Pietro Romano, “Feriti dall’acqua”

Pietro Romano

Luce di dentro, soglia inesausta del passo.
mi vedo oltre il sentore che a ogni varco o stanza,
come guardi, io per voi ancora non sia:
come addentro uno sguardo coagulato
su un corpo che muore.

*

Era il riverbero degli anni
fingere una luce ferma, sequenze
di istanti nel riflesso
di un forse che anneriva le palpebre:
la polvere è sacra.

*

Ha la forma dell’altrove, la voce:
adombra le parole, rendi al fuoco
la vita che ti separa dal canto.

*

Consonanze, figure mute, notti:
tutto si oscura per riavere voce.

Nelle stanze si raccolgono le acque
di uno sguardo vegliante senza casa.

Pietro Romano, “Feriti dall’acqua, peQuod 2022. Continua a leggere

Roberto Carifi, “Nel ferro dei balocchi”

 

 

 

 

NOTA CRITICA DI PIETRO ROMANO

 

Il nesso che unisce gli opposti nell’immagine di un logos che tutto di sé permea è il fulcro tematico dell’opera di Roberto Carifi, Nel ferro dei balocchi (Crocetti, Milano, 2008), in cui si trovano raccolte le poesie scritte in quasi un ventennio, dal 1983 al 2000.

L’infanzia figura come un terreno di indagine sul quale la parola poetica si muove in un’intima solidarietà con il tepore delle immagini che abitano la memoria.

Sin da L’obbedienza, del 1986, il poeta scandaglia il tema della morte come un abisso nel quale scendere per rischiarare una temporalità che si avverte vincolata alle trame di un destino ineludibile. Tale è la percezione attingibile dal testo posto in apertura alla raccolta, che si dà al lettore in una chiave dialogica, quasi Carifi tentasse di ricostruire un dialogo con il fantasma della madre, oramai figura della memoria: «“C’è una luce fortissima, un vento che piega le ginocchia”. /” Dove?” /” Dove non puoi guardare”. / “Dovrò uccidermi, lentamente, come una cosa abbandonata”. / “Non ti capisco”. / “Non parlo più la stessa lingua…non posso”. /” Devo andare”. / “Perché?” / “Qualcuno dà degli ordini… degli ordini inflessibili”. /” Ti aspetterò…” / “È inutile. Hanno sospeso il tempo, c’è una neve che fa tremare, anche qui, in questo campo arato”».

La dicotomia su cui il testo si costruisce avvicina il poeta alla constatazione del confine che separa la vita dalla morte, evidenziando, attraverso le immagini di «una luce fortissima e di un vento che piega le ginocchia», la rapacità di quest’ultima.

Lungi dall’essere espressione di forza rigenerante, la luce appare sempre correlata a una temporalità che, in quanto precaria, incide la vita oggettivandola nella dimensione conoscitiva del dolore: «Quante volte, tra le pagine/ una mano lanciata come un sasso/ negli anni che sono gocce,/ centimetri del tuo sangue/ e la parola adolescente che consumi/ come un cuore inzuppato…/ finché un raggio ferisce tutto/ anche gli attimi invincibili/ e un angelo si solleva,/ con esattezza,/ trafigge la tua domanda/ proprio lì,/ nelle vocali». Rilkianamente, Carifi sembra fare riferimento all’angelo come figura che specchia in sé la vita e la morte, e con essi l’effimero che li innerva, senza però mai redimerlo davvero.

Questa ricerca tematica su un’idea di origine che guida il poeta verso il canto si esprime mediante rappresentazioni pervase da un unico gelo, collocando le visioni in uno stato incerto tra il sonno e la veglia: «Pregano, adesso, in una sfera luminosa/la terra fredda dove l’inesistenza sarà guardata/ tra le stelle filanti e un fratello buono…/ compie due anni la tua infanzia,/ i primi passi nel gelo, quando ti meravigli/ davanti alle rovine e un silenzio benedetto/ protegge la tua gioia…/ forse ti amano, anche lì, nell’occhiata fragile dei morti/ e una mano invincibile ti indica la casa,/ un lumicino accanto al tuo ritratto/ e piangeresti se il tempo non fosse arato/ da un amore più forte, l’obbedienza ad un inverno/ dove di nuovo corri e ti sbucci le ginocchia/ con quel balocco arrugginito, e ridi». Continua a leggere

Paul Celan, “Di soglia in soglia”

NOTA DI PIETRO ROMANO

Il senso della soglia come condizione liminare che soddisfa il ricongiungimento con un’idea di origine trova nella poesia di Paul Celan il massimo della sua rappresentazione. In particolare, la raccolta di 47 poesie del 1955, Von Schwelle zu Schwelle, in Italia riproposta nella traduzione einaudiana dal titolo Di soglia in soglia a cura di Giuseppe Bevilacqua, sottolinea il bisogno di riallacciarsi alla «soglia non rimossa», al di là della quale tutto ciò che ha preso congedo dall’esistenza possa vedersi riunito.

Tuttavia, per capire la pregnanza di cui l’immagine della soglia appare intrisa, occorre rifarsi alla vita del poeta il quale, perduti i familiari nei lager nazisti, si trova a dovere cercare nella parola un luogo che faccia propriamente «casa» e colmi così lo sradicamento che lo accompagna.

Infatti, come nota Bevilacqua, se si tiene conto delle origini ebraiche del poeta, appare doveroso segnalare la cifra simbolica che, nella tradizione giudaica, assume la soglia in quanto luogo iniziatico dei valori familiari. L’uso sineddotico di tale immagine, nella quale peraltro paiono condensarsi due componenti fra loro strettamente correlate, ovvero il ricordo e la lingua materna, non toglie però valore alla soglia in quanto spazio pregno di evento, oltre il quale si staglia la dimensione del possibile: al contrario, i due significati si trovano compenetrati all’interno di una visione che, a cominciare dalla dedica nuziale all’amata Gisèle de Lestrange, intende il travalicamento come una vera e propria esperienza di apertura cosmologica. Le scelte cromatiche che tinteggiano le atmosfere del primo ciclo di Von Schwelle zu Schwelle suggeriscono l’ingresso dell’io all’interno di un percorso iniziatico chiamato a prospettargli la visione di due soglie e il legame che le sottende al fine di rivelare una realtà inafferrabile e comunque in continua metamorfosi. Al lucore del bianco e ai rossori serali si contrappone sempre lo spazio della notte, che è luogo dell’ombra e dei sommersi e come tale dimensione percepita temporalmente eterna.

È l’incrocio fra due mondi in costante comunicazione a fare della parola poetica l’unico canale percorribile tra la vita e la morte: Celan se ne serve per assistere alla propria immersione nel «mondo pietrificato dei sommersi» e a un tempo consacrare l’esperienza del passaggio, la vita nuova:

Sentii dire che nell’acqua
vi era una pietra ed un cerchio
e sopra l’acqua una parola
che dispone il cerchio attorno alla pietra.

Vidi il mio pioppo calare nell’acqua,
ne vidi il braccio tastar giù nel profondo,
e, protese al cielo, le radici ad implorar notte.

Io non gli tenni dietro,
soltanto colsi da terra quella briciola,
che ha del tuo occhio la nobile forma,
dal collo ti tolsi la collana dei motti
e ne orlai la tavola, ove adesso stava la briciola.

Ed il pioppo sparì alla mia vista

Ogni immagine in questo componimento assurge a simbolizzazione del possibile: l’acqua, in quanto colma di significato liminare e situata a metà tra la vita e la morte; la pietra, come ombra di un passato non ancora dissolto, e il cerchio che la parola dispone intorno a essa; il pioppo, le cui radici capovolte in direzione del cielo implorano notte. Sono tutte figure attinenti a un’idea di origine, cui l’io accede sprofondando entro di sé e riconoscendone la sacralità che le abita.

L’inabissamento acquista i connotati di una vera e propria tentazione cui il poeta alla fine decide di non cedere abbracciando il preludio a una soglia nuova, che si invera nella vita: «io non gli tenni dietro, / soltanto colsi da terra quella briciola, / che ha del tuo occhio la nobile forma, / dal collo ti tolsi la collana dei motti /e ne orlai la tavola, ove adesso stava la briciola». Peraltro, l’immagine del pioppo come figura simbolo di un sé scisso ancorato al passato ricorre anche in componimenti presenti nelle sezioni successive, come in Campi: Continua a leggere