Marco Bini. “New Jersey”

Marco Bini, foto di proprietà dell’autore

New Jersey di Marco Bini – Note a margine
di Federico Carrera

 

«Il vero simbolo della provincia è essere incapace di narrare la propria storia». Il New Jersey di Marco Bini (Interno Poesia, 2020) si apre con queste parole, intense ma fulminanti, del fotografo Luigi Ghirri. Dico fulminanti proprio perché, poste in esergo a questa raccolta di poesia, sembrano guadagnare un nuovo significato, ancora più autentico – se possibile – dell’originario. Sono parole messe al posto giusto. E Marco Bini lo sa. Perché nella sua poesia non è dato l’evento casuale, incastrato fuori posto: tutto è ben dosato, a partire dalla costruzione di versi piani, mimesi di un discorso disteso, capace di far convivere affondi narrativi con picchi del più alto lirismo, il tutto in un tono da quotidianità dimessa, ma non degradata. Fino ad arrivare a una struttura solida, che rende il dipanarsi dei testi di poesia quasi un percorso ben guidato all’interno di una storia che lentamente è in grado di avvolgere il lettore, come fosse una narrazione. Ma è invece una poesia capace di rivelare, in pillole, una saggezza autentica e profonda, che ricorda quella di alcuni poeti antichi, come Orazio.

Gli oggetti, nella provincia che è teatro di questo New Jersey, assumono sempre un significato emblematico. Così i cartelli stradali diventano «costole» che «spalancano al cuore spazio per pulsare», l’«ossigeno» dell’ora del tramonto è «notte» che sparisce velocemente, «la torre dell’Unipol» di Bologna è «Rothko, Gramsci, Montale tutti assieme», e via dicendo. Ma gli oggetti sono emblemi che possono solo apparentemente mediare un rapporto di profonda incomunicabilità tra l’io e le cose del mondo. In effetti, il tema che domina la raccolta – e sul quale la raccolta stessa si fonda – sembra essere quello della distanza. Una distanza che può venire proiettata geograficamente, temporalmente o anche astrattamente. È lo iato che s’instaura inevitabilmente tra gli oggetti e l’io, che ne marca i confini, ne sottolinea le differenze. È il senso di vuoto che permea l’umano e lo rende in qualche modo diverso, forse completo. Ecco che appare limpido il senso delle parole di Ghirri: la provincia è lo stato esistenziale in cui si trova l’uomo, in rapporto di costante vicinanza-e-lontananza dalle cose. E il New Jersey diventa, in questo gioco di metafore, uno stato esistenziale prima ancora che uno Stato geografico e fisico: è la provincia per antonomasia, il luogo dal quale si osservano accadere le cose ‘che contano’, da cui si può ammirare una fucina di luce e di vita come quella di una altrettanto esistenziale Manhattan («il centro dove agglomerarsi / nel nucleo vulcanico dove fabbricano la luce»).

Il libro è costruito così intorno a un tema originale, mentre viene in qualche modo evitato, ma con grazia, il confronto diretto con le grandi soglie della tradizione poetica occidentale, vale a dire Amore e Morte: eppure non si potrebbe dire che, in qualche modo, i testi di questa raccolta non abbiano a che fare anche con esse. È l’approccio di una penna sensibile sia sul piano umano sia sul piano letterario, che non vuole banalmente ripetere alcuni motivi, ma, se possibile, aggiungere qualcosa agli stessi. Continua a leggere

Barbara Herzog, da “Nada más”

Barbara Herzog

Vuoi suggere
da ogni risposta
una goccia di anima
per assaporarla
abbracciarla
solo per questo
cavi sapere
da un sasso
e sì, per la tua voce
che bacia come
il vento gli steli d’erba

***

Quando intuisci
a poche sillabe
assurgi ciascuna
perché non puoi toccare
per colmare l’urgenza
ogni gemito accarezzato
nell’aria
non fa che acuire
la carnalità
del bisogno

***

Inutile arrovellamento
le risposte non sgorgano
da quel ruscello limpido
frastornante fino a
poco fa

ruvido palpare
per comprendere
dov’è finita la piena
sgorgano

***

Sublimare
è la parola d’ordine
dei decreti che
giocano al salto della corda

fortunata
colgo l’ispirazione
nell’inflessione delle parole
e costruisco

castelli sulle nuvole
se no
la mia pelle
sarebbe già avvizzita

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Le poesie d’amore di Beatrice Zerbini

Domani è domani,
lo saprebbe tua madre,
lo sa ancora tuo padre.

Non si può nominare,
sfoltisce i calendari
di giorni in anni, tarda
a non essere più.

Qui si possono accendere
le candeline,

però tu non le spegni;
dappertutto è un incendio
tu sei tutta una cenere.

È un verso settenario
il ventinove maggio.

***

A volte sei solo una testa bionda,
un trench,
un cappotto di cammello,
spazzolato come non avessi
accarezzato i gatti;
a volte attraversi
e sei un baleno,
un’incrinatura dello spazio;
e spicchi nel grigio,
con i capelli,
fra i mortali.
E mentre trasalisco
e mi sporgo,
come un inciampo,
verso di te,
per chiamarti – e
devo fare presto,
prima tu sparisca,
dietro gli angoli,
come un vapore –,
mi ricordo
quel giorno
che ho bevuto Veuve Clicquot,
e l’ho sparso poi
sulla tua terra
ancora mossa e tenera.
Allora abbasso gli occhi
e la mano. Continua a leggere

Nuno Júdice, verità della poesia e poesia della verità

Nuno Júdice, per gentile concessione

Sulla poesia di Nuno Júdice
di Marco Bruno

C’è, nella poesia di Nuno Júdice, qualcosa che non c’è: c’è il non esserci di una caratteristica, una dote, una maledizione: l’ironia. L’ironia è quasi totalmente assente dalla poesia di questo grandissimo poeta portoghese, e anche quando c’è, è dolce, non è mai maligna, come se il poeta trascendesse, in questi momenti di altissimo lirismo e pensiero, la scherzosità – racchiudendola in sé, in modo giocoso e velato – e la meschinità comune del quotidiano. Júdice è poeta vero e sincero, che non finge una moralità, ma, per dirla montalianamente, fa del proprio meglio. E il risultato è sublime.

Ma ciò è dire ancora poco; con rispetto, ammirazione, venerazione ci accostiamo a questi versi, la cui complessità è spesso vertiginosa. Abbiamo scelto, traducendole, cinque poesie da uno dei libri più belli di Júdice, Guia de conceitos básicos (2010), ancora inedito in Italia. Il lirismo, leopardianamente, non vive alcun conflitto col pensiero, anzi scaturisce da esso.

È la ricerca della verità della poesia, che va a braccetto con la poesia della verità. L’universalità. Il paradosso, che sembra negare la possibilità della convivenza, in realtà, e proprio per contraddizione, la afferma. Essendo un paradosso, è ciò che non è, e in questo non c’è alcuna contraddizione, perché la poesia è un linguaggio trasfigurato, dove, e anche o soprattutto in Júdice fra gli altri, la parola deve, con semplicità (altro paradosso, apparentemente), dire, pronunciare, incarnare la bellezza della vita, bellezza gioiosa e dolorosa, sempre e ancora aquém (al di qua) della joie proustiana, bellezza pessoana, dove ciò che è bello e positivo lo è sempre in controluce, nella nostalgia, perché “non si percepisce mai la vita / così forte come nella sua perdita” (Mario Luzi, Quanta vita, vv. 24-25).

La bellezza della scrittura, allora, riscatto della pochezza umana quotidiana, non è bellezza formale, wildiana, mortale, ma è estetica vera, non proustianamente gioiosa, bensì malinconica, ma pura e, direi, persino disinteressata, arte dell’immortalamento delle briciole di vita, quelle briciole grandiose che dànno senso a un’esistenza intera. La vita, quella poesia che tutti possiamo vivere quotidianamente, si ferma e si esprime nelle poesie di Júdice, poesie voce di un rammarico per qualcosa che estasia, folgora e non si ferma.

Júdice trae linfa dalla propria capacità di pensare: ma è un pensiero non arido, non puramente intellettuale o logico, bensì vivente degli attimi della poesia. Lo sviluppo è sviluppo solo perché c’è la poesia, quell’essenza accaparrata da Croce (che rifà Leopardi negandolo), negata dalla scuola materialista, ma inalienabile. La poesia è la capacità di Júdice, o meglio del soggetto, del personaggio di Júdice, di pensare, di vivere, di non vivere. La condizione è la stessa del Montale delle Conclusioni provvisorie; ma il paesaggio è già quello di Satura. Pessoa, sì, ma in una dimensione più costruttiva, anzi, forse sarebbe il caso di dire, strutturale o strutturalista. E Blanchot, la riflessione geniale, sublime, sull’ontologia della poesia e della letteratura, la lezione benjaminiana, la libertà spregiudicata dell’approccio alla parola e alla storia, la poesia come saggio, il saggio come poesia. “Lo sguardo di Orfeo”: Blanchot, appunto, la densità vertiginosa del pensiero, che, come in Júdice, dolcissimamente non lascia scampo. Attenzione anche al gioco di Júdice col linguaggio, con la ripetizione, con l’architettura razionale e combinatoria, ma mai arida, sempre lirica. Ed è nell’ultima di queste liriche selezionate che si vede, si porge il gioco catartico: Júdice affronta il proprio dèmone o demonio.

“Episodio di caffè”. La morte è la letteratura, ma solo la letteratura salva dalla morte. Non c’è la gioia, ma c’è comunque Proust, e l’apparentemente negativo Pessoa.

Il poeta è inseguito da Euridice come dalla morte stessa, e solo se inverte il movimento della macchina da presa, fuggendo in avanti anziché all’indietro, e scegliendo lo stratagemma, l’astuzia del congelamento del tempo – la parola, qui sotto forma di “mi fermai” – per farsi precedere dalla negazione di sé (il desiderio di rivedere la donna, di rivedere se stesso, di morire, di diventare immortale, perché dà un nome), solo guardandola in faccia, e stabilendo se la morte è una metafora o meno, se lui è un poeta o meno, scegliendo fra la vita e la poesia, ma soltanto nell’affrontare la morte salvando entrambe; soltanto ingannando la propria paura della morte – interrogando il fantasma proprio tacendo, dandogli la parola, per poi sopravvivere in una domanda pilatiana che salva tutta la verità (e la vita) proprio perché non la nomina – può rovesciare la dannazione di guardare Euridice – la morte di Euridice – sempre dalla contraddizione di chi sta avanti senza voler camminare, procedere, vivere, scrivere. Solo uccidendo Euridice – salvandola per sempre, lasciandosi precedere da lei senza sapere chi ella sia – il poeta che forse non è più moderno ma contemporaneo (e cosa significa?) cioè classico, solo così questo poeta può, nell’enigma, salvare la verità, quella della poesia, cioè della vita.

Cracovia, 19 ottobre 2021

da Guia de conceitos básicos [Guida di concetti basici], Publicações Dom Quixote, Lisboa 2010

UMA REFLEXÃO SOBRE A BELEZA ETERNA, INTERROMPIDA PELA VISÃO DO EFÉMERO

A harmonia que, para os clássicos, exprimia a relação
das partes com o todo, atravessou os milénios sem alterar
o equilíbrio do homem no centro da sua esfera. Esse
homem, com a sua representação simétrica, define-se
a partir de um universo que tem um limite
na compreensão divina da matéria
e do espírito. E poderia continuar assim, se
não ouvisse um copo a partir-se no fundo
da casa – alguém que se distraiu, e que rompeu,
de súbito, o meu raciocínio. Ao mesmo tempo,
porém, descobri que nada do que eu pensava
era original; e só ao apanhar do chão os vidros
partidos, um brilho breve no seu contacto com
a luz me fez pensar que, afinal, a harmonia
também nasce da destruição, e o centro da esfera
desloca-se para o fragmento que seguro com
os dedos, antes de o deitar para o lixo.

UNA RIFLESSIONE SUL BELLO ETERNO,INTERROTTA DALLA VISIONE DELL’EFFIMERO

L’armonia che, per i classici, esprimeva il rapporto
delle parti con il tutto, ha attraversato i millenni senza alterare
l’equilibrio dell’uomo nel centro della sua sfera. Codesto
uomo, con la sua rappresentazione simmetrica, si definisce
a partire da un universo che ha un limite
nella comprensione divina della materia
e dello spirito. E potrei continuare così, se
non udissi rompersi un bicchiere in fondo
alla casa – qualcuno che si è distratto, e che ha rotto,
di colpo, il mio ragionamento. Al tempo stesso,
però, ho scoperto che nulla di ciò che io pensavo
era originale; e soltanto prendendo dal pavimento i vetri
rotti, un luccichio breve nel loro contatto con
la luce mi ha fatto pensare che, in fin dei conti, anche
l’armonia nasce dalla distruzione, e il centro della sfera
si sposta nel frammento che mantengo con
le dita, prima di gettarlo nella spazzatura. Continua a leggere

Zanzotto, il poeta del terzo millennio

Andrea Zanzotto

ANDREA ZANZOTTO: LE ESTREME TRACCE DEL SUBLIME

DI CHIARA FATTORINI

L’imminenza del centenario della nascita di Andrea Zanzotto è un tempo prezioso, che ci permette di vedere in una luce nuova e più viva l’importanza di questo poeta nel panorama della letteratura europea del secondo Novecento e di inizio millennio. La fecondità di questo tempo è testimoniata dal lavoro di alcuni studiosi, che hanno sentito questa ricorrenza come l’occasione propizia per una ricerca unitaria sull’ultima produzione del poeta – quella iniziata con Meteo (1996), proseguita con Sovrimpressioni (2001) e culminata nell’“exit opus” Conglomerati (2009). Alla base di questo progetto c’è innanzitutto l’idea che di questi ultimi libri, per ragioni cronologiche, molto sia ancora da indagare, analizzare e comprendere. Come scrive nell’Introduzione il curatore del volume, Alberto Russo Previtali, in quest’ultima fase Zanzotto non solo ha confermato e approfondito “le conquiste conoscitive più mature della sua poesia”, ma è andato anche oltre, “spingendo il proprio dire dentro le tensioni e le dinamiche profonde degli albori del millennio, in un superamento interno della propria posizione di soggetto e di poeta”.

L’anniversario è quindi l’occasione “per tornare ai testi con un nuovo sguardo, con nuove domande e con nuove esigenze”, per dialogare con Zanzotto, per interrogarlo sui problemi di oggi a dieci anni dalla sua scomparsa, per cercare di capire i modi della sua presenza nella contemporaneità. Così è nata la monografia collettiva intitolata Le estreme tracce del sublime. Studi sull’ultimo Zanzotto, in cui otto studiosi riconosciuti della critica zanzottiana si confrontano con “il carattere estremo, in tutti i sensi del termine’ della fase finale dell’itinerario del poeta di Pieve di Soligo.

Le voci che si susseguono in questa monografia si addentrano negli aspetti più importanti della seconda “pseudo-trilogia” zanzottiana (che viene dopo quella rappresentata da Il Galateo in bosco, Fosfeni e Idioma), per capire ciò che questa poesia estrema può dirci riguardo alle grandi problematiche del XXI secolo, dal cambiamento climatico alla distruzione del paesaggio. La visione privilegiata di Zanzotto, testimone dei grandi cambiamenti avvenuti tra i due secoli, gli ha permesso, infatti, di avere una prospettiva lungimirante sulla condizione dell’uomo contemporaneo, e di assistere – come dice Russo Previtali – “alla perdita sempre più radicale, per il soggetto, della possibilità di orientare il proprio essere nel mondo attraverso la fascinazione erotica e il sentimento del sublime”.

La monografia è suddivisa idealmente in due parti: nella prima troviamo dei saggi panoramici, che presentano le grandi tematiche della pseudo-trilogia in maniera trasversale, mentre nella seconda si passa alla lettura e all’analisi delle singole opere. I saggi di questa seconda parte prendono spesso le mosse dall’approfondimento di concetti-figure e di linee guida presentati nei saggi della prima. Continua a leggere

Luca Pizzolitto, poesie

Luca Pizzolitto

Nell’avanzo di parole
su cieli colmi di rabbia,
qui dove piove piano
e rinfresca la sera

cedi al vuoto, al niente,
il dono austero delle labbra.

Nell’ostinato silenzio di Dio,
nel tuo sguardo breve
di madre trova riposo
ogni mia lontananza.

***

L’azzurro del cielo
strappa e cade
nel dolore silenzioso
della sera.

Chiamare casa solo
la luce ferma del mattino,
l’aria di settembre
che si posa sul viso,
questo mio sconfinato esilio.

***

Luce lasciata e tersa
dei primi giorni di dicembre,
misericordia del vento sul
tuo viso gentile, tagliato dal freddo.

È il riverbero ostinato del vuoto,
è un peso greve sul cuore;
neve che accende e poi placa
l’inciampo della sera.

Andare in pezzi, fiorire un mattino.

***

È il cadere atroce della bellezza
tra la fame e il rantolo della ragione
non è muta la polvere

questo silenzio tra i nostri corpi,
l’inganno fragile delle mani.

****

Giorni si perdono nello spazio
sacro del ricordo, i nostri
volti illesi, trattenuti al pianto.

Guardo la neve cadere:
resta la cenere sul lavandino,
l’impronta confusa delle tue mani.

Splende di un disperato
splendore la vita. Continua a leggere

La nuova poesia italiana

Poesia contemporanea. Quindicesimo quaderno italiano, Marcos y Marcos

Dario Bertini, Interno 3

La finestra rimane sempre aperta: l’istinto naturale
sarebbe di saltare o mettersi a pulirla:
se c’è neve è meglio
dare un nome alla paura, lasciare che qualcuno
provi ancora ad amarci: lei lo sapeva bene,
per questo ha messo Bach sotto la doccia –
l’acqua bollente riempie il bagno di vapore,
appanna i vetri: verso le quattro del pomeriggio
un merlo taglia l’aria, si posa sul terrazzo,
(il becco giallo, gli occhi come spilli): lei
qui si toglie la maglietta, la schiena
è bianca come un cielo polare; scrive col dito
sullo specchio una parola che scomparirà

*

Simone Burratti, Con il tempo i computer si stancano

Con il tempo i computer si stancano,
rallentano, la batteria interna
perde energia per il surriscaldamento.
Diventano più sporchi, meno
Maneggevoli, si convincono
che la sfiducia totale nei calcoli
sia una diversa forma di sapienza.
Analizzare il futuro li spaventa
come una volta li rendeva forti.
Con il tempo, con i modelli nuovi,
la sostituzione diventa necessaria;
e allora i loro dati si disperdono
tra foto e file word nelle cartelle
minuscole dei loro successori.

*

Linda Del Sarto, Il ricordo impazzisce

Il ricordo impazzisce.
Ci sono odori che
entrano dentro, smuovono
pianti e stringono
a tradimento il collo.
Ammaccano l’armonia dei visi.
Quel bacio, per esempio: elettrolisi
del mio danno
cerebrale – dal tatto al non
contatto tra sinapsi. È normale.
Perché non fu tanto l’arte
del rimbambire, una catarsi
quanto l’instupidire
per il troppo amarsi.

*

Emanuele Franceschetti, (Introitus)

La memoria coltiva la sua lingua.
Dal fondo si riversa un sillabario,
cose insepolte che ancora significano
dietro la soglia incerta del visibile.
C’è un nome che non puoi dimenticare:
i vivi e i morti restano indivisi
nell’equivoco del tempo lineare.
La vita si contamina, persiste.

*

Matteo Meloni, Seytes

Diventeranno pietraie le Alpi,
cambieranno colore.

Nell’aria secca volava un astore
e sulle alture guardingo
rastrellava le forre.

Verranno i segugi troveranno
il nascondiglio, una lingua
di neve tra le spire del ferro,
il grigio fumoso.

*

Francesco Ottonello, se vuoi provare a entrare

se vuoi provare a entrare
qui devi avere un motivo. trovalo
se sei ancora qui questo è l’unico
che conosci per comunicare

non parlo con nessuno. ti chiedi chi sei
è la domanda a essere sbagliata

ora immagina di sdraiarti. censura dimentica
ciò che hai letto sopra non era sopra. non c’è niente
vedi non c’è più niente. ora sei con me. come me. ora
ti ho convinto. è vero. forse. ti controllo
a quel forse ti aggrappi. ti tendo
vedo che vieni

*

Sara Sermini, Cardus

L’aria era irsuta e ispida
come i cardi che raccogliemmo.

Sotto la luna, vicino al cavalcavia,
i sacchi abbandonati dell’immondizia
erano cuscini colorati.

Vicino alla luna, tra le ortiche e il fango,
bisognava soltanto badare ad amare.

Poesia contemporanea. Quindicesimo quaderno italiano, Marcos y Marcos

Poesia contemporanea. Quindicesimo quaderno italiano, a cura di Franco Buffoni, prefazioni di Antonella Anedda, Andrea De Alberti, Massimo Gezzi, Paolo Giovannetti, Franca Mancinelli, Guido Mazzoni, Fabio Pusterla, Marcos y Marcos 2021.

Alfonso Guida, da “Conversari”

Alfonso Guida

Notti gelide. Albe mute.
La breve confessione dell’oscurità, una pietra.
L’istante mostrato. La parola avanza: uomo, arc-en-ciel.
Il fumo si raduna intorno al tavolo. Che mi ripete a un’idea non veritiera di lutto. Accucciato nel nome. Il gelo. L’urgenza. Le ombrelle scurite del sambuco. Ai piedi un disordine bianco, lo spigolo, dei fotogrammi. Nel dettaglio di un eccidio, ha i sassi della tregua.

***

Qui, a novembre. Nel tuo volto gelato.
Nel colmo di un’estate. Il muratore
cerca la prima fonte, tra le grida.
Varcavo la durezza
dell’erba. Il tuo sguardo si è fatto opaco.
Trema una luce. L’infanzia sfregiata.
La stagione che vedo
nei tuoi occhi ha dispensato
una disputa di corvi, un giocarsi
l’autunno e l’inverno. Anche l’ombra pesa.

***

È crudele quest’autunno
perché allunga le agonie e tarda il sonno.
E sale dal muro l’odore viola
di vernaccia e il guizzo di un controluce
come fosse Pasqua e si festeggiassero
le capanne. I passeri beccano briciole.
I primi colori di ottobre sono
di un Corot che annuncia burrasca. Per noi
si tratta di passaggi
nel pensiero e nel sottostante. Lasci
che il muro sia il taglio e io il maestro di bricolage,
la civetta sapiente
di Minerva, il resto lo decide il porco mutare
dell’aria all’equinozio. C’è chi tace
restando inascoltato. Perché trovate ineducato
aprire la porta di un paese sconosciuto e sedersi
a mangiare con l’estraneo?

Alfonso Guida, tre poesie da Conversari (round midnight edizioni, 2021)

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Marco Amore, da “Farragine”

Marco Amore

FARRAGINE

whisky che gronda, come colla istantanea o ambra da un fusto accoltellato, risali la mia gola impavido, come Enea dall’Ade

nasturzi immortali di brandy, grappa, armagnac, vesou, cognac, rum, cachaça, thibarine, slivoviz, malibù in un cocktail esotico

che io comprenda l’avestico, se occorre
la mia anima quale triste, mistica parola interpreta?

s’inauguri il viaggio: bastimenti, ahi! I Nettunalia son compiuti. Che meravigliose polene…

un sorso ed è fatta; sono nel fiore degli anni Tin Tin, fa il bicchierino di gin…

***

CIN CIN

quanti oboli ho pagato al traghettatore? tuttavia si è rifiutato di recapitarmi sulle opposte, cupe rive dell’Acheronte. Pertanto mi bagnai nel gange. DIVIETO DI BALNEAZIONE nei profluvi orientali. Ma se sono di aromatico vino da esportazione…

torrenti, fiumi, greti e canali impregnati dal vino delle messe. E ne sono ebbro

lo Stige fluiva dai suoi occhi, ma fu l’oblio del Lete dei suoi seni a condannarmi. Nell’incavatura tra le cosce | come un fiume questuante d’acque terrestri, che scorre nella rigogliosa valle dell’Eden

lo sfolgorate nome era Shakti , e Shakti era Kali, e Kali era durga, e durga era Shiva

l’intimità della donna era Iblis e Yama e ganesha e Nezha e le sue dita pudiche erano Inari, Raijin, Baldr, Vali,

Malsumis, Wawalag, Borr e Bomazi la sua favella era Bragi e intendeva ogni lingua e ogni

lingua dei segni del mondo mia amata

 

*

penzola l’arto dalla pacifica branda. Ho il cuore all’inferno e il corpo disteso sulla lana. Il Lete rimbomba tra le sue pallide forme cedevoli? Vellutati? sprimacciati cuscini su cui riposa il corpo di un altro|, e l’Acheronte e il Cocito tra quegli occhi arrossati. La mia donna non è mia. La mia donna è su internet

un buon condottiero non è bellicoso, Lao tzu? un buon combattente non è iracondo? Allora son degno dell’aggettivo «pessimo», perché contesi e fui iracondo, istupidito da un’effimera attrazione. Milton, narra del mio paradiso perduto

la dizione che ti ha concesso Natura servirà il mio scopo o marcirà con la torba che ingombra le fauci del tuo sonno

basta ammennicoli: parole e parole e parole ma tutti puntate indici a casaccio

i tre giorni sono trascorsi, ma giaccio ancora, inerme, nel gelido sepolcro

è la mia bucolica branda… il mio sepolcro… la mia coscienza

 

VARI∃AZIONI

IL FESTIVAL

A Rotondi, in provincia di Avellino, dal 27 al 29 agosto si terrà la prima edizione di Vari∃Azioni, iniziativa promossa dall’amministrazione comunale di Rotondi e dal sindaco, Antonio Russo, in collaborazione con la cooperativa Altre Voci e la Samuele Editore e con il patrocinio dell’Accademia Mondiale della Poesia e della Fondazione Greco Morra per l’Arte Contemporanea.

Direzione artistica: Marco Amore
Editore e Direttore della Sezione poesia: Alessandro Canzian

GRAPHEIN

Parola e Immagine hanno una radice comune, non a caso i greci adoperavano il verbo graphein per indicare lo scrivere e il dipingere. Analogia che diviene ancor più evidente quando parliamo del legame tra le arti figurative e la poesia. Come recita una famosa espressione di Orazio: ut pictura poesis (come nella pittura così nella poesia). Frase che potrebbe essere assimilata all’imperativo categorico della narrativa moderna: show, don’t tell  (mostra, non dire).

 

La manifestazione culturale indaga il rapporto tra linguaggio poetico e visivo, con particolare attenzione alle ricerche di stampo interdisciplinare. Un momento di confronto cui hanno aderito alcuni dei maggiori poeti e artisti contemporanei, nato dalla volontà di contaminare il tessuto sociale e urbano del comune di Rotondi attraverso conferenze, reading di poesia, esposizioni, proiezioni di video tematici, interventi performativi e installazioni site-specific.

Alcuni protagonisti del Festival:

Un importante lavoro di squadra che abbraccia l’intero territorio rotondese, la sua storia, gli abitanti e le tradizioni, alla luce di un festival che vede Rotondi farsi protagonista del panorama artistico nazionale e internazionale, grazie all’adesione di nomi di altissimo livello. Tutto parte dalla necessità di rispondere a un bisogno culturale che diviene sempre più pressante all’interno del nostro paese e che riguarda non solo l’arte contemporanea, di cui Rotondi rappresenta una tappa fondamentale per gli operatori di settore, ma anche la poesia e più in generale le arti creative. Proseguiamo nella profonda e radicata convinzione che sia il linguaggio dell’Arte e della Poesia la chiave di volta e di interpretazione del mondo. Di tutti i mondi. Anche di quelli apparentemente lontanissimi tra loro”.

Antonio Russo
Sindaco del Comune di Rotondi

Da anni il Comune di Rotondi vede l’arte contemporanea come lo strumento più idoneo a raccontare la storia, le tradizioni, il folklore e le produzioni locali; a costruire un vero e proprio marchio del luogo. Le numerose rassegne dedicate agli artisti di via Varco a partire dal 2014 ne sono una chiara testimonianza. È con questa consapevolezza che intendiamo lavorare sul territorio rotondese dando vita a forme di narrazione visiva in grado di raccontare al mondo la nostra storia e la nostra cultura: un’idea strategica di sviluppo a lungo termine che ambisce a utilizzare l’arte come mediatore tra il paese, i suoi abitanti e i visitatori, seguendo il principio di slow art per investire su esperienze di turismo non stagionale”.

Claudio Vittorio
Consigliere delegato e Assessore alla Comunità Montana Partenio-Baianese-Vallo di Lauro

Sentiamo parlare spesso della funzione sociale dell’arte e del suo farsi forma di comunicazione universale: un compito che non può esaurirsi con l’adulterazione dell’opera in mero strumento di denuncia personale legato a rielaborazioni arbitrarie di contingenze storiche, funzione che l’artista svolge in maniera quasi accidentale, ma che investe la parola poetica della responsabilità di un impegno civile indifferibile contro l’illegalità delle life politics e tutte quelle energie negative che operano contro la bellezza che resiste nel mondo”.

Marco Amore
Poeta e Direttore Artistico del Festival

Un momento importante che mette a confronto alcuni dei protagonisti più importanti della poesia italiana contemporanea. Da sempre la nostra nazione e cultura è stata abitazione e trincea di una letteratura altissima e combattuta, che oggi trova diverse critiche per la deriva più o meno consapevole della critica. Dove tutto appare poesia, dove tutto giustifica il palco di Castelporziano che sempre si ricrea nel suo crollo, noi abbiamo cercato la costruzione di un dialogo attraverso le voci e il dibattito. Non solo letture, ma punto di riflessione. Noi con questo Festival vogliamo mettere un punto a una riflessione di cui sentiamo sempre più il bisogno”.

Alessandro Canzian
Editore e Direttore della Sezione Poesia Continua a leggere

Antonio Bux, “La diga ombra”

Antonio Bux

Povero vento, che a raccordo
chiami le ossa di persone
mai sole… le senti di polvere
e parole come di forza
frangere la vita dove il soffio
tuo sposta soltanto
una eco mai chiara per loro;
un po’ d’eterno, a vole misero,
ma costante, sentirebbero davvero
se in quelle onde annegasse
chiaro il tuo corpo, di vento che voli…
Nascerebbero amori… o destini!
Ma più scemi, nemmeno sanno
di volare con te, né un fianco
smisurato a parte spingerebbe
a volarvi dentro per vederli simili…
Proprio non ce la fanno, e poveri
del tuo vento dimenticano
il corpo così morto, aperto solo
alla carne, ne fanno un rito d’addio.
Di Dio questo loro volere senza volare mai
o tenersi per mano, il consumo
alato di starsene fermi
e tu povero vento che li perdoni frusci
due parole nell’eco, vi sento, vi amo
come l’aria che non sono io vi tengo
per mano ma vi ve ne andate
il mistero non vi interessa.

***

Perché dire un suono. Una figura
non muta al suo risveglio, germina
lontano il geroglifico se parla,
ed è la stessa lingua di vedere
a malapena, sbirciando un prato
l’ombra dove la parola chiama.
Ma un prato, qui, perché dirlo?
Avvolto come in sogno, aprirebbe
al chiaroscuro di ciò che sotto
tende, saprebbe mostrare all’uomo
la curva senza unire, cielo e terra
e una parola così, già sparita.
Perché venire al mondo, allora,
perché parlare e non veder la traccia?
Esseri segreti di un mistero nuovo
avete fatto del tempo suono
senza più parole, dove un uomo ama
anche il suo silenzio; ma dirlo, qui,
a voce strana, sembrerebbe
poco anche per sentire, perché esistere
è la stessa cosa, figura muta umana
il prato continuerebbe a dire.

 

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Valentina Proietti Muzi, “Il mondo che fa per me”

Valentina Proietti Muzi

PUNTI DI VISTA

Uno sguardo alle ultime cose vive
ci sono insetti creature di vetro
centinaia di corpi ti assalgono
e potrei continuare

ma le ombre calcolano il percorso
ti trovano ovunque
dovresti spostarti più spesso
ottenere distanza
perché anche loro sbiadiscano

allora perché siete tornate?

***

DISTANZE

Mentre c’è chi si allontana
si intuisce
dai frammenti sul confine
che sio può morire a tal punto
e galleggiano gusci
vedi che affiorano.
Come il sangue in acqua
dita sparse tutte intorno
lunghissime e senza approdo

***

FRATTURE

Ma poi sai ho imparato
a portare molti pezzi
molto piccoli
molti pezzi di me
e a ripetere che all’inizio
era tutto prescritto a uso personale
avendo una sola linea anagrafica
da rimarginare

ma poi sai ho trovato
tutto un territorio di arretrati
c’è chi trova la strada spianata
e chi invece infiniti deserti
resti umani sparsi
da generazioni
e pensa nessuno verrà a salvarmi

Da “Il mondo che fa per me” Amos Edizioni, 2020

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Lo sfruttamento degli animali nella poesia di Teodora Mastrototaro

Teodora Mastrototaro

La fissità di una porta rotta
dove avrò da bere.
La nostra razza non resta nelle case
ma in porcili di saliva.
Necrologi senza storia.
In ogni scatola partorisce una madre
interrotta nel rovescio della carne.
Il mio destino è avere fame.
Dove tu coli, madre, non c’è stagione da salvare.
Ingozziamoci di latte per ritornare belli!
Colostro al fianco destro e a sinistra
la famiglia è incatenata.
Il cordone ombelicale rimasto impigliato
tra il pane e la morsa, alla luce la merda
diventa una rosa – simile la forma.
Al capezzale del tuo seno la notte si volge agli steli.

Venite sintesi di cadaveri, venite. Senza bambini
o neonati, venite. Qui ci vendono oltre l’amore
e oltre l’amore le carni e morire.

***

Ancora cosciente mi rivolti vivo nella vasca,
l’acqua bollente rende tenera la morte.
Un paio di minuti è il tempo che ci vuole
per far puzzare il cielo.
Il porco dopo di me non sa nuotare,
gli basterà un secondo per farsi trasformare
nel bianco del carcame scolorito.
Un braccio meccanico mi spinge giù in fondo
nel mare sospeso di rosso.
Il porco ha gli occhi fissi su di me che fremo,
mi opprimo, continuo a calare.
Quando l’inferno non ti brucia più ne fai parte
o non esisti.

***

Quando scarichiamo la carne in macelleria
la sequela delle carcasse sembra un corteo funebre.
La pausa tra la carne e il mondo si è ridotta
e tra il cielo e la macelleria c’è un punto di svolta.
L’operaio più robusto trasporta sulle spalle
la carcassa più pesante come un cristo
crocifisso durante una via crucis rovesciata.
Esposti i corpi nel banco frigo:
Bollo Sanitario, Peso Netto, Specie, Taglio, Lotto.
Nessun animale che sia degno di lutto.

da Legati i maiali (Marco Saya Edizioni 2020) Continua a leggere

Gabriele Borgna, “Manufatti del dissesto”

Gabriele Borgna credits foto Fratelli Bodart

Al bastione del Miradore
è ancora cielo sul falso pepe,
parla un fermo d’aria
che smarca la notte da dentro.

Come in una nassa
a bocca aperta,
fra le maglie delle cose
mi anniento.

Con le parole tratto di una resa.

*

Vivo nel garrito del desiderio,
vento che raschia i caruggi.
La mancanza è un esercizio
per corpi in attrazione,
recalcitranti ma già vinti
al giogo del dissesto.

*

C’è un tracciato che non dirocca
e rimanda a questi portici di calata
smangiati dalla spuma, alle lampare
in ronda, al tocco scardinante.

Ci siamo amati anzitempo
per ridare un nome alle cose,
la gola alla sete, un’espressione
d’assoluto al gesto della mano
che ora s’incurva e rassicura
nel seme di un chiarore primitivo.

*

Restano le conchiglie
come altari ai caduti
di tutte le derive.

L’eco dei muti splende
e tace oltre il male
marchiandoci.

da Manufatti del dissesto, Minerva Edizioni, 2021

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Stefano Bottero, da “Poesie di ieri”

Stefano Bottero, credits photo Dino Ignani

Mi trascina verso il peso delle cose
questa scimmia che ho sulla schiena.
È un lembo di niente
il suo parlare indistinto,
una spina,
il mormorio del traffico.

“o re, il peso si fa spirito,
siamo una costellazione.”

Così nel tenue turbamento della nebbia di Monza
– incanto, incauto, vivo per scommessa
la vita è una sala d’aspetto
e ho perso il momento.

***

Contrappeso della mia solitudine
i miei incubi d’autostrada.
il desiderio di dimenticarti,
domani
di non dimenticarti.

Sei l’intimità della mia dissociazione,

così scivoli dietro di me come la notte
che mi adagia un nastro sulle palpebre
e lo tira da dietro.

***

A DARIO BELLEZZA, POETA

Mi hai letto una sera
come favola della buonanotte
tutti i tuoi dubbi di strano distacco,
di autocommiserazione.

Sei per me il desiderio di un passante,
l‘attesa snervante in una copisteria.
Sei le ciglia perfette di un corpo non tuo
vestito di sbagli, di amanti drogati.

Stinge di vita questa tua insistenza,
sorge ostinata questa tua finzione
egocentrica figlia
della fermata successiva.

vorrei solo cullassi anche la mia
                                 disperazione. Continua a leggere

Il dono, Roberto Carifi

La raccolta di inediti e nuovi componimenti di Roberto Carifi giunge oggi come un dono di raccoglimento di fronte all’esperienza globale dell’incertezza e della perdita. Carifi traccia ora, in contrappunto magistrale, i paesaggi della fiducia e della mitezza quando “la malattia si arrende” alla “parola esatta”, al dire sublime che si spoglia e che perdona.

ESTRATTI

Dopo Auschiwitz nessuno abita più
le ceneri dei comignoli
dei pochi ebrei a righe,
la memoria agisce nel buio,
e non è casa la casa di nessuno

***

La povertà è un miracolo
di queste sciarpe rosse,
la malattia si arrende
quando la ringraziamo
con la rovina dichiarata a bassa voce
mentre codesta lingua non è più straniera
e morte, nel mio tedesco, è una preghiera.

***

L’amore è stato ospite qui
dove colsi un variopinto fiore
che resistette alla guerra
riposarono qui le parole
quella che fu appena pronunciata
senza perché è un filo d’erba.

***

Perché non siete i guardiani del cielo,
perché non lasciate apparire la terra?
Ai rapaci che sorvolano il nord,
che vanno verso sud
con la preda feroce
riemergono con le facce da vivi.

_____

Roberto Carifi (Pistoia 1948) è riconosciuto come uno dei maggiori autori contemporanei per l’originalità e per la vastità della sua opera poetica, per i raffinati scritti filosofici e per le traduzioni di Rilke, Trakl, Bataille, Flaubert, Weil per citare soltanto le più note.

Ha pubblicato numerose raccolte di poesia tra cui Obbedienza (Crocetti, 1986), Amore d’autunno (Guanda, 1998), Madre (Le Lettere, 2011), Il gelo e la luce (Raffaelli, 2015) e Amorosa sempre (La nave di Teseo, 2018).

Con AnimaMundi ha  pubblicato Ablativo assoluto (2021) nella collana di poesia “cantus firmus”.

Michael Schmidt, The Stories of My Life

 

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Anteprime, Contemporary Mexican Poetry, Poesia messicana contemporanea


E’ in  uscita per le Edizioni Kolibris, Michael Schmidt, da: The Stories of My Life, Smith / Doorstop  2013,  Edizione Bilingue, Traduzione di Chiara De Luca.
Breve biobliografia di Michael Schmidt
E’ nato in Messico nel 1947. Ha studiato al Wadham College di Oxford. È Professore di Poesia alla Glasgow University, dove è Responsabile del Programma di Scrittura Creativa. Nel 1969 è unodei fondatori della casa editrice Carcanet Press Limited, di cui è direttore editoriale. Nel 1972 ha fondato la “PN Review”, una delle più importanti e autorevoli riviste letterarie nel panorama della letteratura di lingua inglese. Poeta, narrtore, curatore di antologie, traduttore, critico e storico letterario, è membro della Royal Society of Literature. Nel 2006 gli è stato assegnato un O.B.E. (Officer of the Order of the British Empire) per il servizio reso alla poesia.
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