le esperienze più decisive della grande poesia europea del XX secolo, Ingeborg Bachmann (Klagenfurt, 1926 – Roma, 1973) ha saputo declinare in molteplici forme il suo talento letterario, dando vita non solo alle indimenticabili liriche di “Invocazione all’Orsa Maggiore“, ma anche a romanzi vibranti e tormentati come il celebre “Malina” (primo dell’incompiuto ciclo dei Todesarten, i “modi di morire”), così come a lucidi e accorati volumi di racconti (“Il trentesimo anno” e “Tre sentieri per il lago”), oltre che a drammi e saggi radiofonici, tra i quali ricordiamo “Il buon Dio di Manhattan”, o “Il dicibile e l’indicibile“, testimonianza quest’ultimo della profondità filosofica, oltre che critica, della ricerca perseguita dalla poetessa austriaca.
In “Herzzeit”, pubblicato in Italia con il titolo “Troviamo le parole”, è inoltre radunato il vorticoso, febbricitante scambio epistolare che la Bachmann intrattenne con Paul Celan – il grande poeta della Bucovina a un tempo amante, amico, confessore e sodale.

Proponiamo qui la poesia di apertura della raccolta “Die gestundete Zeit“ (Il tempo dilazionato), con la quale Bachmann esordì nel 1953, appena ventisettenne, sbalordendo pubblico e critica per la maturità e la perfezione del dettato. Continua a leggere

La via del domani

Mariella Mehr credits pf. Dino Ignani

La patria redenta di Mariella Mehr

Di Andrea Galgano

La poesia di Mariella Mehr (1) (1947) è un annidamento splendente di scogli e ferite, paesaggi che gridano, come la sua storia di sopraffazione e annullamento e che trovano nella parola che si scrive non una liberazione dal dolore, ma un’apertura alla profondità e nella profondità:

Ancora ti prospera il fogliame intorno al cuore
e una fresca presa di
sale
impregna il tuo sguardo.
Di me nessuno vuol sapere,
di chi io

sia la spezia
e di quale amore la durata.
Spesso canta il lupo nel mio
sangue
e allora l’anima mia si apre
in una lingua straniera.
Luce, dico allora, luce di lupo,
dico, e che non venga nessuno a tagliarmi i
capelli.
Mi annido in briciole straniere / e sono a me parola sufficiente.

Effimero, mi dico,
perché presto cesserà ogni annidare,
e scorre

via il resto di ogni ora.

Nata a Zurigo da madre zingara di etnia Jenisch, diffusa prevalentemente tra Svizzera e Svezia, fu vittima assieme ad altri seicento ragazzini rom, di un programma eugenetico (una violentissima pulizia etnica vera e propria) chiamato Enfants de la grand-route «Opera di soccorso per i bambini di strada» (in tedesco Kinder der Landstrasse) promosso dal governo svizzero e attivo tra il 1926 e il 1972, con cui si proponeva un processo di sedentarizzazione verso i figli appartenenti a famiglie di etnia nomade, sottraendo i bambini ai loro genitori e affidandoli a famiglie svizzere, orfanotrofi o ospedali psichiatrici.

Mariella Mehr fu portata via a due anni, nel 1949 e chiusa in un istituto per ritardati mentali. Segregata in un mutismo volontario, come la bambina del suo romanzo, «La bambina si rifiuta di parlare, si chiude nel silenzio», dirà a Maurizio Cecchetti su “Avvenire”, in un’intervista del 9 settembre 2006,

Ed è anche una difesa contro le violenze che la società le riversa addosso. Questa bambina in realtà è il riflesso della stessa società in cui anche noi viviamo: soltanto nel nostro mondo la vita di una bambina come questa è possibile. Solo una società individualista come la nostra, dove ciascuno bada a se stesso, può esistere una bambina che ormai è una sorta di essere autistico, uno specchio da cui la bambina stessa non riesce ad uscire se non uccidendo. Così possiamo dire che nella nostra società ogni vittima, se vuole liberarsi, è costretta a diventare anche carnefice. Ma il suo futuro, certo, non è roseo. Il comportamento degli adulti, la loro violenza, genera in lei altra violenza. (2)

Venne affidata a sedici case famiglia e tre diversi istituzioni educative, subendo diversi elettroschock. Quando ebbe diciannove anni le tolsero il figlio, come racconta a Paolo Di Stefano sul “Corriere”: Continua a leggere

Paul Celan

All’ultima porta

Autunno ho filato nel cuore del dio,
una lacrima ho pianto accanto all’occhio suo…
Com’era la tua bocca, turpe, è iniziata la notte.
A capo del tuo letto, tetro, il mondo è impietrito.
Cominciano a giungere con le brocche?
Come sparso il fogliame, è sperperato il vino.
Ti manca il cielo col migrare degli uccelli?
Fa’ che la pietra sia la nube, io la gru.

Paul Celan

da “La sabbia delle urne”, traduzione di Dario Borso, Einaudi, Torino, 2016

Am letzten Tor

Herbst hab ich in Gottes Herz gesponnen,
eine Träne neben seinem Aug geweint…
Wie dein Mund war, sündig, hat die Nacht begonnen.
Dir zu Häupten, finster, ist die Welt versteint.
Fangen sie nun an zu kommen mit den Krügen?
Wie das Laub verstreuet, ist vertan der Wein.
Missest du den Himmel mit den Vogelzügen?
Laß den Stein die Wolke, mich den Kranich sein.

Paul Celan
da “Der Sand aus den Urnen”, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 2003

 

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Giovanni Ibello, “Turbative siderali”

Giovanni Ibello

 

Quando tutto sarà finito
sarà il sonno a irrigidire gli occhi
ma prima della fine
c’è una retrospettiva lenta dell’infanzia
una campionatura degli amori.
Poi il respiro si risolve
in un orgasmo neuronale,
è come un’implosione
di pianeti nella mente
una turbativa siderale
del corpo che ritorna seme. Continua a leggere

Roberto Caracciolo, il cercatore di fiori

 


La galleria d’arte contemporanea Intragallery inaugura la mostra di Roberto CaraccioloCercando fiori mai visti“, a cura di Pia Candinas. Il vernissage è in programma sabato 25 febbraio 2017, dalle ore 11.00 alle ore 13.30, presso Intragallery (via Cavallerizza a Chiaia, 57, Napoli). La mostra sarà visitabile fino al 31 marzo 2017 dal lunedì al venerdì dalle 16.30 alle 19.30, e il sabato dalle 10.30 alle 13.30. Continua a leggere

Paul Celan, “Parla anche tu”

Paul-Celan

Paul Celan. La poesia “Parla anche tu” letta da Luigia Sorrentino nella traduzione di Giuseppe Bevilaqua con una sola variante nell’ultimo verso: “wandernder” che Bevilacqua ha tradotto con “errabonde parole” Luigia Sorrentino l’ha trasformato in “migranti parole”.

di Luigia Sorrentino

Nel 1955 esce  in Germania con la casa editrice Detsche Verlags-Anstalt  Di soglia in soglia, (Von Schwell zu Schwell) il primo ciclo di liriche interamente composte da Paul Celan a Parigi, città dove vive, dedicate alla moglie Gisèle. La raccolta è composta da 47 poesie suddivise in tre sezioni: Sette rose più tardi, Con alterna chiave, Alla volta dell’isola.

 

Parla anche tu (Sprich auch du) la poesia qui proposta nella lettura di Luigia Sorrentino, nella traduzione di Giuseppe Bevilacqua è contenuta nell’ultima sezione del libro ed è la nona di tredici poesie. E’ “incastrata” tra la precedente Cenotafio e la successiva, Con labbra rosse di tempo. Continua a leggere

La follia dell’assoluto: Paul Celan e Ingeborg Bachmann

paul_igeborg

Ingeborg Bachmann e Paul Celan durante l’incontro del gruppo 47 a Niendorf nel 1952.

Giovedì 12 gennaio 2017 19:30 La Casa della Poesia di Milano al Laboratorio Formentini (Via Formentini , 10) PRESENTA: La follia dell’assoluto: Paul Celan e Ingeborg Bachmann, serata a cura di Milo De Angelis.

Voce recitante di Viviana Nicodemo.
Esecuzioni musicali di Bianca Brecce e Alice Marini. Continua a leggere

Addio a Yves Bonnefoy

Yves Bonnefoy (ANSA)

Yves Bonnefoy (ANSA)

Si è spento a  Parigi il 1 luglio 2016, all’età di 93 anni, il grande poeta francese, Yves Bonnefoy, più volte candidato al Nobel per la letteratura e accademico del College de France.

Tutte le sue raccolte in versi sono state pubblicate dalle case editrici Mercure de France e  Gallimard. In Italia le sue poesie sono uscite con numerosi editori: Einaudi, Mondadori, Sellerio, Archinto, Rizzoli, Le Lettere, Jaca Book, Donzelli, Guanda.

Nel 1953 esce, con straordinario successo di pubblico e di critica, la sua raccolta poetica d’esordio, “Movimento e immobilità di Douve”. Seguono “Ieri deserto regnante”, “Pietra scritta” e “Nell’insidia della soglia”. La sua produzione prosegue con due sillogi edite in un unico volume, “Quel che fu senza luce. Inizio e fine della neve”. Continua a leggere

Paul Celan, “La sabbia delle urne”

CELAN_PADDAPORTOLuigia Sorrentino legge da:  “La sabbia delle urne” (DER SAND AUS DEN URNEN) la poesia MOHN (PAPAVERO) di Paul Celan, nella traduzione di Dario Borso  (Einaudi, 2016). La musica è di Franz Schubert.

Fra il 1947 e il 1948, dopo avere lasciato Bucarest, Paul Celan visse qualche mese a Vienna e cercò di pubblicare la sua prima raccolta di poesie. Continua a leggere

Maddalena Lotter & Paul Celan

Paul-CelanLa vostra voce
a cura di Luigia Sorrentino
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Corona, di Paul Celan: l’amore per rivivere una morte

di Maddalena Lotter

Celan scrive Corona nel 1948, probabilmente a Parigi. Questa lirica concentra dentro di sé la risposta a un conflitto secolare della letteratura, che è quello fra Eros e Thànatos, a cui qualsiasi poeta, prima o poi, è chiamato ad assistere. L’amore nascituro è sempre legato a una morte precedente.

Corona conclama la forza viva dell’amore che vince la morte e il ricordo della strage. Solo l’amore può sostituirsi all’abominio che è stata la guerra, un abominio che ha portato con sé due tragedie: quella dei morti e quella dei sopravvissuti, come Paul Celan è stato. La struttura dialogica insita nella poesia di Celan si rivela dunque sotto due profili: il primo, un dialogo di tenerezza fra il poeta e l’amata (la scrittrice Ingeborg Bachmann), e il secondo, un confronto turbato dell’Io con se stesso, costretto a fare i conti con il suo passato.

Solo attraverso l’amore il poeta trova la forza di dare voce all’orrore che è stato, e dargli tempo, dargli spazio perché esso non vada perduto nella colpa imperdonabile della dimenticanza. E’ tempo che si sappia. E’ tempo che la pietra accetti di fiorire.

 

 

La traduzione della poesia “Corona” di Paul Celan letta da Maddalena Lotter è di Giuseppe Bevilacqua. La musica è di Gustav Mahler. Continua a leggere

Paul Celan & Nelly Sachs

paulcelan_nellysachs
Il 28 aprile 2016 al Laboratorio Formentini (Milano-Brera) alle 19.30 Viviana Nicodemo e Milo De Angelis presentano: “Paul Celan e Nelly Sachs“.

Versi, lettere e brani musicali si alternano in una serata che mette in scena il legame fra i due grandi poeti, Paul Celan e Nelly Sachs, che si sono conosciuti e frequentati negli anni Cinquanta e Sessanta, legati profondamente dalla comune esperienza dell’ esilio e dallo sconfinato amore per la poesia.

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In memoria di te, Paul Celan

paulcelan_ingeborgbachmann

Nella foto: Ingeborg Bachmann e Paul Celan con Reinhard Federmann e Milo Dor durante l’incontro del gruppo 47 a Niendorf nel 1952.

Nota di Luigia Sorrentino

Ho provato a leggere a voce alta “Fuga di morte” di Paul Celan. Ho provato, perché nessuna lettura potrà essere giusta, definitiva, assoluta. Nessuna intonazione o timbro della voce potrà imprimere sulla pelle, a fuoco, il marchio del “nero latte” che fu l’assassinio degli ebrei nei campi di sterminio nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. La verità listata a lutto che il poeta consegna in tedesco, la lingua colta parlata dalla minoranza ebraica rumena, a un ossimoro: il “nero latte” bevuto, e bevuto, la verità angosciosa iterata, più e più volte, il “nero latte” bevuto la sera, al mezzogiorno e al mattino, “lo beviamo di notte” … “scaviamo una tomba nell’aria là non si giace stretti”. Versi drammatici, consegnati, nel 1976 alla traduzione di Moshe Kahn e Marcella Bagnasco, (Arnoldo Mondadori Editore), una traduzione “possibile” questa, della poesia di uno dei poeti più grandi della lirica contemporanea.

Luigia Sorrentino legge “Fuga di morte” di PAUL CELAN , traduzione italiana a cura di Moshe Kahan e Marcella Bagnasco, Mondadori, Milano, 1976.

La musica è del compositore e pianista austriaco, Franz Schubert.

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