Tim Postovit, l’orrore della guerra

Tim Postovit

Tim Postovit, poeta ucraino, ha scritto queste poesie mentre lavorava come assistente sociale in un albergo per rifugiati a Praga. Nelle poesie ritrae persone in carne e ossa, delle quali ha raccolto le storie per creare un cosiddetto Personaggio Composito.

Le poesie di Tim fanno parte di un’intera opera dedicata alla causa dei suoi connazionali. Con i suoi testi sta cercando di descrivere al lettore europeo le difficoltà dei rifugiati, vittime di questa guerra attuale, di sintetizzare le emozioni che condividono con lui, le emozioni innescate da un cambiamento improvviso e radicale nella loro quotidianità.

Il cambiamento è ciò che descrive maggiormente nella sua poesia. Riesce a mostrare, in modo efficiente, l’orrore della guerra, dell’immigrazione e dell’incomprensione da parte della maggioranza del paese nel quale i rifugiati sono arrivati…

ARA, TLUMOČNICE         (ARA, INTERPRETE)

Papouškovo požehnání na cestu

Šelma leží, líná chvost.
Promluv, lízneš její kost, jestli se zasměješ,
její krve se napiješ.

 

La benedizione di un pappagallo per il viaggio

 

La bestia mente, coda pigra.
Parla, le lecchi l’osso, se ridi,
berrai il suo sangue.

 

Píseň Ary a břízy

 

Zeptala se Ara břízy na poli:
Proč jsi zjara, břízo, bílá až to bolí?

Proč jsi jako topoly nezezelenala?

Vykladačko barev, Aro!

Tlumočnice lidí.

Co bys mi teď z cesty o nich zazpívala?

 

Canzone di Ara e Betulla

 

Nel campo Ara chiese a Betulla:

Perché sei primavera, Betulla, bianca che fa male?

Perché non sei diventata verde come i pioppi?

Scaricatrice di colori, Ara!

Interprete di persone.

Cosa canteresti di loro adesso?

 

Marika a její sen

Vzbudila se, na kuchyňský stůl padal přes otevřené okno stín.
Její dům pod černým mrakem, sláma pod závodním koněm.

Vyšla do zahrady, protože si vzpomněla na vysokou břízu vprostřed sadu.

Vzdálenost, kterou pes ještě předevčírem překonával

sedmi skoky, šla celý den.
Našla ji v noci a nikdy se ještě necítila tak fajne, jako když viděla hvězdy na otevřené obloze,

opřena o břízu na celém světě. Continua a leggere

Stefano Bottero, da “Notturno formale”

Stefano Bottero © Nerina Toci 2022

è troppo tardi per tornare a casa.

obliterare
vestiti per gioco come segnalibri
rimandare il momento in cui ti spegni.

mi toglierò il ghiaccio dai capelli,
ti dirò che il corpo non significa niente.

 

*

 

drogarti solo per capire
le ragioni i cani che hai smarrito

nell’inutile che avevi – dentro

carie
che ti tengono sveglio.

adesso – è una gara di resistenza.

leccarti

per indicarti dove sono le mie ferite.

 

*

 

trascurare l’urgente

 

gli occhi socchiusi –

recepire l’alcohol come chiavi di casa il canto

delle iene

la vita breve dei tuoi accendini.

 

*

 

io non ho più mani.
fretta

di camminarti in gola come
scale – quando è tardi
rame

sottratto ai cavi.

Bianca – il tuo sangue non ha direttive
domani non c’è.

 

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Addio a Charles Simić

Lutto nel mondo della poesia

Charles Simić, in una delle sue ultime apparizioni pubbliche a Roma all’Auditorium della Saint Stephen’s School, il 27 ottobre del 2015.

 

Poeta Laureato degli Stati Uniti dal 2007 al 2008 e Premio Pulitzer per la Poesia nel 1990, muore a 84 anni Charles Simić, il 9 gennaio 2023. 

La notizia arriva dal suo amico e editore statunitense Daniel Halpern due ore fa dagli Stati Uniti. La causa della morte, l’improvviso aggravarsi di una malattia che lo aveva colpito negli ultimi anni.

Charles Simić è stato uno dei maggiori poeti contemporanei. La sua opera di poesia non è facilmente classificabile. Minimalista, ironica, essenziale, talvolta surreale, ma ha pubblicato anche opere che hanno mostrato un volto realistico e violento.

Something Evil Is Out There

That’s what the leaves are telling us tonight.
Hear them panic and then fall silent,
And though we strain our ears we hear nothing—
Which is even more terrifying than something.

Minutes seem to pass or whole lifetimes,
While we wait for it to show itself
This very moment, or surely the next?
As the trees rush to make us believe

Their branches knocking on the house
To be let in and then hesitating.
All those leaves falling quiet in unison
As if not wishing to add to our fear,

With something evil lurking out there
And drawing closer and closer to us.
The house dark and quiet as a mouse
If one had the nerve to stick around.

C’è qualcosa di malefico là fuori

Ci dicono le foglie stasera.
Sentile andare nel panico e poi ammutolire.
E anche se tendiamo l’orecchio non udiamo niente –
ancora più terrificante di qualcosa.

Pare passino minuti o vite intere,
mentre aspettiamo si manifesti
proprio in quest’attimo, o di certo nel prossimo?
E intanto gli alberi s’assiepano a farci credere

ai loro rami che bussano sulla casa
perché li si faccia entrare, ma poi esitano.
Tutte quelle foglie che cadono mute all’unisono
come desiderassero non esasperare le nostre paure,

con qualcosa di malefico in agguato là fuori
che ci si avvicina, si avvicina sempre più.
La casa buia e silenziosa come un topo
se si avesse il fegato di restarci.

da: Charles Simic Avvicinati e ascolta  Edizioni Tlon, 2020
Traduzione Damiano Abeni, Moira Egan

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Nunzio Bellassai, da “Due tempi”

Nunzio Bellassai – Foto di proprietà dell’autore

Vi proponiamo alcune poesie tratte da “Due tempi”, di Nunzio Bellassai, Ensamble Editore, 2021

Non era redenzione quel lampo di luce
goffo emerso in superficie, quello scorcio
intriso del freddo cutaneo dei mattoni
scheggia frantumata in mille
diffidenti pezzetti di vita.
Il mistero della roccia persiste.
Dove la linea di frattura si inarca
il passo più estenuante,
l’urto che liofilizza l’eterna
replica dell’attimo è erosione,
discrasia che nega il riconoscimento
della forma, l’anfratto spigoloso
del mondo. L’agonia della lastra
che diventerà lapide,
scheggia che sarà materia.

***

Al campo ottantasette è morosa
la vista, rispetta i nomi smorzati,
sono orfani bianchi dimenticati
scolpiti sulla plastica riottosa.

Milano accoglie avvizzita aria afosa,
secca di tribolazione, bendati
gridi di pace, lemmi tratteggiati
di una contorta prosa lacunosa.

Al campo ottantasette sta in precario
equilibrio con lo stesso livore
l’uomo che scava orbite vitali.

Viene da chiedersi – unico indiziario –
cosa ci fosse prima del pallore
delle seicento croci comunali.

***

A Černobyl trent’anni dopo
le giostre eseguono un moto regolare,
tintinnio macchinoso di ruggine
condensata. Le candele si piegano
all’aria reticente, sbuffo geloso
di un uscio che balbetta.
È domenica e i Samosely vanno
a messa, si riconoscono i visi
sempre uguali. Lo spiraglio di una porta
socchiusa suona come un invito a
entrare in un’anticamera che vive
respira si alimenta, eppure non esiste.

***

Solo i passi sveleranno l’illusione,
affossati nel mistero che circonda
i viali larghi di questa città
che vive dei rumori passati.
Avvolgeranno i confini dell’attesa
senza profanare né capire, ma ora
dentro di me ogni piccola cosa
del mondo splende e riaffiora.
Nel cielo tempestato di anime
hai già smesso di parlare.

***

Non parlarmi di tempi remoti.
In questo breve fiato si confondono
i nostri sogni. E anche se i giorni
scorrono invisibili sul tuo volto
olivastro, nonno, viviamo.
In quest’eterno presagio di un attimo
di comunione. E ci dà torto questo
nostro impossibile essere fratelli.

***

Il bambino che raccoglie i gusci di paguro
segue il flusso continuo dell’erosione,
consunzione di materia che si cela nelle volute
murate, rastrella le forme accresciute
in fragili gabbie atrofizzate.
Serrate le labbra violacee, resta inginocchiato
sulla sabbia nera. Dove il bagliore si interrompe
si coagula il respiro nervoso della gente.

***

Mi sembra di conoscere la cortina irregolare,
fortuito accumulo di scarti, impasto stratificato
di rifiuti. Sono le stesse alghe che si accumulano
sulla riva scomparsa che monologa compatta
con vagiti sepolti, movimenti retroflessi
di un’intimità rivelata. Ignora il suono afoso
di un richiamo collettivo, il massacro incolore.
Ignora il tratto collusivo di quelle promesse
che sono già a fondo, vittime adespote
essiccate nel solco miasmatico, depositate
all’ombra del bunker, putrefazione
diagnosticata in tempo, accolta in ritardo,
nutre gli illustri visitatori del nulla.

***

I cimiteri invaderanno le città,
sgusceranno dal suono afoso
delle preghiere incise su lastre esili,
che già riportano nomi, date,
pulviscolo monotono, alimenta
un impulso conformista di icone.
Non gli ammassi di cemento
trafitti da punte gotiche che non sfiorano
il cielo, non palazzine costipate
da presenze taciturne. E nemmeno
i volti devozionali, ritagliati nell’angusta
cornice ovale concessa dal marmo,
spazio fraterno che commuove. Colma
l’arretramento volontario della città.
La soglia disattesa offre un respiro greve.

***

Manca ancora l’icona in mezzo
ai satelliti immobili di cemento, alti
non contro il cielo, si stagliano rasoterra.
Le chiome rigide, volumi fissi in una rete
di impronte digitali ancora da scolpire,
in fila indiana. Un po’ mi stringe
un po’ mi allevia, quest’anelito
sempre identico, l’arte di non scomporsi.

***

Fu un vecchio a dirmi di voler tornare
in cima al promontorio, sembra quello
il destino della scogliera: una tenera stasi.
E gli ospiti incuranti delle isole
che negano alle ombre ristoro.
Eppure conta e dimentica, rinsavisce
nei rintocchi che nessuno ascolta.
Roccia bianca che galleggia,
prima ricorda: nessuno veglia la cenere
destinata alle onde. Disperse queste
intermittenze di luce ci conducono qui,
alla Chiesa Vecchia, ma la cenere non brilla.

***

L’ombra galleggia nel fluido ammasso
del rimpianto, calpesta gli ultimi aghi
di pino del giorno che è stato,
i tronchi inerti, fissati al terreno tenace,
l’equilibrio immobile di quello che resta.
Il silenzioso reticolo delle alghe
nasconde lo scheletro roccioso
dell’Isola che ora vive solo per sé.
L’ebbrezza dei corpi che si cercano
ansiosi sul viso torbido della marea.

Nunzio Bellassai ha conseguito con lode la laurea magistrale in Filologia Moderna presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Attualmente presso il medesimo ateneo è dottorando in Italianistica con un progetto sul patrimonio epistolare di Vitaliano Brancati.
Per il racconto La stazione, edito da Schena, ha vinto il Premio nazionale “Valerio Gentile” nel 2019. Con la sua raccolta d’esordio Due tempi (Ensemble, 2021, prefazione di Maurizio Cucchi) ha ottenuto le menzioni speciali del Premio “Città di Latina” e del Premio “Portopalo Più a Sud di Tunisi”, oltre al terzo posto al Premio “Diana Nemorensis” di Nemi. Suoi componimenti sono stati selezionati per la Bottega di poesia de «La Repubblica», la rubrica “L’Angolo degli inediti” della casa editrice Stampa-2009 e l’Ufficio Poesie Smarrite del «Corriere della Sera».
I suoi studi gravitano intorno alla letteratura italiana del Novecento, con un interesse per i fenomeni italofoni transnazionali. I suoi primi contributi scientifici sono apparsi su «Sinestesieonline» e «La rivista di Arablit» nel 2023.

La poesia di Dario Nicolella

Dario Nicolella

FERITE

Devo dirti grazie
per le bende che hai avvolto
della tua pietas crocerossina
sulle ferite in-tagliate
piagate ustionate
Lasciami però aperti gli occhi
perchè vedano albe e tramonti
questo buio mi ferisce ancora
mi tormenta come un coltello

(da TRENTA POESIE PER RABARAMA,2014)

OMBRE

Ti vedo non ti vedo
forse ti intra-vedo
no
era soltanto ombra lunare
un grigio riflesso argento siderale
niente nessuno
nulla di fatto
il nulla fatto persona

(da POESIE DELLE CENTO LUNE,2017)

PAPAVERI

Ebbene sì sono fiero
di essere cresciuto come un fiore
che immediatamente muore
nella temeraria mano di chi
lo strappa al campo
pur di sottrarsi a una vita senza scampo
e non marcire lentamente in un bel vaso
effimero ornamento
in un appartamento

(da POESIE PSICHEDELICHE,2019)

FLOP

Sono come l’acqua
corro scorro
dilago
di lago in lago
non mi volto mai indietro
non mi tiro mai indietro

Sono goccia d’acqua
dentro doccia d’acqua
plop plop
plop plop
plop flop
fino al prossimo flop

(da I CERCHI/ Poesie col flash,2019)

NON CONOSCO L’ATTIMO

Non conosco l’attimo
in cui un sasso
mi frantumerà il vetro perciò
lascio sempre aperte le finestre
così da spalancare
il mio libero spirito
alle correnti dell’amore

(da UN ALTRO GIORNO SU NEL CIELO/
Poesie in viaggio con l’anima, 2021)

Dopo l’ esordio poetico con L’ARPA DEL CONNEMARA che risale al 1993,e un lungo periodo come autore di saggi su tematiche storico-artistiche (I cento chiostri di Napoli, Le cupole di Napoli.Le strade di Salerno) e mitologiche (Partenope la sirena, La leggenda di Palinuro, La luna dal mito alla conquista) Dario Nicolella (Napoli,1956) ha da qualche anno riscoperto una nuova e inattesa vocazione poetica che ormai si affianca stabilmente alla sua professione medica.

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Alfonso Guida, da “Il Tassidermista”

Scrivere non è ricevere lettere.
È ciò verso cui lancio un destino.

I VOLTI LA SCRITTURA

Quello che chiamo Dio
è la non ignoranza di me.

L’orfano va per cardi.
Le capsule di cianuro in bocca ai bambini nel sonno.

Quello che chiamo Dio
è uomo che scende
dove rimane
tra l’inciampo e l’indulto, dove
nullo è il soffio e l’involarsi
dei primi fischioni.

Scrivi: fuoco e fune sul tetto.
Scrivi: inevaso.

LUCO

Alle bandiere fredde
di febbraio il tempo si ferma e trincano
tutti. le brocche e i bicchieri si svuotano.
I doni sono tracce di occhi.
Altri doni sgombrano il tavolo e noi abbiamo una
visione calcinata, un biancore scheggiato di fossili.

Torna, imperante, l’ombra,
la parola incavata a sera. Forse
verranno tardi i bevitori gagliardi, una posa
tra falconieri e giullari. Eppure resta una statuaria
sotto il vuoto di una fuga noiosa. E, nel gelo,
dietro le porte inchiavardate, si masturbano, folli
di una notte vorticosa e stellata
che si aggira per Via Muro Barbieri,
le mani in tasca, il vino nella grotta.

 

TEMA BRODSKIJ

Povera morte sola
rispondi quando vuoi, ti prendi tempo.
Aria di pioggia, nostalgia del primo
passo vuoto. Non le aste
d’acciaio o il mostro in cattività.
Buio di occhi, buio che vedi
l’estate con la zappa sui formicai.
Nell’acqua la corona di papavero.
Nella controra tu vieni intorno al vento e lasci
la pietra di ubbidienza e la preghiera
che fa mansueto chi sale e scalfisce.

Povera morte sola
squassando la tenebra tu riluci
con le voci addosso e la madre asciutta
nei moniti e filiale nell’incanto.
Fin dentro i crepacci io ricordo te che
segui un riflesso e un passato di allievi.
La stanza illuminata entra di notte
nei bouquet e nei fuscelli tremando
contro una lingua offesa
contro un linguaggio che fende attraverso
la fragranza di frutta e le labbra gonfe
che tornano qui,
Torniamo anche noi, più alti
di ogni immagine, tra la sabbia che si ostina a tenere
le tracce ed è una spiaggia che latra da vent’anni
come il padrone di Itaca
come il padrone festoso e selvaggio
che dorme accanto al suo cane in un lenzuolo madido.

Povera morte sola
chi ti ama aspetta una lunga carestia.

Più cupa stasera l’aria della terra.
Piccola fiamma di un’attesa amorosa, avanza. Continua a leggere

Pietro Romano, “Feriti dall’acqua”

Pietro Romano

Luce di dentro, soglia inesausta del passo.
mi vedo oltre il sentore che a ogni varco o stanza,
come guardi, io per voi ancora non sia:
come addentro uno sguardo coagulato
su un corpo che muore.

*

Era il riverbero degli anni
fingere una luce ferma, sequenze
di istanti nel riflesso
di un forse che anneriva le palpebre:
la polvere è sacra.

*

Ha la forma dell’altrove, la voce:
adombra le parole, rendi al fuoco
la vita che ti separa dal canto.

*

Consonanze, figure mute, notti:
tutto si oscura per riavere voce.

Nelle stanze si raccolgono le acque
di uno sguardo vegliante senza casa.

Pietro Romano, “Feriti dall’acqua, peQuod 2022. Continua a leggere

Antonio Porta, da “Poemetto con la madre”

Antonio Porta a Orvieto nel 1976, per il Convegno “Scrittura Lettura”

I.

Quanto si è consumata mia madre
come l’ombra cancella ogni
giorno
e più l’ombra la invade e vela
più mi sembra che pensi
la giovinezza
l’estate
di una carnale bruna bellezza
quando nel sogno
il figlio le ha baciato il ventre
aprendo
l’assetata adolescenza infinita.

 

2.

Ora mi chiedo se è l’ombra che ti cancella
e il tuo profilo più sottile disegna la traccia
della scomparsa imminente
ora mi chiedo se l’ombra cancella.

 

3.

Lo so da sempre che devi scomparire
ma nel tuo buco d’ombra io non ti seguo
opposto
penetro in un ventre che non è il tuo
eppure ti ricorda e celebra e nutre
il ventre
mio sogno d’iniziazione del mattino,
nel grande letto
della prima comunione.

 

4.

Isterica, in uno sguardo improvviso folle
sei tu che mi cancelli e sputi
come un rospo
il tramonto
qui sulla pagina fatico a mantenere la distanza
dalla tua forma oscura quando soffi serpenti
dalle narici dilatate.
Lo sai o non lo sai che miri sempre in basso,
mi costringi alla fuga, al precipizio
disperato di mettermi in salvo
mi Strozzi con un dubbio e la paura
senza fine dei ritardi,
tempo inabissato
perché tu non mi hai goduto
io arrivato alla fine
della bella adolescenza vuota
tuo amante insuperabile nell’atto
della nascita e subito
perduto.

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Alfonso Guida, poesie

Alfonso Guida/credits photo Andrea Semplici

Pubblichiamo sei poesie inedite di Alfonso Guida tratte dalla sua raccolta inedita dal titolo “Carcere e ascesi”.

 

I muri. I muri tengono
tutto di me. E del battito.

Scompare a poco a poco
l’ indovinello, non importa, il mistero,
se può sbiadire. Il nero.

Poi mi sento cadere.
Ma resto, resto qui, su questa sedia,
questa storia. L’ infelicità, un colpo
d’ accetta. Ora la logica.

Frammenti, recinti, ettari.
Non oltre la misura.
S’inguscia il tempo. Arsura.

**

Volevo andare in alto.
Nel deserto, il colore,
metafora dei saggi.
Piangere e ridere, ora-

non riesco a prevedere.
Cose che sono ovunque,
disgiunte, inosservate.

Sensibilmente- scrivere,
parola per parola,
passo dopo passo, anche
questa morte. E finirla
con la madre. Qui, solo,
tentare, morire, essere.
Come uno può, inanellato, cortese.

 

LETTERA

Stamattina una mitraglia di piume.
Cieli abitati, piste
da corsa, andirivieni, fughe. Fretta
di cieli azzurri. Cornacchie a soggolo
grigio, taccole, in lutto completo. Qui
morire eterno, morire ordinario.
Finire. Punto e a capo. Ancora. Annuncio
di ogni slancio contrariato, un cantare
basso metà inno solenne metà
triviale. Nascondo al male il corpo,
la mente. Il vento snida il suo pretesto
di ocra dal grigio tortora, dal verde
petrolio. Immerge a compieta il crepaccio
tra le ombre e il fumo del fieno maggengo.

 

PASTORI DEL MATTINO ALL’ AMERICAN BAR

Parlano di mungitura meccanica,
del nutritore di metallo, nuovo
sostituto del vecchio poppatoio
di gomma. Valutando carne e latte,
parlano con labbra gonfie di sangue
come se il cuore gli pompasse in bocca.
Nero di mora e ginepro colora
le guance, il mento, la barba biondastra.
Corpi magri, scattanti, culi sodi,
stretti, un piglio dolce e violento, gli omeri
schiariti dal sole bronzeo dei campi.

Ogni maschio sfrigola nel profumo
primaverile della biada, assorbe
la forza lunare dell’ acqua e i palmi
colano scremature di latte, orde
bianche e fresche di pasture e ontanete
dal fogliame opalino nei capelli
che ingrassano, ricci, i colletti, macchie
di erbe aguzze, tarassaco, soffioni.

Vestono imbottiti, impataccati, k-way
spiumato, cinghia el charro, rubata
dal catalogo di moda di un vecchio
guardaroba appartenuto ai nipoti.
La voce buona, semplice, sottile.
Si toccano con lo sguardo incantato.
Con puntigliosa ostinazione, il polso
ruota a picco tra le gambe robuste,
le cosce muscolose, il membro enorme.
Sono coraggiosi. Affrontano il buio
mischiando il proprio sangue al sangue lucido
delle bestie nei muti sacrifici
dei templi, nei rituali antelucani.
Col manto irto di spine,
col peso del sogno di un gregge intero,
volano in groppa ai bucrani, cavalcano
le travi, lottano come profeti.


DIMENTICARE

Ma vedere si estingue, ogni vedere.

Ci sono poeti per cui il tempo è assente.
Lapidi, pietre incise, appena un nome.
Sofferenza commossa dal tacere.
Eco morta nella voce da cui esce.
Persone non riconosciute, astratte,
come astratte dal commercio terrestre.
Lampare tra le pergole, lampyridae
nell’ erba.
Il sole muore di se stesso.

 

LA FONTE SA DI DOVER MORIRE

Veglia, fare fatica.
L’uomo ha una sola terra.
E la terra ha un solo uomo.
Francesco, Marco, Stefano,
Domenico, se esisto
su una punta di penna.
Ma io cado, non ho peso
che per morirmi dentro,
nel peccato di perdere
lo sguardo. E nel dipendere
stramazzo, preda o lupo.
Nel tanfo di sudore
notturno c’è di tutto:
treni, orinatoi, portici,
c’ è la polvere e il dedalo
delle formiche di Aldo
Braibanti. E qui digrado
come le croci nere
dei pescatori ai muri
di Procida, tra le ancore
svelte a scarnirmi, a trarmi
fuori dal mare folle,
quando, inverno su inverno,
mi addormento a strapiombo.

Sto fermo, più che fermo,
fermato, più che vuoto,
svuotato, ma le vecchie
la chiamano “ vivenza”
la vita che si passa
dentro una casa, intera.
I libri mi allontanano.
L’ inchiostro dei quaderni
macchia i campi di grano Continua a leggere

Pier Paolo Pasolini, “Le ceneri di Gramsci”

Pier Paolo Pasolini

I

Non è di maggio questa impura aria
che il buio giardino straniero
fa ancora più buio, o l’abbaglia

con cieche schiarite … questo cielo
di bave sopra gli attici giallini
che in semicerchi immensi fanno velo

alle curve del Tevere, ai turchini
monti del Lazio… Spande una mortale
pace, disamorata come i nostri destini,

tra le vecchie muraglie l’autunnale
maggio. In esso c’è il grigiore del mondo;
la fine del decennio in cui appare

tra le macerie finito il profondo
e ingenuo sforzo di rifare la vita;
il silenzio, fradicio e infecondo…

Tu, giovane Gramsci, in quel maggio in cui l’errore
era ancora vita, in quel maggio italiano
che alla vita aggiungeva almeno ardore;

quanto meno sventato e più impuramente sano
dei nostri padri – non padre, ma umile
fratello – già con la tua magra mano

delineavi l’ideale che illumina
(ma non per noi: tu, morto, e noi
morti ugualmente, con te, nell’umido

giardino) questo silenzio. Non puoi,
lo vedi? che riposare in questo sito
estraneo, ancora confinato. Noia

patrizia ti è intorno. E, sbiadito,
solo ti giunge qualche colpo d’incudine
dalle officine di Testaccio, sopito

nel vespro: tra misere tettoie, nudi
mucchi di latta, ferrivecchi, dove
cantando vizioso un garzone già chiude

la sua giornata, mentre intorno spiove.

II

Tra i due mondi, la tregua, i cui non siamo.
Scelte, dedizioni…. altro suono non hanno
ormai che questo del giardino gramo

e nobile, in cui caparbio l’inganno
che attutiva la vita resta nella morte.
Nei cerchi dei sarcofaghi non fanno

che mostrare la superstite sorte
di gente laica le laiche iscrizioni
in queste grigie pietre, corte

e imponenti. Ancora di passioni
sfrenate senza scandalo son arse
le ossa dei miliardari di nazioni

più grandi; ronzano, quasi mai scomparse,
le ironie dei principi, dei pederasti,
i cui corpi sono nell’urne sparse

inceneriti e non ancora casti.
Qui il silenzio della morte è fede
di un civile silenzio di uomini rimasti

uomini, di un tedio che nel tedio
del Parco, discreto muta: e la città
che, indifferente, lo confina in mezzo

a tuguri e a chiese, empia nella pietà,
vi perde il suo splendore. La sua terra
grassa di ortiche e di legumi dà

questi magri cipressi, questa nera
umidità che chiazza i muri intorno
a smorti ghirigori di bosso, che la sera

rasserenando spegne in disadorni
sentori d’alga…. quest’erbetta stenta
e inodora, dove violetta si sprofonda

l’atmosfera, con un brivido di menta,
o fieno marcio, e quieta vi prelude
con diurna malinconia, la spenta

trepidazione della notte. Rude
di clima, dolcissimo di storia, è
tra questi muri il suolo in cui trasuda

altro suolo; questo umido che
ricorda altro umido, e risuonano
– familiari da latitudini e

orizzonti dove inglesi selve coronano
laghi spersi nel cielo, tra praterie
verdi come fosforici biliardi o come

smeraldi: <> – le pie

invocazioni…. Continua a leggere

Vittorio Grotti, “Libertà”

Vittorio Grotti

Libertà edito da Campanotto è il titolo del libro di poesie di Vittorio Grotti (1939-1981) l’artista della Versilia – pittore, grafico e poeta – scomparso quarantun anni fa. A dare corpo al libro nel 2021, in piena era covid, la figlia Esther Grotti che ha sempre attinto da quelle poesie una coinvolgente forza vitale.

Vittorio Grotti torna nel presente a parlarci con rabbia, della guerra, della crisi scialba in cui già negli anni in cui egli visse si dibatteva la società “già consumata”, comunque tesa a cancellarsi brutamente e bruttamente da qualsiasi angolino della storia. Il suo è furore autentico che  va a sciogliersi in una carezza sul capo innocente della figlia Esther : – se un poeta vive il mondo viva. –

Scriveva Carlo Betocchi: “La poetica del Grotti si svela e resiste non tanto per quello che v’è, sotto sotto, di immediato e spontaneo, di scatto passionato e reattivo agli insulti della vita: quanto perché il passionato e reattivo vi sono più spesso ridotti all’osso, e magari accantonati e derisi dal poeta stesso, dandogli addirittura scacco matto. Nel qual caso la sua invenzione verbale riesce ad arrivare a quel pittorico bianco gessoso del Viani irridente che fa personaggio col suo tragico nero”.

Oltre a Betocchi, furono molti i poeti che si avvicinarono alla poesia del Grotti, fra essi Giorgio Caproni che lo raccontò così:

Una barbaccia alla Castro. Due lucentissimi occhiacci vivi e neri sul fiore (di terracotta) di un lucumonico sorriso etrusco, puntatimi addosso a Viareggio con una fissità da farmi incavolare: da costringermi, com un impermalito Adamo Ivanovich, al solito (v. “Umiliati e offesi”): “Ma insomma, perché mi guarda con tanta insistenza?”.

E’ la mia prima (molto lontana, ormai) immagine di Vittorio Grotti.

Poi ebbi modo di “avvicinarlo”. Di correggere, a cominciar dalla barba, quella prima (falsa) impressione fisica.

E’ un uomo che spira amicizia da ogni poro. Un anarchico dal cuore di zucchero. Un grande allevatore non di caimani, ma di pittori bradi. (Sa anche domarli).

Adoratore (sacerdote) di Lorenzo Viani.

(“Dici steccolo”, esclamerebbe un vecchio livornese).

Comunque, un dolcissimo incendiario che, a toccarlo, dà la scossa,come la dà soltanto chi in corpo un Nume.

Quale sia questo nume non lo so. Ma so che Grotti è anche (leggi soprattutto) un autentico poeta alla diavola, che scrive versi pronti a prenderti a schiaffi come a farti le più intenerite carezze. (“Eh le bisce contorte e folgoranti,/ forti come una barzelletta / urlata forte nelle  orecchie del deserto/ o come la conversione di Saulo…”). Un poeta che non puoi rinchiudere in nessun barattolo confezionato con precisa etichetta, giacché li farebbe scoppiar tutti.

“Costituisco in un piazzale di pietra l’anitra più grassa
che affronti Petrarca Boccaccio l’Aretino Dante e
con un solo starnazzo i becchi in solido
sul cuore di finti dondoli in cornici dorate
Dio stesso viene meco masticando bava filante
e zucchero di Capezzano P.
Ora che il ver vetro è la mutua, la vergine, la pensione nero su bianco.
Bicchieri di carta in fondo.
Vuoto a perdere”.

Sono Versi che mi ha mandato lui per Pasqua, in autografo, e che solo lui poteva scrivere. Versi che bastano a dare un’idea, senza contorcimenti verbali da parte mia, di quale legno sia fatto “il Grotti”.

Leggetelo. Leggiamolo. Lui che, nella sua “rivolta” (tutta tesa verso l’amicizia e la pace), è una specie di Lucifero alla rovescia: un diavolo che s’è fatto angelo.

 

PER UN CRISTO CH’È STATO E CHE POTREBBE

 

La delegazione operaia
ha regalato cuscini e ghirlande di fiori,
senza dire una parola, una sola.

Finalmente
la madre ha visto il figlio morto,
il figlio che partiva alle sei per la fonderia,
il figlio che tornava alle sei dalla fonderia.
L’han riportato ieri colla “misericordia”,
già composto nella tuta blu:
lui che sempre,
tutte le sere,
rideva scherzava la baciava,
cantando le portava una leccornia.
Poi il padrone che parla,
l’assicurazione che parla…
– Schiacciato da un blocco caduto per caso.
– Così giovane, è stata una disgrazia.

A tempo
s’è ricordata della bicicletta,
subito un compagno di lavoro è andato a prenderla.
Era rimasta appoggiata al muro della fonderia,
al manubrio c’era ancora la borsa di paglia.

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Janis Sinajco, “spezzandosi”

Janis Sinajko

Janis Sinajko

Nella traduzione di Paolo Galvagni

плоть возносится
к небу
чёрными листьями

в глазницах чудовищ
неприкасаем
снег

где

из отяжелевшей руки
яблоко
падает
в твёрдую грязь
разбиваясь

la carne si innalza
al cielo
con foglie nere

nelle occhiaie dei mostri
è intangibile
la neve

dove

da una mano appesantita
una mela
cade
sul fango duro
spezzandosi

***

и после всей тишины

так близко

созвездия

смотрят
как ты наконец-то очнёшься

уже очудовищен

e dopo tutta la quiete

così vicino

le costellazioni

guardano
come finalmente ti risveglierai

ormai mostruoso

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Francesco Tomada, “Affrontare la gioia da soli”

Francesco Tomada

Pubblichiamo cinque poesie di Francesco Tomada tratte da Affrontare la gioia da soli, Collana Gialla Oro, Pordenonelegge-Samuele Editore, 2021

IL MARE IN TRASALPINA

I. STAZIONE TRANSALPINA, 22.30 PM

Ha bevuto almeno quattro calici di bianco
poi si è messo a camminare traballando
verso un prato buio e un palazzone popolare
forse ad aspettarlo c’è una solitudine più grande
rispetto a quella di adesso

sui binari solamente un treno merci fermo e
due carrozze graffitate senza passeggeri con le luci spente

qui vicino la panchina dove
è morto Adelmo in overdose di metadone
conosciamo bene sua madre
o meglio quello che ne resta

ma tu
tu stringimi la mano
se vogliamo credere che ci sia qualcuno a casa
di quell’ubriaco che lo svesta e lo perdoni
che ad Adelmo sia spettato un paradiso di colore
verdeazzurro come l’acqua dell’Isonzo
stringimi la mano fammi forza
che per tutte queste lampade appese alle colonne
con la plastica a forma di conchiglia
tocca a noi di immaginarci un mare

II. CAVE DEL PREDIL

La miniera è chiusa da vent’anni ma qui tutto è ancora miniera.
Le case sono state costruite per i lavoranti, il museo si è preso lo
stabilimento dove si purificava il piombo, il pendio della montagna
è un accumulo di pietre scavate da là sotto.
Quando nevica d’inverno i fiocchi sono grossi e lenti, come quando
capovolgi quelle sfere trasparenti che contengono un paesaggio.

Rovescia ancora quella sfera.
Che la neve si raccolga nella concavità del cielo.
Che la terra discenda nel vuoto delle gallerie da dove è venuta.
Che tutti gli uomini risalgano salvi. torna più indietro, prima di
silicosi e pleuriti. Fino alla festa di Santa Barbara, quando vestivano
i loro completi con ventinove bottoni dorati e lo sguardo fiero di
chi tutti i giorni scende nel mondo e lo spacca davvero.

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Alessandro Anil, inediti

Alessandro Anil

Da L’acqua della nostra sete

Terzo movimento

Note sulla melodia dell’acqua

I

L’uomo al risveglio la prima cosa che sente è la sete, poi lentamente il raggio
penetra la cupola del sonno e il corpo torna avvolto dall’abito che altri
toccheranno, guarderanno. La popolazione apre le porte, espirano vapori
trattenuti nella notte. È l’ora questa quando l’eterna contesa fra luce e ombra
rinnova questo ritorno quotidiano dalla morte chiamata sonno
verso il sogno condiviso da cui un giorno, ci sveglieremo. Il paesaggio avanza
e noi ritroviamo le inquietudini. Che sia Firenze e la festa al plurale di archi
incorniciati dallo sguardo, o Roma e i suoi busti, Augusto, Lesbia, Tiberio,
il prezzo per l’eternità è tramutare la carne in pietra, perché la sete è un fiume
ma la sua assenza è quell’altro desiderio che minaccia di non estinguersi
e l’uomo, un affluente a sua volta assetato, che fra i due crepuscoli del giorno
torna a riversarsi nelle strade, a inondare i più intimi recessi di una metropoli,
come acqua che scorre fra le crepe, acqua che sale fino all’orlo
in cerca di un atrio, una porta dove ripararsi, una casa abitata
o il pronto soccorso dove ricevere la dose d’anestesia chiamata
vita. Io, il più mortale fra gli esseri, osservo questa nascita, il lungofiume infinito
che rende il nostro tempo ancora più breve. Non oso scendere nelle acque,
come può un frammento fissare l’eterno? Forse per questo ai morti
si coprono gli occhi. Eppure, il corpo vorrebbe immergersi, diventare
un bassorilievo sul fondale oscuro di quest’altra massa di convenzioni
chiamata mondo: accettare le leggi dell’uomo o la gloria di una sorte
spezzata, restare in contemplazione o manifestare, innamorarsi
o fuggire, maestri del disincanto o professori di una lotta estinta? Le acque
trasportano detriti, sudiciume, un po’ di quell’aria spensierata che a volte,
ci ha intrattenuti, resta un sapore di carta zuccherata, la lontananza
di un bene mai fatto o dei rami tagliati alla rinfusa ai margini del marciapiede,
il tempo disgraziatamente perso senza piegare le dita, senza la possibilità
di un ritorno e quella imprecisata sensazione nel corpo ogni volta
che si riconosce, l’amore è all’ultimo, sul nervo delle cose perdute per sempre
e ritrovate nel suono che hanno lasciato andandosene. Non si placherà
con la morte la nostra sete, sopravvivrà a noi, tornerà nella terra, sarà terra assetata.

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Il ritorno di Beppe Salvia

lettere musive io desto, ignote
cifre che compongono un fregio, tesse
una trama questo disegno, rete
di tessere in questo quadro crette
magia figura di regale soglia
oltre cui accedo ospite senza
credo ai sopiti luoghi della veglia,
voglio saper la meta e chiedo lenza
per il diniego trarre dal mare, le
fughe d’inospiti sirene l’ale
m’apprendono, volo ove è chiave chiara
di questi nodi di noci d’ardesia,
sale una savia siepe a dimorare
dove chiudon la corte due scalee.

*

A scrivere ho imparato dagli amici,
ma senza di loro. Tu m’hai insegnato
a amare, ma senza di te. La vita
con il suo dolore m’insegna a vivere,
ma quasi senza vita, e a lavorare,
ma sempre senza lavoro. Allora,
allora io ho imparato a piangere,
ma senza lacrime, a sognare, ma
non vedo in sogno che figure inumane.
Non ha più limite la mia pazienza.
Non ho pazienza più per niente, niente
più rimane della nostra fortuna.
Anche a odiare ho dovuto imparare
e dagli amici e da te e dalla vita intera.

*

viva le lunghe ore della scuola
il banco celeste come il cielo
serviva a non guardare la lavagna
viva le povere ore di malinconia
viva quel tuo mugugno
viva la veste bianca e le bugie
viva la via deserta tutta
fiocchi bioccoli Continua a leggere

Odisseas Elitis, Poesie

Odisseas Elitis

Elena

Uccisa con la prima goccia della pioggia l’estate
Madide le parole un tempo madri a chiaro d’astri
Parole tutte destinate solo a Te!
Dove mai tenderemo le mani ora che il tempo non ci calcola più
Dove mai getteremo gli occhi oramai che le remote linee
hanno fatto naufragio nelle nubi
Ora che le tue palpebre sopra i nostri paesi sono chiuse
E siamo – come invasi dalla nebbia – soli
Soli assediati dalle tue sembianze morte.

Con la fronte sul vetro vegliamo il nuovo cruccio
Non è la morte che ci abbatterà se ci sei Tu
Se un vento altrove c’è che tutta intera ti vivrà
Ti vestirà da presso come la speranza nostra ti veste da lontano
Se altrove c’è
Una pianura verde di là dal tuo sorriso fino al sole
E gli confida che c’incontreremo ancora
Non è la morte che fronteggeremo no
Ma così breve goccia della pioggia d’autunno
Un sentimento torbido
L’odore della terra infradiciata nelle anime nostre che s’allontanano via via

Se non è la tua mano nella nostra
Se non è il sangue nostro nelle vene dei tuoi sogni O la luce nel cielo immacolato
E dentro noi la musica segreta – malinconica
Pellegrina di tutto ciò che ci tiene al mondo ancora
È quest’umido vento l’ora dell’autunno il distacco
L’amaro appoggio del cubito al ricordo
Che spunta quando già la notte sta per scinderci dal chiaro
Di là dalla finestra quadra
Che guarda sull’angoscia e nulla vede
Perché s’è fatta musica segreta vampa al focolare bàttito
dell’orologio grande alla parete
Perché s’è già cangiata
In poesia – verso su verso – in suono parallelo a pioggia lacrime parole
Altre parole eppure anch’esse destinate solo a Te!

*

La Passione

Salmo II

Lingua mi diedero greca,
povera casa sui lidi d’Omero.
La lingua mi fu l’unica cura sui lidi d’Omero.
Ivi la perca e il sarago
ventosi verbi
verdi correnti nell’azzurro
e ciò che vidi accendersi nei visceri
spugne, meduse
con le prime parole di Sirene
conchiglie rosa con le prime strie di nero.
La lingua mi fu l’unica cura con le prime strie di nero.
Ivi cotogne, melagrane
e bruni iddii, cugini e zii
l’olio che si vuotava nelle botti immense
aliti dalla correntìa fragranti
di giunco e di lentischio
di ginestra e di zenzero
coi primi zirli dei fringuelli;
salmodie dolci con i primi Gloria Patri.
La lingua mi fu l’unica cura con i primi Gloria Patri!
Ivi palme ed allori
l’incenso vaporante
benedicente spade e carabine.
Sul terreno – un ammanto di vigneti –
nidore, brindisi di uova
Cristo è risorto
coi primi botti degli spari greci.
Mistici amori con l’incipit dell’Inno.
La lingua mi fu l’unica cura con l’incipit dell’Inno!

Odisseas Elitis, Poesie, a cura di Filippomaria Pontani, traduzioni di Filippo Maria Pontani, Filippomaria Pontani e Nicola Crocetti, Crocetti/Feltrinelli.

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Alfonso Guida, da “Conversari”

Alfonso Guida

Notti gelide. Albe mute.
La breve confessione dell’oscurità, una pietra.
L’istante mostrato. La parola avanza: uomo, arc-en-ciel.
Il fumo si raduna intorno al tavolo. Che mi ripete a un’idea non veritiera di lutto. Accucciato nel nome. Il gelo. L’urgenza. Le ombrelle scurite del sambuco. Ai piedi un disordine bianco, lo spigolo, dei fotogrammi. Nel dettaglio di un eccidio, ha i sassi della tregua.

***

Qui, a novembre. Nel tuo volto gelato.
Nel colmo di un’estate. Il muratore
cerca la prima fonte, tra le grida.
Varcavo la durezza
dell’erba. Il tuo sguardo si è fatto opaco.
Trema una luce. L’infanzia sfregiata.
La stagione che vedo
nei tuoi occhi ha dispensato
una disputa di corvi, un giocarsi
l’autunno e l’inverno. Anche l’ombra pesa.

***

È crudele quest’autunno
perché allunga le agonie e tarda il sonno.
E sale dal muro l’odore viola
di vernaccia e il guizzo di un controluce
come fosse Pasqua e si festeggiassero
le capanne. I passeri beccano briciole.
I primi colori di ottobre sono
di un Corot che annuncia burrasca. Per noi
si tratta di passaggi
nel pensiero e nel sottostante. Lasci
che il muro sia il taglio e io il maestro di bricolage,
la civetta sapiente
di Minerva, il resto lo decide il porco mutare
dell’aria all’equinozio. C’è chi tace
restando inascoltato. Perché trovate ineducato
aprire la porta di un paese sconosciuto e sedersi
a mangiare con l’estraneo?

Alfonso Guida, tre poesie da Conversari (round midnight edizioni, 2021)

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Alexandre O’Neill e il surrealismo portoghese

Alexandre O’Neill

NOTA DI ELEONORA RIMOLO

In Portogallo i movimenti culturali europei si innestano con diversi anni di ritardo rispetto ai paesi in cui questi si originano: ciò accade anche con il surrealismo, movimento che in Portogallo attecchisce nel secondo dopoguerra (nel 1947) per necessità storica – numerose sono infatti le analogie con il primo dopoguerra francese, basti pensare al senso di insofferenza e di rigetto dei valori borghesi imposti, ma altrettante sono le novità di questo movimento, che assume tratti assolutamente inediti.

Purtroppo, il surrealismo portoghese non può esprimersi in una attività collettiva, di gruppo, ma si realizza a livello individuale a causa dell’assoluta mancanza di libertà dei singoli nonché della mancanza di un valido entroterra freudiano utile a sostenere le teorie letterarie surrealiste.

Il fascino del surrealismo portoghese sul Tabucchi narratore è connesso allo studio critico di Tabucchi sul movimento, che nel 1971 per Einaudi curò il volume La parola interdetta. Poeti surrealisti portoghesi.

Nell’introduzione al volume, il curatore sostiene che il sistema poetico surrealista portoghese si fonda sostanzialmente su quattro elementi: l’angoscia, lo scherno, l’immagine e l’impegno. Sono sentimenti che non si addicono ad una Avanguardia tout court, poiché la disillusione, il senso di resa e l’amarezza qui sostituiscono la forza sferzante e critica del surrealismo francese. Questo atteggiamento dipende dalla situazione politica portoghese di quegli anni: la caduta del fascismo italo-tedesco non ha prodotto la caduta del salazarismo, anzi ha permesso a quest’ultimo di rafforzarsi in via definitiva.

La poesia è impotente di fronte alle violente repressioni e alla costante vigilanza del regime, e non può che rifugiarsi in un sistema letterario pregno di ambiguità e di allusioni, di simboli che nascondono il nudo significato per poter sopravvivere, galleggiando in un oceano di compromessi con il regime – che lascia gli intellettuali “liberi” di esprimersi con doppi sensi, giochi di parole e critiche indirette e per questo li schiaccia definitivamente sotto il peso dei sensi di colpa e con la consapevolezza di essere la “cattiva coscienza” di quella borghesia tanto detestata ma profondamente incarnata, responsabile dello sfacelo del Paese.

Quali armi possiede dunque questo movimento, in apparenza così privo di forza, di baldanza? Continua a leggere

Yun Dong Ju, “Vento blu”

Yun Dong Ju (1917- 1945)

YUN DONG JU nasce il 30 dicembre 1917 a Longjing, nell’allora Manciuria, ora Cina settentrionale. Nel 1940 si laurea alla Yeonhui Techical School, che in seguito diventerà la Yonsei University.
Dopo la laurea si appresta a pubblicare una raccolta di diciannove poesie intitolata Cielo, vento, stelle e poesia, ma il professore al quale mostra la raccolta gli consiglia di rimandare la pubblicazione a un momento meno turbolento al fine di evitare la censura.
Nel 1942 si trasferisce in Giappone e e tra nel dipartimento di letteratura della Rikkyo University a Tokyo. Sei mesi dopo si sposta a Doshisha University a Kyoto.
Il 10 luglio viene arrestato per aver manifestato per l’indipendenza coreana. I suoi scritti vengono presi in esame e assunti come prove a suo carico. Il 31 marzo del 1944 Yun Dong Ju viene condannato dalla corte regionale di Kyoto a due anni di reclusione nel carcere di Fukuoka per aver violato la quinta legge sul mantenimento dell’ordine pubblico. La mattina del 16 febbraio 1945 Yun Dong Ju muore durante il periodo di reclusione.
Ancora oggi non sono chiare le cause della sua morte. Si pensa che nel carcere di Fukuoka dov’era recluso fossero stati messi in atto esperimenti medici sui detenuti.
Nel 1948 per interessamento dell’amico Chong Chiyong, al quale Yun Dong Ju aveva affidato alcune delle sue poesie scritte in Giappone, viene pubblicata postuma la raccolta di trentuno poesie Cielo, vento, stelle e poesia.

Questa edizione è a cura di Eleonora Manzi, ed è la prima traduzione in italiano dell’intera opera poetica conosciuta di Yung Dong Ju, (Ensemble editore, 2020).

PROLOGO

Spero di guardare il cielo fino al giorno della mia morte
senza provare la minima vergogna,
anche per il vento che agita le foglie
ho provato tormento.
Con il cuore che celebra le stelle
so che debbo amare tutto ciò che va incontro alla morte
e devo seguire ogni strada
che mi è stata assegnata.

Anche questa notte il vento graffia le stelle.

20 novembre 1941

 

AUTORITRATTO

Giro solitario ai piedi della montagna, vado verso un
[campo di riso dove trovo un pozzo abbandonato e
[guardo dentro.

Nel pozzo vedo la luna splendente, le nuvole che si
[addensano, il cielo vasto che si dilata, il vento blu e
[l’autunno.

Vedo anche un uomo.
Senza una ragione lo odio e mi allontano.

Mentre mi allontano provo pietà per lui. Torno
[indietro e l’uomo è ancora là dentro.

Di nuovo provo odio per lui e vado via.
Mentre mi allontano quell’uomo inizia a mancarmi.

Nel pozzo vedo la luna splendente, le nuvole
[addensate, il cielo vasto che si dilata, il vento blu,
[l’autunno e c’è un uomo simile a un ricordo.

Settembre 1939 Continua a leggere

Fabrizio Bajec, “Sogni e risvegli”

Fabrizio Bajec

NOTA DI LUIGIA SORRENTINO

Vi proponiamo da Sogni e risvegli, di Fabrizio Bajec (Amos Edizioni, 2021) il Poema della fame, quinta sezione del libro. Le poesie sono nate dalla rivolta dei gilet gialli in Francia. E’ l’unico a essere stato scritto in italiano. Le poesie delle altre sezioni sono testi composti in francese e tradotti dall’autore. L’azione-poesia di Bajec si configura in questo lavoro “come in un viaggio di andata e ritorno dall’abisso-corpo all’intelletto più luminoso.” Raccolta meno impegnata della precedente, La collaborazione, ma non meno impegnativa nella lettura. Fabrizio Bajec sta lavorando in prosa e in versi sulle lotte sociali in Francia di questi ultimi anni.

«(…) Se si toglie a un essere umano il potere
di agire e, ancor più, quello di creare,
cosa gli rimane oltre alla contemplazione?»
Aristotele

 

POEMA DELLA FAME

I.

solerti restarono in piedi
nella loro miseria belavano
contro la nebbia avvelenata
che il governo faceva piovere
sulle teste calde e canute
dei suoi sudditi ora insorti
dalle campagne e periferie
lungo le autostrade e rotatorie
riuniti intorno a un fuoco la notte
e il giorno sotto la neve
raccolti dentro una baracca
le capanne del loro Natale
ma che le ruspe dei gendarmi
spazzano insieme ai lunghi sforzi
poi tornano i recalcitranti
riedificano sempre una base
per quanto precaria e aperta
mai resistente a sufficienza
per traversare il gelido inverno
e accogliere nuovi affamati

nuova rabbia e braccia disponibili
ora trascinano ferraglia
nei viali delle città legna
macchine a qualsiasi prezzo
con ogni mezzo le barricate
si ergono tra la vita e la morte
la santissima morte cantata
da altri cittadini in rivolta
un tiro squarcia la mascella
polverizza l’occhio di un ragazzo
fora il seno di un’infermiera
che non ha mai perso un corteo
né un treno della dignità
per sputare sulla capitale
i suoi straordinari week-end
quanti storpi sfigurati orbi
sfileranno il sabato seguente
senza dire una parola
saranno visti con bende
e fasce sanguinanti eloquenti
volete decimarci o cosa?
noi che mangiamo una volta al giorno
piangiamo tra i debiti dormiamo
anche in macchina per lavoro
se non rende abbastanza per stare

dalla parte di chi grida al caos
chi recrimina i danni pubblici
e si chiede perché distruggiamo
perché domanda una principessa
con le scarpe da ginnastica
all star converse o adidas
perché mai prendersela col lusso
che non vi ha fatto nulla e brilla
in quartieri che non sono i vostri
come potete punire così
il commercio che in fondo è la vita
ne converrete sfama i piccoli
imprenditori come può darsi
tra voi si nascondano e sfasciano
tutto quello che non possiedono
al che risposero irati
venite dalle nostre parti
venga principessa e apra
il suo indispensabile negozio
poiché è dotata non chiuderà
e risero svergognandola
come fosse l’ultima cagna
di un villaggio fantasma accorsa
per un pasto che non s’è mai visto

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Marco Conti, “La mano scrive il suono”

Marco Conti

 

Sono uscito veloce
per un momento
lo specchio ha guardato il bianco
le pieghe della camicia.
Mi è piaciuto
non incontrare gli occhi
non sapere quanto tempo è passato.
Potevo scendere
scrollare la terra dai tacchi
ma ho saputo scappare
come una lucertola
sull’orlo verde delle cose.
Se chiudo gli occhi
sono in quello specchio,
gli alberi splendidi
il mattino quasi finito,
strappato a qualcosa
che non saprei dire.

*

Com’è rapida l’estate,
queste foglie replicano
camminano verso di me.
Fuori dalla stanza vuota
lasciano un’impronta
scendono verso il confine.
Le ombre ingialliscono
come limoni,
parlano di piccole cose.

*

Versando nell’acqua

Verso le otto sono sceso
a Les Saintes Maries,
il vento è venuto meno
e così l’odore degli anni
questa polvere invisibile
che ogni mattina
scopre il mio guanciale
mentre una luce diffonde
chissà quali memorie,
quali amori vissuti, mai vissuti
oggi comunque irreversibili.
Fuori la gente, le spiagge
il freddo alle giunture.
Pure sono gentile verso il futuro
e sogno continuamente
continuamente saluto
di qua dai recinti,
indeciso tra il lutto
o una leggerezza improvvisa,
fermo su queste dune
dove sostano due sconosciuti
con le labbra morbide
come fosse mezzanotte.
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Gabriele Borgna, “Manufatti del dissesto”

Gabriele Borgna credits foto Fratelli Bodart

Al bastione del Miradore
è ancora cielo sul falso pepe,
parla un fermo d’aria
che smarca la notte da dentro.

Come in una nassa
a bocca aperta,
fra le maglie delle cose
mi anniento.

Con le parole tratto di una resa.

*

Vivo nel garrito del desiderio,
vento che raschia i caruggi.
La mancanza è un esercizio
per corpi in attrazione,
recalcitranti ma già vinti
al giogo del dissesto.

*

C’è un tracciato che non dirocca
e rimanda a questi portici di calata
smangiati dalla spuma, alle lampare
in ronda, al tocco scardinante.

Ci siamo amati anzitempo
per ridare un nome alle cose,
la gola alla sete, un’espressione
d’assoluto al gesto della mano
che ora s’incurva e rassicura
nel seme di un chiarore primitivo.

*

Restano le conchiglie
come altari ai caduti
di tutte le derive.

L’eco dei muti splende
e tace oltre il male
marchiandoci.

da Manufatti del dissesto, Minerva Edizioni, 2021

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Stefano Bottero, da “Poesie di ieri”

Stefano Bottero, credits photo Dino Ignani

Mi trascina verso il peso delle cose
questa scimmia che ho sulla schiena.
È un lembo di niente
il suo parlare indistinto,
una spina,
il mormorio del traffico.

“o re, il peso si fa spirito,
siamo una costellazione.”

Così nel tenue turbamento della nebbia di Monza
– incanto, incauto, vivo per scommessa
la vita è una sala d’aspetto
e ho perso il momento.

***

Contrappeso della mia solitudine
i miei incubi d’autostrada.
il desiderio di dimenticarti,
domani
di non dimenticarti.

Sei l’intimità della mia dissociazione,

così scivoli dietro di me come la notte
che mi adagia un nastro sulle palpebre
e lo tira da dietro.

***

A DARIO BELLEZZA, POETA

Mi hai letto una sera
come favola della buonanotte
tutti i tuoi dubbi di strano distacco,
di autocommiserazione.

Sei per me il desiderio di un passante,
l‘attesa snervante in una copisteria.
Sei le ciglia perfette di un corpo non tuo
vestito di sbagli, di amanti drogati.

Stinge di vita questa tua insistenza,
sorge ostinata questa tua finzione
egocentrica figlia
della fermata successiva.

vorrei solo cullassi anche la mia
                                 disperazione. Continua a leggere

Yang Lian, da “Origine”

Yang Lian

The Landscape in the Room

thirty-two years old heard enough lying
no landscape can ever again enter this room
a corn-faced stranger
stands at the door hawking putrid stones
displaying tongue-fur a kind of eternity ground between the teeth

they or you are both cold cold enough to want
to be vomited up like the profane pictures on the walls
memory is a whole squad of weakening addresses
autumn’s bearded weeds dead under a bare yellow-gold foot

Someone (leaning) by the window hears the herds of stars disappear
the night-long wind’s sound seems like falling pears
the empty room is thrown away

wavering and wavering again in your naked flesh
dismemberment like sky and water
wet sun forgot everything as it howled in pain
no landscape can ever again enter this landscape
to do you to death

until the last bird has also escaped into the sky
colliding within that hand frozen into blue veins

wherever you lock yourself
there the room is fixed spacious echoes
recite the darkness
bury your heart’s only landscape

lie

Il paesaggio nella stanza

a trentadue anni ha udito abbastanza menzogne
alcun paesaggio potrà entrare ancora in questa stanza
uno straniero dal volto banale
sta davanti alla porta divulgando pietre putrefatte
mettendo in mostra i peli sulla lingua una specie di territorio tra i denti

loro o tu siete freddi freddi abbastanza da volere
venire rimessi come i quadri profani sui muri
la memoria è un intero drappello di indirizzi affievoliti
come l’erbaccia barbuta dell’autunno morta sotto un piede nudo giallo-oro

Qualcuno (affacciato) alla finestra sente la mandria delle stelle scomparire
il suono del vento che dura tutta la notte assomiglia al cadere delle pere
la stanza vuota viene buttata via
oscillando e oscillando ancora nella tua carne nuda
smembrata come il cielo e l’acqua

il sole bagnato ha dimenticato tutto mentre urla dal dolore
nessun paesaggio potrà entrare mai più in questo paesaggio
a farti morire

finché l’ultimo uccello non sia scappato nel cielo a sua volta
scontrandosi in quella mano congelata nelle vene blu

ovunque ti chiuda
là la stanza è bloccata echi spaziosi
a recitare l’oscurità
seppellisci l’unico paesaggio del tuo cuore

menti Continua a leggere

Clemente Rebora (1885 – 1957)

Clemente Rebora

O PIOGGIA DEI CIELI DISTRUTTI

O pioggia dei cieli distrutti
che per le strade e gli alberi e i cortili
livida sciacqui uguale,
tu sola intoni per tutti!
Intoni il gran funerale
dei sogni e della luce
nell’ora c’ha trattenuto il respiro:
bussano i timpani cupi,
strisciano i sistri lisci,
mentre occupa l’accordo tutti i suoni;
intoni il vario contrasto
della carne e del cuore
fra passi neri che han gocciole e fango:
scivola il vortice umano,
vibra chiuso il lavoro,
mentre s’incava respinta l’ebbrezza.
Ma tu, ragione, avanzi:
onnipossente a scaltrire il destino,
nell’inflessibil mistero
a boccheggiare ci lasci;
ma voi, rapimento e saggezza
in apollinea gioia
in sublima quiete,
al marcio del tempo le nari chiudete
o mitigando l’asprezza
nella fiala soave dell’estro
o vagheggiando dall’alto
la vita, che qui di respiro in respiro
è con noi belva in una gabbia chiusa!
Un’eletta dottrina,
un’immortale bellezza
uscirà dalla nostra rovina.

Clemente Rebora, da Frammenti lirici, Libreria della Voce, Firenze, 1913 Continua a leggere

Marco Munaro, “Le falistre”

Marco Munaro

Lo senti l’odore fresco nell’erba
premere contro la faccia schiacciata
per terra? Fa male? Prendimi il braccio,
stòrzamelo dietro la schiena
fino a quando se non grido, pietà!

***

Prima di tutto l’odore, di maggio,
e poi magari anche i fioretti, quando
le risa delle bambine feriscono
l’aria e le candele rubate accese
per loro bruciano di desiderio.

La luce monta s’inselvatichisce,
gli uccelli diventano proprio pazzi
come nei libri di lettura, e file
di operose formiche vanno e vengono
verso la dispensa in cucina mentre
ronzano calabroni e coccinelle
e l’erba è alta come in una fiaba.

La notte non verrà neanche stanotte.
La luna è piena e rossa ed il profumo
delle rose stordisce: sei seduto
sulla soglia di casa, insonne, annusa
la terra bagnata nelle mutande

***

Devo uscire – aria invernale
o primaverile ma tersa –
e apparire nell’orto.
Devo sfasciare tutto.

***

Ricorda il male che,
per il tuo bene, ti hanno fatto.

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Seamus Heaney, “Field Work”

Seamus Heaney, ph. Luigia Sorrentino – Roma, maggio 2013

RECENSIONE DI ALBERTO FRACCACRETA

 

L’espressione field work nella sua lingua originaria non evoca solo l’ambito georgico, ma sembra presupporre la ricerca scientifica «sul campo». Nel 1979 Seamus Heaney, dopo il graffio politico e metafisico di North (1975), manda alle stampe la sua quinta silloge (l’ultima in ordine di tempo pubblicata in Italia, ancora grazie alla cura generosa di Marco Sonzogni e Leonardo Guzzo), che segna un passaggio inderogabile all’interno della vicenda poetica ed esistenziale dell’autore irlandese: registra cioè con i dieci Sonetti di Glanmore, cuore pulsante dell’opera, il travagliato trasferimento (di un «émigré interno») da Belfast a Dublino, dall’Ulster all’Eire. Il «lavoro sul campo» si rende dunque tanto più necessario quanto più urgente: Heaney sente di dover conciliare la contemplazione all’impegno civile con un approccio lirico orientato sulle cose, prone e sicure, nel momento in cui il suo paese sta soffrendo una lacerante lotta intestina (sintomatica è la traduzione dell’episodio dantesco di Ugolino, posta in chiusura di libro).

Quali sono i temi principali della raccolta? «L’altezza della poesia — commenta Guzzo nell’introduzione —, la malinconia del ricordo, la memoria personale e familiare, l’amore carnale e spirituale (espresso con le metafore naturali, splendide e inconsuete, della lontra e della puzzola)». Così il sapore sapido delle ostriche che risveglia «al verbo, al puro verbo», l’isola «piena di rumori sconsolati», l’omphalos «invisibile» e «inviolato», il sorso d’acqua che ingiunge di ricordarsi del donatore, la giovane Musa gutturale («mentre la sua voce fluiva e sguazzava nel riso / mi sentivo un vecchio luccio ornato di piaghe / che sogna di nuotare lambendo vita dalla bocca tenera») sono segnali lampeggianti non della rivendicazione di un’unità algida e ideologica, bensì di un senso di appartenenza al reale, vischioso, terrigno.

Il tradurre — attività che impegna Heaney in quegli anni di profondo cambiamento e di un (problematico) ritiro-clausura nel mestiere di poeta — diviene lo strumento epistemologico a presa diretta con cui agguantare la sfuggente essenza del mondo, effettuare il transito di umanità («Vocali arate dentro altre: terra aperta. / Il febbraio più mite in vent’anni / è bande di foschia sopra i solchi, un non-suono profondo / vulnerabile al distante gargarismo dei trattori»). Anche l’amore coniugale, fatto di momenti di gaudio onirico («Tutto quanto ho di te è un bosco di betulle tra i lampi») e comprensibili incomprensioni («Lei calerebbe tutti quanti i poeti dentro il nono cerchio / e li aggancerebbe, denti nei crani, le lingue a lambire i cervelli»), è il luogo in cui testare le drenate e le arature della vanga — da sempre un Leitmotiv heaniano —, nel barbaglio lucido dell’istante («tregua sulle nostre roride facce sognanti») e nell’estatico confondimento di due nature in una («il terreno / germoglia e ti tinge / il dorso della mano come una voglia — / mia unica terra d’ombra, sei macchiata, macchiata alla perfezione»). Continua a leggere

Vittorino Curci, “La ferita e l’obbedienza”

Vittorino Curci

“Credo che da sempre il principale compito affidato al poeta sia quello di liberare le parole per rigenerare il linguaggio. In questo nostro tempo però il poeta si fa carico di un altro compito, non meno importante: quello di verificare se siamo ancora vivi.”

Vittorino Curci

ESTRATTI

 

Vittorino Curci, “La ferita e l’obbedienza” (Prima edizione 2008, I libri di Icaro).
Dalla seconda edizione ampliata dall’autore sono estrapolati  gli ESTRATTI qui pubblicati, (2017 Spagine).
Spagine è un periodico di informazione culturale dell’Associazione Fondo Verri presidio del libro di Lecce.

 

1. I testi necessari

De quoi souffres-tu?
De l’irréel intact dans le réel dévasté.

René Char

Voglio raccontare queste figure. Non posso ignorarle. Sono figure eloquenti, compatte, intrattabili.
La verità della poesia è nel suo farsi confine e legge della sua stessa inutilità.
Il destino e gli sguardi si sono incrociati. Le ferite cantano.
Il poeta è colui che per debolezza o necessità alza lo sguardo, e così facendo si accorge di non avere più le vertigini.

Non sto qui con la faccia da scemo di chi vive in un mondo bellissimo che vorrebbe spiegare agli altri.
Il pianeta è ammalato e altro non ci è dato conoscere che il punto in cui ci troviamo.
Tra le cose più giuste da fare, quell’immergersi e imparare di cui parla Benn nel primo verso di Aprèslude.

Di che soffri?
Dell’irreale intatto dentro il reale devastato.

Parole condotte alla luce, battute sul corpo. I frantumi di un vaso che nessuno può mettere insieme.

“Faccùlo faccùlo” gridò più volte il ragazzo ritenendo che un solo “faccùlo” non rendesse a sufficienza l’idea di quanto fosse arrabbiato.

La stanchezza dei nostri conflitti è diversa. L’irreale ci è scoppiato addosso.
Noi siamo lanciatori di coltelli.

Con Rimbaud e Mallarmé la poesia moderna ha avviato un processo spirituale che non ha precedenti nella storia dell’umanità, una vera e propria rivoluzione incentrata sul linguaggio a cui, per la prima volta, viene data la possibilità di parlare apertamente di se stesso.
Le parole infatti non sono del poeta. Anche se egli arriva al punto di inventarle, esse di fatto non gli appartengono. E allora, se le parole non sono del poeta, di chi sono? Della comunità linguistica cui il poeta appartiene? Oppure dell’umanità nella sua interezza?
Se queste domande hanno senso – e se hanno un senso, indicano una direzione nella quale cercare – io dalla mia esperienza ho imparato che nella vita di ogni giorno si usano le parole per dire qualcosa.

In poesia invece sono le parole che vogliono dire qualcosa. Scrivere poesia perciò vuol dire essenzialmente ascoltare.

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E’ morto Giancarlo Majorino

Giancarlo Majorino

Lutto nel mondo della poesia. Se ne va Giancarlo Majorino, nato a Milano, il 7 aprile 1928. Poeta, insegnante e drammaturgo italiano è scomparso stamattina, nella sua città d’origine, Milano, all’età di 93 anni. E’ stato Presidente della Casa della Poesia di Milano, dal 2005, anno della sua costituzione, a oggi.

L’ultimo suo libro è stato pubblicato nel 2018, La gioia di vivere (Mondadori, Collana Lo Specchio) dalla quale è tratta la poesia che qui vi proponiamo.
.

davvero bell chiaro troppo
di non so quanto
e soltanto chi sta sotto
potrà comprendere rivivere
sia Gesù sia Marx l’han detto

e poesie non notizie (dopo, dopo)
nonché’ l cervello di uno dei ceti medi
come qui può cominciare a scrivere
chi sta sopra non può dirigere niente
chi sta sotto potrebbe ma è assai difficile

ma poi quando un uomo grida aiuto
un uomo una donna una vecchia un bimbo
è come se il mondo si fermasse
case mute zitte finestre chiuse
tutto ciò parla o o urla o tace sale s’agita

 

Da: La gioia di vivere (Mondadori, 2018) Continua a leggere

Luisa Delle Vedove, “Nella consuetudine del tempo”

LUISA DELLE VEDOVE

I

un silenzio terso
muove dalle pietre
memorie e solitudini,
qui nel greto il vento ha suoni erosi
solo gli animali docili alle tane
si tengono stretti
al senso della pioggia

II

non posso dire delle foglie
dei giri ampi prima del cadere
di quel secco lieve sull’asfalto,
ho visto un ramo tremare
giovane nelle foglie
la luce metterlo in disparte,
come dire “è l’autunno”
ai gridi alti degli uccelli
anche se il morire
è in qualcosa di grande?

III

una nebbia come un’insonnia
si ripete ossessiva,
dico – taci, non chiamare altre voci!
ma la terra
– l’ora che cresce –
ha i passi sotterranei di tanti;
tra i rami
senza carne
si addensa un alito
dov’è lo sconosciuto? –
cosa vuole dirmi
con quell’alito
che si asciuga così in fretta?

IV

brulica ancora il giorno
tra le lontane case,
la sera nel dopo si posa
e il silenzio alla sua ultima riva
ne divide piccolo
e grande il mare,
dove picchi di roccia
aspettano nudi i venti

V

in questa notte disabitata
– in questo luogo –
guardo le luci accese:
non dureranno molto,
il buio qui è più denso
e sulla riva più stretta del giorno
non so quanto di sabbia rimane

VI

ora che l’invernale attanaglia
i fusti nudi dei pioppi,
nel petto la terra
con un gemito si dissoda
nelle braccia profondamente il fiume,
qui potrei morire
e non sarebbe violenza,
ma un dissolversi lento in polvere
e suono

VII

l’aria è ampia
piena di stelle,
le ultime mani tremule
sulle betulle
e il vento il vento…

– siamo qualche movimento verso il dopo
e già si muore
qualche movimento
e appena appena un poco –

oh, immensa notte
c’è come un pulsare d’eterno
in questo tacere delle cose
un’attitudine
e il tuo pulsare
ha salde tenebre

e dirti non basta

immensa e notte

immesa e notte!

 

 

 

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Zeichen, il poeta che orienta il pensiero

Valentino Zeichen

Il poeta

Presumibilmente,
sembro un poeta di elevata rappresentanza
sebbene la mia insufficienza cardiaca
ha per virtù medica il libro «cuore».
Abito appena sopra il livello del mare
mentre la salute, la purezza, la ricchezza
e gli sport invernali
stazionano oltre i mille metri.
Perciò mi ossigeno respirando l’aria
dei paradisi alpini
così arditamente fotografati
dagli scalatori sociali
nonostante la pericolosità dei dislivelli.

A Evelina, mia madre 

Dove saranno finiti
la veduta marina,
il secchiello e la paletta,
e i granelli di sabbia
che l’istantaneo prodigio
tramutò in attimi fuggenti,
travisandoli dal nulla
in un altro nulla?
Dove sarà finito l’ovale
di mia madre
che fu il suo volto e
che il tempo ha reso medaglia?
Perché non mi sfiora più
con le sue labbra,
dove sarà volato quel soffio
che raffreddava la
mia minestrina?
Dove le impronte di quel
lesto e disordinato
sparire delle cose?
In quale prigione di numeri
è rinchiuso il tempo?
Rispondimi! Dolore sapiente,
autorità senza voce.

La Poetica

Nel tagliarmi le unghie dei piedi
il pensiero corre per analogia
alla forma della poesia;
questa pratica mi evoca
la fine perizia tecnica
di scorciare i versi cadenti;
limare le punte acuminate,
arrotondare gli angoli sonori
agli aggettivi stridenti.
È bene tenere le unghie corte
lo stesso vale anche per i versi;
la poesia ne guadagna in igiene
e il poeta trova una nuova Calliope
a cui ispirarsi: la musa podologa.

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Elisa Donzelli, “Album”

Elisa Donzelli / credits ph. Chiara Vettraino – © All Rights Reserved – Vietata la riproduzione –

di fronte a un quadro di Rembrandt

solo di spalle
mi ricordo di me
alla National Gallery

non toccatemi la testa
non fingete di apprezzare
la bambina che disegna per ore
a terra
mentre il padre la vuole
fotografare.

Non sono io il quadro
del vostro passaggio
ho occhi solo per il contorno
della figura vedo il suo “stare
nel mondo”, la linea
che divide la pelle
dall’aria di un paesaggio
liminare che non è dentro
e non è fuori
da tutto il resto
ma tocca
la linea
di fondo.

***

afrodite

l’arabo che ti insegue
da giorni ha studiato tutto
di te i dintorni
l’ora in cui scendi
a prendere la frutta
nel mercato di Porta Palazzo
dove tocchi la stessa
frutta che toccano tutti
e che quasi sempre
è merce che proviene
già matura, senza bisogno
di usare altre mani
per disfarla.

Oggi leggo che dal Kansas
hanno portato una mostra
per esporre i vestiti
sopra alla domanda ricorrente
che ingenera il pregiudizio
a danno dello scandalo “What
were you wearing?”

Se sei venuta qui
è per stare solo tra noi
a vedere che i corpi
che non si compenetrano
si assomigliano, come il mio
corpo che a vent’anni
non è stato piú puro del tuo
piú impuro del prima
e del dopo quando a Ostia
siamo scese dall’auto,
con i vestiti da parte
per superare i cancelli
e rientrare a ritroso nel mare Continua a leggere

Nanni Cagnone: “La poesia è un’opera estranea”

Nanni Cagnone e Sandra Holt

I

Unico vanto, aver resistito lungamente a me stesso. Nel disadorno ovunque e nel fulgore che raramente, ne l’affamato strepito del giorno e notturno scivolare, io con quel lui ch’ognor m’impiglia.
Ogniqualvolta mi trovo a citare parole sue, devo convenire che il me che parla dorme cammina non è colui che scrive, e scrivendo sfugge agli scricchiolii del palcoscenico quotidiano. Siamo in due, e incerti i legami: storico io, metastorico lui. Miei i fastidi le fatiche i malanni, suo l’arrovellar parole. Benché spesso inquieta o rissosa, tale residenza lo pone altrove, in salvo dalle cattive notizie, dalla ripetizione e dai minimi orrori a cui la normalità non può sfuggire. Non so pensare in quel suo modo estraneo. Ha forma diversa la sua necessità.
Non sto alludendo a una scissione dell’Io, né all’esistenza d’un sosia, spettro o alterego che sia ispirato o e – letto. Sto dicendo che la prima persona, quella che non scrive, deve scomparire, e la storicità farsi da parte.
Dubito che lui sia un soggetto. In certo modo, sembra dipendere. In pratica, io posso parlare di lui, ma lui non può far altrettanto. Non sa cosa stia scrivendo, e ancor meno qual senso possa avere ciò che scrive. Secondo me, ogni volta non sa piú quel che credeva di sapere, e altro non impara. Quando fa ritorno, quando si ricongiunge, devo affrontare una perdita. La banalità di tale condizione sembra insuperabile.
Ero stato piú chiaro – o meno noioso – molti anni fa: «La poesia è un’opera estranea, cosa che il sonno insegnerebbe al risveglio».

II

Mancandosi,
vuoto nessuno, asola
che non coniuga bottoni
o su erbosità una melma.
Si contenta cosí
questa indocile età
che pondera ancora
fremiti, o perde
sua guarnigione.

Sorrisi del tempo
di guerra, scontornati.
Un freno a ceppi
in fondo al carro,
la stessa virtú
dei ricordi.

III

Su uno dei declivi, noi,
oltre la comune sommità
mai non sapendo
se amici o nemici,
se contrariate parole.
Noi al di qua,
vanamente schierati—
dopo aver cucito
scucito racconti,
danze di guerra
a preparare il lutto,
stolida certezza
di nostra
inerpicata conoscenza.

 

IV

Non si consumasse
già mai
nostra innocenza,
e non fosse il tempo
mietitor de l’ignaro,
non muoverebbe
su inasprite stoppie
la mente adulta,
giudiziosamente
smarrita, e intimo
sarebbe ancora
orientamento.

Mi avvedo
(non è la prima volta)
di compiangere. Continua a leggere

Odisseas Elitis, il poeta della Patria

Odisseas Elitis

ETA’ DELLA DOLCE MEMORIA

Oliveti e vigne lontano fino al mare
Rosse barche da pesca più lontano fino al ricordo
Elitre dorate d’agosto nel sonno meridiano
Con alghe o conchiglie. E quella barca
Appena varata, verde, che nella pace delle acque del golfo ancora legge «Dio provvede»

Sono passati gli anni foglie e ciottoli
Mi ricordo di ragazzi, marinai che partivano
Tingendo le vele come il loro cuore
Cantavano i quattro punti dell’orizzonte
E portavano tramontane dipinte dentro il petto.

Cosa cercavo quando sei giunta con i colori del sole all’alba
Con l’età del mare negli occhi
E con la salute del sole nel corpo − cosa cercavo
Nelle grotte marine, in profondità dentro gli spaziosi sogni
Dove spumeggiava i suoi sentimenti il vento
Sconosciuto e glauco, incidendo sul mio petto il suo emblema marino

Con la sabbia nelle dita chiudevo le dita
Con la sabbia negli occhi stringevo le dita
Era il dolore −
Mi ricordo era aprile quando sentii per la prima volta il tuo peso umano
Il tuo corpo umano argilla e peccato
Come il nostro primo giorno sulla terra
Era la festa degli amarilli − Ma ricordo soffristi
Fu un morso profondo nelle labbra
Un’unghiata profonda nella pelle là dove s’incide per sempre il tempo

Allora ti lasciai

E un vento tonante sollevò le bianche case
I bianchi sentimenti appena lavati su
Nel cielo che s’illuminava con un sorriso.

Ora avrò accanto una brocca d’acqua immortale
Avrò una libertà simile al vento che scuote
E quelle tue mani dove si tormenterà l’Amore
E quella tua conchiglia dove risuonerà l’Egeo.

 

Odisseas Elitis, “È presto ancora”, Traduzione di Paola Maria Minucci, Donzelli 2011

 

ΗΛΙ ΚΙΑ ΤΗΣ ΓΛΑΥ ΚΗΣ ΘΥΜΗΣΗΙΣ

Ἐλαιῶνες ϰι ἀμπέλια μα ϰριά ὣς τή θάλασσα
Κόϰϰινες ψαρόβαρ ϰες πιό μαϰριά ὣς τή θύμηση
Ἔλυτρα χρυσά τοῦ Αὐγούστου στόν μεσημεριάτιϰο ὕπνο
Μέ φύϰια ἢ ὄστραϰα. Κι ἐϰεῖνο τό σϰάφος
Φρεσϰοβγαλμένο, πράσινο, πού διαβάζει ἀϰόμη στήν εἰρήνη τοῦ ϰόλπου τῶν νερῶν Ἔχει ὁ Θεός

Περάσανε τά χρόνια φύλλα ἣ β ότσαλα
Θυμᾶμαι τά παιδόπουλα, τούς ναῦτες πού ἔφευγαν
Βάφοντας τά πανιά σάν τήν ϰαρδι ά τους
Τραγουδοῦσαν τά τέσσερα σημεῖα τοῦ ὁρίζοντα
Κι εἶχαν ζωγραφιστούς βορι άδες μές στά στήθια.

Τί γύρευα ὅταν ἔφτασες βαμμένη ἀπ’ τήν ἀνατολή τοῦ ἥλιου
Μέ τήν ἡλιϰία τῆς θ άλασσας στά μάτια
Καί μέ τ ήν ὑγεία τοῦ ἥλιου στό ϰορμί —τί γύρευα
Βαθιά στίς θαλασσοσπηλιές μές στά εὐρύχωρα ὄνειρα
Ὅπου ἄφριζε τά αἰσθήματ ά του ὁ ἄνεμος
Ἄγνωστος ϰαί γλαυϰός, χαράζοντας στά στήθια μου τό πελαγ ίσιο του ἔμβλημα

Μέ τήν ἄμμο στά δάχτυλα ἕϰλεινα τά δάχτυλα
Μέ τήν ἄμμο στά μάτια ἓσφιγγα τά ὃ δάχτυλα
Ἤτανε ἡ ὀδύνη —
Θυμᾶμαι ἧταν Ἀπρίλης ὅταν ἔνιωσα πρώτη φορά τό ἀνθρώπινο βάρος σου
Τό ἀνθρώπινο σῶμα σου πηλό ϰι ἁμαρτία
Ὅπως τήν πρώτη μέρα μας στή γῆ
Γιόρταζαν τίς ἆμαρυλλίδες — Μά Θυμᾶμαι πόνεσες
Ἤτανε μιά βαθιά δαγϰωματιά στά χείλια
Μιά βαθιά νυχιά οτό δέρμα ϰατά ϰεῖ πού χαρ άζεται πανιοτινά του ὁ χρόνος

Σ’ ἄφησα τότες

Καί μιά βουερή πνοή σή ϰωσε τ’ ἄσπρα σπίτια
Τ’ ἄσπρα αἰσθήματα φρεσϰοπλυμένα ἐπάνω
Στόν οὐρανό πού φώτιζε μ’ ἕνα μειδίαμα.

Τώρα θά ’χω σιμά μου ἕνα λαγήνι ἀθ άνατο νερό
Θά ’χω ἕνα σχῆμα λευτεριᾶς ἀνέμου πού ϰλονίζει
Κι ἐϰεῖνα τά χέρια σου ὅπου θά τυραννιέται ὁ Ἔρωτας
Κι ἐϰεῖνο τό ϰοχύλι σου ὅπου θ’ ἀντηχεῖ τό Αἰγαῖο.

Οδυσσέας Ελύτης

da “Οδυσσέας Ελύτης, Προσανατολισμοί”, Atene, 1940 Continua a leggere

La poesia di Vladimir Holan

Vladimir Holan

Je jaro … V noci, v hodinu lichou
slyšel, jak pláče réva,
ačkoli veliký hluk dělala voda,
ztrácející se z rybníka dírou,
kterou do hráze navrtal úhoř …
Co mu zbývalo, než aby,
zamilován až po uši hudby do mizení,
propadal hrdlem vzlyků útrpnému právu němoty?
A přece, ejhle, krása pojednou
a milost, s kterou nám ji sdílel!

 

E’ primavera… Di notte, nell’ora vana
udì gemere la vite,
nonostante il forte rumore dell’acqua
che si perdeva dallo stagno attraverso un foro
scavato nella diga dall’anguilla…
Che altro restava a lui, se non patire,
innamorato fino al collo della musica che svanisce,
il pianto e la tortura della mutezza?

***

Spatřil ji jenom jednou.
Ale od té chvíle žasl
a začal předzpěvovat, aniž měl komu,
a začal spoluzpívat, aniž kdo s ním šel…
Po celý rok osmělil se ji takto zbožňovat,
přítomný do budoucna, jak už doufal,
zatímco netuše se těžce vracel
od Panny Marie k Evě …

Potom jí napsal.
Byl to muž a měl tedy strach.
Přečtla si jeho dopis při světle krbu,
do kterého jej potom vhodila.
A on si přečetl její odpověď při světle od sněhu,
který nikdy neroztává …

La vide soltanto una volta.
Ma da quell’istante stupì
e intonò un canto ma non sapeva a chi,
e intonò un coro ma nessuno lo seguì…
Osò adorarla così per un anno intero,
presente per il futuro, come ormai sapeva,
laddove ignaro pesantemente ritornava
da Maria Vergine a Eva….

Poi le scrisse.
Era un uomo e quindi aveva paura.
Lesse la sua lettera alla luce di un camino
nel quale poi la gettò.
Ed egli lesse la sua risposta alla luce di una neve
che mai si scioglie…

***

Zimničné paprsky lůny
a třesoucí se ty, ubohý Mozarte!
Prstomluva hluchoněmých není tak šílená,
protože při ní jsou aspoň dva živí …

Cítíš budoucně skonalý čas …
Kdyby tak najednou přišel aspoň jeden z těch,
co budou na tvém pohřbu,
a tedy nikdo!

Febbrili raggi della luna
e tu tremi, misero Mozart!
Il diteggiare dei sordomuti non è così folle,
perché in esso i vivi sono almeno due…
Senti prossimo il tempo finito…
Se almeno uno d’improvviso venisse di coloro
che saranno al tuo funerale,
e dunque nessuno!

Vladimir Holan, dai Quaderni di Traduzioni, XV, Aprile 2013 (Rebstein), cura e traduzione di Sergio Corduas. Continua a leggere

Addio a Francesco Scarabicchi

Francesco Scarabicchi, ph Ansa

Non somigliarmi,
non avere, con me, niente in comune,
lascia che sia, ogni volta,
l’imprecisa dolcezza di un saluto
a condurre i tuoi passi
e quel tremore trepido che guarda
il niente per cui è dato consegnarsi.

*

Porto in salvo dal freddo le parole,
curo l’ombra dell’erba, la coltivo
alla luce notturna delle aiuole,
custodisco la casa dove vivo,
dico piano il tuo nome, lo conservo
per l’inverno che viene, come un lume.

*

«Così dunque si muore
tra bisbigli
che non sai afferrare».

*

«E dopo?
Dopo semplicemente,
la vana solitudine del sogno».

*

«Viene
l’aria dell’anno
dal giardino:

cosa avrà in serbo
il giovane gennaio
col suo gelo?»

da “Il prato bianco”, Einaudi, 2017

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Una poesia di Juan Vicente Piqueras

Juan Vicente Piqueras

Palme

Nasciamo dalla sete. Siamo palme
che crescono a forza di perdere
i propri rami. I tronchi sono ferite,
cicatrici rimarginate dal vento e dalla luce,
quando il tempo, quello che fa e quello che trascorre,
occupa il cuore e lo trasforma in nido
di perdite, ne erige la sua aspra colonna.

E per questo le palme sono allegre
come coloro che hanno saputo soffrire in solitudine
e ora si cullano nell’aria, spazzano nubi
e dalle loro chiome consegnano
inni alla luce, fonti di fuoco,
ventagli a dio, addio a tutto.
Tremano, testimoni di un miracolo
che conoscono soltanto loro.

Siamo come la sete delle palme
e ogni ferita aperta verso la luce
ci fa sempre più alti, più felici.
Perdite sono i nostri tronchi. È trono
il nostro dolore. Non è bello
soffrire ma bisogna aver sofferto
per sentire, come un intimo nido,
la meraviglia dei sopravissuti
che ringraziano l’aria, e poi scoppiano
per l’alta gioia in mezzo al deserto.

Juan Vicente Piqueras, una peosia da Palme, Empirìa, 2005

Palmeras

Nacemos de la sed. Somos palmeras
que van creciendo a fuerza de perder
sus ramas. Y sus troncos son heridas,
cicatrices que el viento y la luz cierran,
cuando el tiempo, el que hace y el que pasa,
ocupa el corazón y lo hace nido
de pérdidas, erige
en él su templo, su áspera columna.

Por eso las palmeras son alegres
como los que han sabido sufrir en soledad
y se mecen al aire, barren nubes
y entregan en sus copas
salomas a la luz, fuentes de fuego,
abanicos a dios, adiós a todo.
Tiemblan como testigos de un milagro
que sólo ellas conocen.

Somos como la sed de las palmeras,
y cada herida abierta hacia la luz
nos va haciendo más altos, más alegres.
Nuestros troncos son pérdidas. Es trono
nuestro dolor. Es malo
sufrir pero es preciso haber sufrido
para sentir, como un nido en la sangre,
el asombro de los supervivientes
al aire agradecidos y estallar
de alta alegría en medio del desierto.

Juan Vicente Piqueras, una poesia da “Palmeras”, 2007 Continua a leggere

Le Ottave di Emilio Rentocchini

Emilio Rentocchini, per gentile concessione di Giorgio Giliberti

NOTA DI LETTURA DI LUIGIA SORRENTINO

Emilio Rentocchini è un poeta grandissimo e raro. Scrive ottave in endecasillabi in un idioma sassolese, una lingua scomparsa quasi reinventata dal poeta, che sopravvive nella sua memoria, una lingua di mezzo tra il modenese e il reggiano. Véver e basta uguel a trasparir (Vivere e basta equivale a trasparire), verseggia il poeta come un menestrello, con una voce antica e ultima, e raccoglie nella forma stretta del verso, la verità più profonda: il valore della vita.

Ecco che l’aspetto del linguaggio elevato a simbolo, diventa sostanza, essenza, al di là dell’apparenza delle cose, argine al quale appigliarsi, e nella pronuncia, la lingua  si fa slavina,  neve che si stacca dalla montagna e scivola via.

Grazie alla pubblicazione di Lingua madre, (Incontri Editrice, Sassuolo, pp. 296, euro 14), è possibile attraversare tutta la produzione in versi di Emilio Rentocchini.

L’opera raccoglie le poesie di Otèvi (1994), Segrè (1998), Ottave (2001), Poediànt (2004), Giorni in prova (2005), Stanze di confine (2014).

Le ottave del poeta di Sassuolo sono 256, composte nell’arco di più di vent’anni in una gabbia metrica che rimanda al Boiardo e all’Ariosto, straordinari poeti della sua terra. Ogni poesia è accompagnata dalla traduzione in italiano, una variante “autosufficiente e persuasiva”, come ebbe a definirla Giovanni Giudici.

195

Véver e basta uguel a trasparir
e ander via veirgin, soul chi gh’la fa a fer
dla sô realtê un sìmbol al sa sintir
d’esr esistî; l’è deintr al spec mea cer,
panê, ch’i armàgnen lè i noster respir
mai pers: nueter, segrét, in al penser
di eter. Palida luna al dopmesdè
t’ê la risposta in me ai dè d’in dè.

Vivere e basta equivale a trasparire
e andarsene vergini, solo chi fa
della sua realtà un simbolo sente
di essere stato; è nello specchio
appannato che restano i nostri respiri
non perduti: noi, segreti, nel pensiero
degli altri. Pallida luna del pomeriggio
sei la risposta, in me, ai giorni comuni.

199

Al fiour, òreb e mót, al seint chi al guerda,
as lancia incountra a l’aria a l’incontrari
léber da la sô tera ed gera o merda
e al sa d’eser dla lus dal lucernari
fiurand, ed véder, anch per chi an le guerda.
Se un po’, dre grot seinsa n’intestatari
do tótt l’è melta e gresta, as volta al clour
d’un pisalet pulvreint, mai piò dulour.

Il fiore, cieco e muto, sente chi l’osserva,
si slancia incontro all’aria all’incontrario
liberato dal terreno di ghiaia o sterco
e sa di essere della stessa luce del lucernaio
fiorendo, di vetro, pure per chi non lo guarda.
Se poi qualcuno, lungo dirupi privi di intestatario
dove tutto è argilla e crosta, si volge al colore
di un piscialetto polveroso, mai più dolore.

da: Lingua madre, (Incontri Editrice, Sassuolo, 2016) Continua a leggere

La poesia di Stefano Dal Bianco

Stefano Dal Bianco

Il filo

Camminando per la mia stradina al buio
ho attraversato un filo
di ragnatela, e me ne sono accorto
perché l’ho attraversato con la faccia
mentre camminavo.

Così mi accorgo sempre
quando un altro filamento mi attraversa,
ben diverso, anche se ora non ho tempo
di spiegare cosa sia, adesso,
che mi fa concentrare su qualcosa
di molto più importante,

però questo secondo filo
mi attraversa veramente
da parte a parte, e non importa
che ora non sia importante.

***

Come si riferisse a un vento che ora non c’è
sembrava avesse senso
la preghiera del castagno tra i castagni,
di una vita nel tempo dispersa e
presente lì nel varco
tra le fronde che apre alla campagna.

Ma come sarebbe se il vento
che ora non c’è non avesse
vegliato su noi sulla nostra, preghiera
di farci stare qui
in vista di un castagno
che si sporgeva alto tra i fratelli.

***

Adesso l’ombra mia e del lampione spento si confondono
una sull’altra, e vanno sull’alloro.
Quando il sole era alto
hanno potato e abbassato la siepe
ma la sua carne fitta
la sua densa sostanza proietta
di sole in sole sempre su se stessa
l’identica figura
covandola nel fondo
in sua semenza scura.

***

Spazza la terra oggi meravigliosamente il vento
e mi porta con sé, se non mi atterra.
Può darsi sia pericoloso uscire
per via dei rami che cadono schiantandosi,
ma il rombo che si insinua per le strade
quando si placa temporaneamente
lascia una specie di attesa,
di sospensione nell’insidia
che corre il rischio di convergere
in attenzione a sé,
sempre che la paura si trasmuti
in temerarietà, e poi in onnipotenza
e poi in quella strana pace
che hanno gli animali
quando ritraggono gli dei
e qualche volta noi. Continua a leggere

Piero Bigongiari, “La lama della verità”

Piero Bigongiari

Vale la pena di rileggere oggi le poesie di Piero Bigongiari poeta fra i maggiori del Novecento, pubblicate da Vallecchi nel 2021 con il titolo “L’enigma innamorato” (Antologia, 1933-1997) a cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi, con l’introduzione di Milo De Angelis.

Intenso e profondo il ricordo di De Angelis dell’amico e maestro Bigongiari che scrive: “I versi di Piero Bigongiari avevano il potere di imprimersi subito nella mia mente. Erano – e rimangono – sapienti, fulminei, perentori, capivi di entrare nelle zone più profonde, di rovesciare ogni luogo comune e trasformarlo in sentenza. Hanno dentro di sé la luce del paradosso e la lama della verità.”

 

A LABBRA SERRATE

Un’ombra ancora, un’ombra che non scompare
come un disco pieno di propositi,
e questo cielo senza vittoria per nessuno,
le mani calde, la bocca amara d’amare.

Inutile parlarvi, miei morti sconosciuti,
inutile cercarvi, voi uomini della terra,
per la troppa terra che nasconde il vostro cielo,
solo vostro è il cielo per cui soffriamo tutta la terra.

Tutta la terra e gli errori penosi perché piccoli,
le stragi come muri d’argilla a ridosso dei quali ci ripariamo,
con un fazzoletto scarlatto asciughiamo il sangue per non vederlo
con uno bianco le lacrime per non piangere.

Con un passo più lungo commettiamo la stanchezza, a che cosa?,
la rosa in un vortice repentino scopre la primavera in un deserto
e le stagioni si salvano dai cannoni ma non dagli sguardi degli uomini
che forse esistono sulla terra per uno scompenso di menzogne
come il vento in un dislivello barometrico.
Asciughiamo le lacrime anche con le parole,
con la fucileria più fitta, con gli amici che salgono le scale.
E inventiamo d’andare a letto, per inventare qualcosa,

mentre sentiamo che la vita divaria dalla morte
veramente, non c’è dubbio, ma siamo stanchi lo stesso,
come quando stanchi della musica ascoltiamo solo gli strumenti.

15 aprile 1944

 

INNO PRIMO

Se è durare o insistere, non oso,
le miche ancora splendono, o s’oscurano,
i paesi ritornano visioni,
il falco che ha predato a lungo i cieli
su un abbaglio di messi, di deserti,
di vetri dietro cui spiano fanciulli,
è morto sulla strada impolverata.

Nella memoria quello che d’eterno
s’intorbida o si schiara, non tentarlo:
segui le tracce lievi, le più rare,
il fil di fumo, l’allegria di un merlo;
non puoi tenerlo, e pure ti sostiene,
l’abisso disperato per cui speri,
e se è un vuoto lo ieri, un vuoto quello
che al tuo occhio s’illumina, ma, vedi,
fiorisce, si diffonde, cretta i massi
più densi, si dirama, esplode, è quello
che diroccia il futuro e ti fa strada:
le valli si riempiono del suono
delle valanghe, si ripete il tuono
di giogo in giogo, è il fulmine che lapida.

Dove passasti ritornare è come
non più pensare d’essere, ma esistere:
ritrovare la strada, il vento torbido
della mattina che ritorna luce,
la rada gioia che infittisce se altra
gioia vi mesci, fine lieve gioia
d’un amore deciso, raccapriccio
d’un amore reciso: tutto, vedi,
ti abitua a distaccarti un po’ per volta
dal crudo magma che t’involge e soffoca.

Nella memoria è un che d’eterno, cedilo
cedilo alla memoria se rivedi
l’orto tornato al sole, se le labbra
ancora tormentarle riodi amore,
abbandónati a questo inconsistente
pulviscolo di cose e di pensieri,
abítuati all’inferno dell’effimero:
ieri è già eterno se altro tempo cade
dal suo cielo e vi porta visi, cose
fuggiasche nella loro lenta traccia;
questa la loro libertà: seguire
lievi il declino, dirizzarsi dentro
la loro gravità che le raccoglie
e le figge quaggiù dentro la ghiaccia
senza un grido; ma è un cielo che si semina
e si rapprende qua dove la brina
non regge, dove migrano le nuvole,
sui campi in cui la neve già s’incrina.
E già il tempo scolpisce fitto e lieve
il suo passato, l’impeto suo incupa
le forre, arrossa le orbite stellari,
strappa dai casolari qualche squilla,
e le erme se hanno un volto, è un volto ambiguo:
non volgerti di qua, la strada è quella
dove io non sono, dove tu non sei,
dove parla più arguto il vento esiguo.

13 – 22 febbraio 1953
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