“Olimpia”, un discorso critico a dieci anni dalla prima pubblicazione

Luigia Sorrentino – di Angelo Nitti

La morte e la poesia: Olimpia di Luigia Sorrentino

di Giorgio Galli

Al centro di Olimpia di Luigia Sorrentino (Interlinea, 2013) vi è un après-midi, un oltre. Tutta l’opera è calata nella dimensione di ciò che è già accaduto; persino il tempo è svanito ed è entrato, dopo la terribile lotta tra forze arcaiche e primordiali, in uno spazio assoluto. Il centro di questa poesia è lo svanire, il dissolversi della dimensione umana. E proprio la persistenza di ciò che è irrimediabilmente perduto stabilisce un cardine tra la poesia di Luigia Sorrentino e il mito fondatore della poesia, quello di Orfeo. Perché cos’è la poesia se non quella volontà di riportare in vita Euridice, quella fede in una forza del canto che trascenda il limite delle parole? Milo De Angelis definisce questa poesia “orfica”, una poesia che si muove oltre la vita e al di là di essa, in un continuo richiamare ombre, per cristallizzarle o per sottrarle al tempo: o che trasforma in ombre altre creature ancor piene di vita, per fissarle o per mutare un loro istante in eternità, per poi poterlo cantare.

Se da una parte la poesia di Luigia Sorrentino intrattiene un rapporto privilegiato con la morte, è anche vero che essa stabilisce un rapporto, altrettanto forte, con la vita, con il canto attivo e vitale: ciò che è passato attraverso la morte viene rilanciato in una vita nuova. Riecheggia nell’opera la rivisitazione rilkiana del mito di Orfeo, abitatore “dei due regni” -dei vivi e quello dei morti- il quale dall’unità di queste esperienze matura che il compito del poeta è nel lodare. La poesia di Olimpia, dunque, intona l’epicedio e lo trasforma in inno. Proviamo ad andare alle origini, all’aurora della poesia. Omero cantava. La parola era un suono magico e rituale come la musica, un suono che passa e si sfa: la parola sfuggente, la chiamava con uno dei suoi epiteti formulari. A quel tempo, prima che la parola fosse riproducibile con l’artificio tecnico della scrittura, essa era una merce molto rara e quindi preziosa, sacra. La parola poetica delle origini era misterica. Ma il mistero non ha niente d’astratto. Il mistero, dice Jankélévitch, è diverso dal segreto: perché il segreto è conoscibile, ma è celato dalla volontà di non svelarlo; il mistero, invece, è patente ma inattingibile, e riguarda le cose ultime. La vita e la morte sono i più grandi misteri. Non v’è nulla d’astratto in essi: solo un’inattingibile evidenza.

Gran parte della poesia contemporanea ha allentato il legame col mistero. Anche il rapporto con la morte s’è allentato sino a rendere fatua la vita. Nessuna consapevolezza è possibile se si rimuove il nulla che anticipa e chiude la vita, il mistero tra le cui parentesi sta la vita degli individui e delle civiltà. La capacità di sentire la vita s’è persa quando la società ha abolito il suo rapporto con la morte, quando ha deciso di vivere come una società d’immortali.

Diametralmente opposta è l’operazione di Luigia Sorrentino in Olimpia, un’opera non ancorata all’autrice né al mondo che abita, la cui lingua risale alle origini per imporre tuttavia una riflessione sulla contemporaneità.

Olimpia è un poema a frammenti, che consta di otto sezioni intervallate da sette brevi prose. Il lettore percepisce le sezioni come parti di una cattedrale, che con la loro struttura confluiscono in quella dell’insieme. Queste sezioni scandiscono ritmicamente Olimpia, ne segmentano e rilanciano l’impulso originario, sì che ogni tappa del suo viaggio iniziatico contiene le precedenti e le trascende, in una continua trasmutazione dove nulla va perduto.

Sezione I: L’antro

Fin dai primissimi versi ci troviamo di fronte a due esperienze radicali e complementari: il morire e il mutare. Il morire è reso con tocchi di più immediata comprensione, di un realismo magico e stilizzato: non c’è descrizione, ma elementi descrittivi; non narrazione, ma segnali narrativi. L’altra esperienza, quella del mutare, è meno apparente, agisce come sottotesto, in un bagno rituale dominato dalla penombra e da ambivalenze verbali.
Olimpia s’apre con un gesto assertivo: “lei era lì / non era più la stessa”. Questo gesto, con il deittico lì, ci introduce fulmineo ad un rito. Scopriamo una figura femminile, che sta “attaccata alle pareti”, che sta sorgendo dalle pareti come i Prigioni di Michelangelo. C’è un altro elemento in questo paesaggio d’attesa: nulla lo definisce, sappiamo solo che è un “involo mostruoso in lontananza”. Ma questa lontananza appartiene al dove si va o al da dove si viene? In quale direzione si sta allontanando l’involo?

“Lei era un soffio chiuso / tutto era in sé pieno”. Nel momento della metamorfosi, la figura femminile inizia a esser visibile nella sua essenza: si rivela, è un soffio, ma è chiuso: spira verso il mondo, ma si rinserra. Se il moto dell’involo era ambiguo, quello del soffio è bloccato, è un tragitto incompiuto.
Il momento della metamorfosi rivela ciò che siamo, ma anche un altro momento ci rivela: quello della morte, quando la nostra storia è compiuta e non ci appartiene più. Torniamo a chiederci: a quale rito stiamo partecipando? A quello della rinascita (della trasformazione) o della morte? A ben vedere, a entrambi: il morire e il mutare sono i due volti del compiersi, ed è nel compiersi che stiamo andando. Il compiersi non ha direzione: è tutto. Non è lineare: è circolare. La morte stessa è sia il nulla prenatale, sia quello che ci attende al di là. Della figura femminile vien detto che “si rivoltava in un’altra che l’offendeva”. Questo verso è un Giano bifronte. Chi è il soggetto di offendeva? La figura femminile offende l’altra, o viceversa? Nel tempo zero in cui s’inizia il rito, anche soggetto e oggetto sono circolari.

Nel secondo frammento, un altro Giano bifronte: “enormemente udita la soglia”. Siamo dentro la soglia, siamo attaccati alle pareti, immagine metamorfica umana e minerale, viva e morta: ma stiamo uscendo dalle pareti o entrandoci? Stiamo andando a vivere o a morire? Ancora una volta, in tutte le direzioni: non si va verso il compimento, ma nel compimento. Il paesaggio rituale s’arricchisce di nuovi elementi: il “vuoto”, il “ronzio”, le “milioni di notti” che stanno innanzi a noi -o forse alle nostre spalle. La figura di lei è ritratta come una statua: ma una statua “bianca”, con pupille bianche: non colorata com’erano le statue greche in origine, ma col pallore dovuto alla mano del tempo. Dunque il tempo esiste, in quest’antro: ma è tempo dei secoli, così lento, così poco misurabile, da divenire immagine dell’eterno.

Una sola verità ci viene data con certezza: “il cuore era l’offerta”. Il rito è anche rito del donarsi. Il soffio che adesso è chiuso dev’esser liberato.

Il terzo frammento adombra un primo, quasi riottoso distacco dalla parete. Contro quella parete lei “era forma altissima”. “Il volto che l’attendeva era lì / il suo nuovo volto profondo”. Di nuovo il deittico lì. L’avevamo trovato nel verso d’apertura del poema (“lei era lì”). Ma ere geologiche sembrano separare questo nuovo deittico dal primo. L’assertività è scomparsa, è rimasta solo l’ambiguità. Dov’è questo lì? Da quale parte della soglia? Luigia Sorrentino ci getta in un universo semantico dove l’indeterminato è sia ineluttabile che incalzante.
Esso, infatti, non è immobile: un cambio significativo è intervenuto. I versi successivi dicono che “tutto stava su di lei”, e che “lei era finalmente comprensibile”: il rito inizia a snodarsi, il soffio chiuso a liberarsi: il dono può finalmente avere inizio. Ma è un inizio ambiguo: la vita sta su di lei come un peso che la opprime o come un angelo che inizia a librarsi? Non ce lo dobbiamo chiedere, abbiamo imparato che l’ambiguità è lo strumento con cui Olimpia procede nel suo compiersi.

Col quarto frammento siamo in un paesaggio diverso. È iniziato il cammino, il movimento: “quando ci dirigemmo verso la boscaglia / vedemmo in lontananza la ferrovia”. Finora il rito s’era compiuto nell’antro. Adesso esce, si estende a tutto il paesaggio, anzi crea il paesaggio con i suoi elementi; e lontani, i binari della ferrovia, con un treno che scende verso il mare. Il bosco è luogo di transito, forse di un anelito, di un faticoso ascendere: “Siamo sempre più vicini al cielo”. Ma questo avvicinarsi sembra come rimandato: il cielo non risulta lontano, piuttosto impregnato di segnali ancora indecifrabili: la nostra ascensione è un “avvicinamento carico nel vento”. C’è nel vento una voce prigioniera, che attende di esser liberata. Il vento si fa carico di un intero orizzonte di presagi. Difficile non pensare al “vento pregno di cosmico spazio” della Prima elegia di Rilke. Non siamo noi ad attendere nel vento, è il vento che si carica d’attesa.

Come i rapporti di prima e di poi, di soggetto ed oggetto, quelli di vicinanza e lontananza restano indeterminati: la ferrovia è lontana, ma il cielo è sempre più vicino. L’attesa ha creato il luogo, e il luogo il suo tempo. Anzi: l’attesa s’è incarnata nel luogo, e il luogo è tempo.
Con l’ampliarsi dell’orizzonte, anche il verso si fa più disteso, meno lapidario. Il dilatarsi del paesaggio è reso con un dilatarsi del tempo del verso: un procedimento che, ancora, richiama Rilke.
In questo orizzonte più ampio, nell’avanzare attraverso il luogo mitico, si avanza anche nel rito:

il volto si profila
il volto che siamo stati è istintivo
incarnato nel rito che si consuma qui
nella consolazione siamo venuti
mutarono i suoi occhi quando chiese
la vita eterna
la sua giovinezza si spense
divenne una cicala
poi solo una voce, un soffio
divenne

Questi versi connotano una trasformazione che è anche un’eternizzazione: si diventa ciò che si è. Dall’essere senza sapere di essere (“il volto che siamo stati è istintivo”) si passa all’essere consapevoli. Ancora troviamo un deittico, qui: ma qui dove? Dove si consuma questo rito? L’atmosfera è la stessa della caverna, eppure c’eravamo mossi verso il bosco. L’unica risposta è che il rito si consuma dentro la poesia. Inutile domandarsi dove Olimpia avvenga: essa avviene in Olimpia. Ma qual è l’avvenimento di Olimpia? La parola chiave, isolata in un unico verso, è l’ultima, divenne. E cosa si divenne? Una voce. Ciò che resiste allo spogliarsi di tutto è la voce. È la parola, messaggera fra le epoche, messaggera tra i vivi ed i morti. La parola è l’arché. E la voce può appartenere a chi subisce il rito o a chi lo celebra: non importa. Siamo abituati alla circolarità di soggetto e oggetto in Olimpia.
Piano piano il paesaggio si disincarna, gli elementi si diradano. “Siamo sempre più vicini al cielo”, si ripete. Poi

come grembo che si prepara
a ritornare estraneo ad ogni flutto
nell’uliveto deposto ogni possesso
lei chiese
sul lago conducimi con te

Il mondo da sensibile diviene interiorizzato. Il grembo interiorizza i flutti e diviene loro estraneo. È l’istante della conoscenza. “Deposto ogni possesso” la figura femminile, che nel dono si fa sempre più comprensibile, dice: “Sul lago conducimi con te”. A chi è rivolto quel conducimi? A un’alterità. E non ha l’aspetto di un invito: sembra piuttosto un comando, un Fiat lux. La parola di lei ha creato l’altro col semplice rivolgerglisi: è la parola di Orfeo, che crea Euridice per aver nominato Euridice. La parola poetica. Il bisogno che lei ha di donarsi ha creato l’alterità.

La sezione si conclude con una prosa intitolata La città. Qui compare finalmente un “io”. Finora c’erano stati il “lei” e il “noi”: il “noi” indispensabile a stabilire l’orizzonte del rito (perché il rito è sempre collettivo), e il “lei” soggetto e oggetto del rito. Ora si oscilla fra un “io” e un “noi”. Ma chi li dice? “Io ero insieme a lei l’attesa e il compiersi nello stesso istante… comprendevo e riconoscevo proprio quanto di più raro era lei per essersi così improvvisamente aperta.” L’altro, appena creato, è unito a lei da un destino. L’alterità è tutti, è la città. Come in una Genesi allo specchio, lui e la città nascono da una costola di lei, dal suo bisogno di donarsi.
La parola di Olimpia è spoglia e oscura come la parola liturgica. Niente artifici retorici, nulla d’estetizzante. C’è però un ritmo. Il ritmo è indispensabile al compiersi del rito. L’apparizione della città è contrassegnata da un improvviso distendersi del ritmo: dal verso si passa alla prosa. Siamo ad una stazione del rito, e a segnalarla interviene un cambio nell’ordine musicale del poema.

Sezione II: L’atrio

Se la prima sezione era un continuo, germinante movimento di radici, un mutamento incessante e faticoso, la seconda ha atmosfere più drammatiche, più evidenti chiaroscuri:

il sole alle spalle cancella
i nostri volti
veniamo da troppa lontananza
lungo questa discesa
nel porticato
altre colonne ci avvolsero
con le loro braccia

L’ingresso all’atrio è un atto decisivo, ma non una cesura. Il sole è alle spalle, ma è. Nell’orizzonte di Olimpia, il passato non passa: è una forza che continua ad agire. “Veniamo da troppa lontananza”: veniamo, infatti, da tutta la storia della poesia. Se l’arché è la voce, la voce che dice e che crea, quello che stiamo attraversando è un paesaggio culturale, un deposito di memoria che salda le diverse epoche storiche. Come le rose del bosco erano tutte le rose cresciute dall’inizio della terra, ora le colonne sono tutte le colonne di tutte le città. Il morire, il mutare non sono più dimensioni individuali: sono collettive, storiche e mitiche. L’orizzonte della lirica si salda a quello dell’epica.

Nei frammenti successivi è celebrata la lotta dell’operare umano contro la forza caducizzante del Tempo. “Enorme il tempo appoggiato / ai muri”. La trasformazione da cui siamo venuti non s’è fermata, la storia va avanti. Ma a noi interessano i depositi di storia, ciò che rimane dopo il passaggio -anche calamitoso- del tempo. La pietra trasformata dalla fatica umana presenta i segni del tempo, ma è solida, è pietra. Pietra tombale, ma anche manufatto che resiste al tempo, e perciò è imperituro. In quest’immagine l’essere umano non c’è: parla per lui il frutto del suo lavoro, che gli sopravvive. Il paesaggio che attraversiamo è un paesaggio da cui la vita è estinta. La natura è fossile, anche i manufatti umani appaiono come fossili: se si muovono, sembrano mossi da forze non più nostre. Ciò che sembra vivo è il “suono” della roccia. Ancora, ciò che rimane è una voce: voce liturgica prima, della natura adesso. L’opera del poeta sta tra la natura e il divino, è oltreumana, non più solo umana. Un monte nel paesaggio adombra la presenza del divino.

restammo vicino a quelle case
apparivano come in un disegno infantile
dai muri risalivano
statue di divinità femminili

L’elemento del paesaggio (le case) si precisa in un segno: un segno stilizzato, quasi un disegno infantile. La figura femminile si moltiplica: prima era apparsa in un pallore di statua, ora si precisa in una serie di statue. Queste statue non hanno perso il contatto col muro che le aveva originate, ma lo “risalgono”. All’inizo del cammino avevamo trovato un sentiero in ascesa (“Siamo sempre più vicini al cielo”) e un treno che sprofondava. Anche le statue partecipano di questi moti verticali. Come quella nella caverna, anch’esse sono bianche: sono le statue antiche quali sono arrivate fino a noi, e non com’erano in origine, sfolgoranti di colori. Per quanto perenni siano i prodotti della Bellezza, il Tempo vi ha steso la mano.

“Fummo dotati di forza sovrumana”, recita un altro frammento, ed elenca una serie di lotte, di prove che l’uomo ha dovuto attraversare – per cosa? “Siamo tornati per scomparire / intorbidare il fondo”. Come i resti fossili, come le colonne e le statue di cui resta la traccia possente, noi “intorbidiamo il fondo”, cioè lasciamo un segno che incrina la superficie culturale dello spazio-tempo: il nostro destino è sparire e scolpirci nell’eterno. Non siamo noi a godere della nostra opera: essa si adempie negli altri e in altri tempi, nel tempo oltreumano della storia degli stili.

L’atrio si chiude con l’evocazione di una soglia (anche qui, come non pensare alla soglia delle Elegie rilkiane, consumata dal passaggio degli amanti?). Quella soglia che ne L’antro era “enormemente udita”, qui nel vestibolo prende una fisionomia sconcertante: è la soglia oltre la quale ognuno diventa tutti. Ne L’antro non conoscevamo il contenuto di questo enorme udire; ora l’apprendiamo:

poi qualcosa chiamò
precipitata e muta
lasciò che altri sapessero

-siamo colui che se ne va
abbiamo le sue gambe
le spalle, l’incedere veloce
la traccia del saluto
siamo colui che sprofonda
a un passo da noi-

Superare la soglia significa identificarsi con tutti, con tutte le morti, le partenze e gli addii, con tutto il morire il mutare e il decadere -in una parola, con tutto il dolore dell’umano. Si diventa tutti, si partecipa al dolore di tutti.

Bella e drammatica questa seconda parte, con opposizioni grandiose ed esplicite, e con quel germe di riscatto umano che sgorga da un paesaggio desolato. Bella per il “noi” che sorge e s’afferma nel discorso, poi nelle immagini, poi in un abbraccio universale che nasce dalla stessa storia umana. È una testimonianza anche civile quella offerta da Olimpia: dalla consapevolezza dell’enorme storia umana non può che nascere l’abbraccio fraterno di tutti gli uomini. Capiamo perché Luigia Sorrentino abbia scelto Olimpia, e la civiltà greca, per il suo viaggio alle radici della poesia. Non solo per andare alle origini. È che la grecità sentiva la funzione collettiva, corale della poesia, cui dava un posto nella vita della polis. Era un operare per la polis la poesia, un agire. Il “noi” di Olimpia è un “noi” da coro di tragedia. La poesia non avviene fuori dal tempo: avviene in tutti i tempi. Avviene in una civiltà estetica, ed è chiaro che l’autrice avverte una responsabilità verso la storia della bellezza, ch’è anche storia della civiltà. Una parola esatta o sbagliata aggiunge o toglie qualcosa alla storia della bellezza che è la storia umana. Olimpia non ha nostalgia della civiltà estetica. La cerca, la fiuta. Non ne cerca il ritorno perché essa è in tutte le epoche. Ne cerca i segni. Continua a leggere

Emanuele Canzaniello, poesie

Emanuele Canzaniello, Foto di proprietà dell’autore

Vi proponiamo la lettura di alcune poesie di Emanuele Canzaniello tratte da “In principio era la paura” (PeQuod, 2023)

Anche dove il piacere non sa nulla del divieto che infrange,ha pur sempre origine dalla civiltà, dall’ordine stabile, onde aspira a ritornare alla natura da cui quell’ordine lo protegge.
Solo là dove un sogno li riporta (…) alla preistoria senza autorità e disciplina,
gli uomini provano l’incantesimo del piacere.
T. W. Adorno e M. Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo

Con te nel passato
Nelle buie viscere
Senza ostacolo né premura
Nelle cavità della terra
Tra le prime ossa sepolte
E le divorate,
Lungo il Paleolitico inferiore,
Buio di due milioni di anni
E giorni e soli che non tornano
E terrori della notte.
Il primate omicida è nato
E biologia e colpa si erigono
Nei templi di pietra,
Arma e cerchio del fuoco.
La civiltà è questo doppio,
Il simulacro dei tori e dei cavalli
E l’animale ucciso,
La necessaria vista del sangue
Per il primate accresciuto
Dalla conoscenza estesa.
Con te nel passato
Nelle buie viscere,
Prima che ogni muscolo ogni spasmo
Ogni piacere conoscesse l’ordine
Che ci separa e protegge.
Le mani sulla roccia sono il grido. Continua a leggere

Daniel Calabrese. “Un cielo per le cose”

Daniel Calabrese foto di Elia Leblanc

ALLÁ EN LO ALTO

Miren hacia arriba.
La razón es una cuerda inútil
que nos ciñe la respiración.
La razón es una piedra colgando de las nubes.

Pasa un cóndor con su vuelo
lento y desgarbado.
Debe ser un viejo.
Le quedarán algunos círculos
antes de morir secretamente.
Arrastra una sombra pesada
por el fondo del valle
cientos de metros más abajo
y todavía hace temblar a muchas criaturas.
Nos observa desde lo alto:
somos un rebaño violento.

Ninguna Tebas que salvar.
No hay ahora en esta tierra una sola
muralla digna para dar la vida.
Y el cóndor, me pregunto
cómo un comedor de carroña
puede llegar tan alto.

LÁ IN ALTO

Guardate in alto.
La ragione è una corda inutile
che ci stringe il respiro.
La ragione è una pietra che pende dalle nuvole.

Passa un condor col suo volo
lento e goffo.
Deve essere vecchio.
Gli resterà qualche cerchio
prima di morire segretamente.
Trascina un’ombra pesante
lungo il fondo della valle
centinaia di metri più giù
e fa tremare ancora molte creature.
Ci osserva dall’alto:
siamo un gregge violento.

Nessuna Tebe da salvare.
Non c’è adesso su questa terra una sola
muraglia per cui valga la pena dare la vita.
E il condor, mi chiedo
come un mangiatore di carogne
può arrivare così in alto.

***

Una voz antigua me responde
como si viniera de un canto del Inferno:
tal vez no imaginaste un diablo pensador.

Hace tiempo que no veo sangre,
siglos que no mato una mosca.
Debería volver a la sed,
a los golpes imperfectos del hacha.
Pero no me agrada la especie:
nuestro rebaño ilustrado.

Que vean los oxidados
todas aquellas cosas que hay que ver,
lo que aprendimos en los barcos,
lo que pensamos con el rostro metido
en la niebla de esta sopa.
Aprendí a ensamblar un mortero de combate,
lo recuerdo muy bien: placa base,
bípode y cañón,
en menos de un minuto queda listo
para escupir al cielo.
Aprendí que el enemigo
no debería respirar dos veces.

Nadé al sol, pensé en ella.
Me hundí y me dejé llevar
por las amapolas del agua.

***

Una voce antica mi risponde
come se venisse da un canto dell’Inferno:
forse non hai immaginato un diavolo pensatore.

È da tempo che non vedo sangue,
da secoli che non uccido una mosca.
Dovrei tornare alla sete,
ai colpi imperfetti dell’ascia.
Ma non mi piace la specie:
il nostro gregge illuminato.

Vedano quelli arrugginiti
tutte le cose che bisogna vedere,
quello che abbiamo imparato sulle navi,
quello che abbiamo pensato con il volto messo
nella nebbia di questa minestra.
Ho imparato ad assemblare un mortaio
[da combattimento,
lo ricordo molto bene: piastra base,
bipiede e canna,
in meno di un minuto è pronto
per sputare verso il cielo.
Ho imparato che il nemico
non dovrebbe respirare per due volte.

Ho nuotato al sole, ho pensato a lei.
Sono affondato e mi sono lasciato portare
dai papaveri dell’acqua.

***

Debería volver a la sed.
Llevo un sonido secreto y no puedo evitar
que retumbe en mi cabeza:
es el perro tomando agua.
Ando al sol, oigo al perro de la casa.
Sueño debajo de la vieja noche
con el ruido del agua lamida por el perro.
El chapoteo se interrumpe con el paso de un tren
y luego continúa:
slap, slap,
el perro, la sed,
un reloj aplaudiendo en el silencio.

Te vi llegar, eras tan turbia.
Te vi llegar.

Ahora pasa la sombra del cóndor,
el peso de la razón que todavía lo mantiene
atado a este mundo.

Silencio, bebedor.
Silencio.

***

Dovrei tornare alla sete.
Porto in me un suono segreto e non posso evitare
che mi rimbombi nella testa:
è il cane che beve l’acqua.
Vado al sole, sento il cane della casa.
Sogno sotto la vecchia notte
col rumore dell’acqua leccata dal cane.
Lo sciacquio s’interrompe col passaggio di un treno
e poi continua:
slap, slap,
il cane, la sete,
un orologio che applaude nel silenzio.

Ti ho vista arrivare, eri così torbida.
Ti ho vista arrivare.

Adesso passa l’ombra del condor,
il peso della ragione che lo mantiene ancora
legato a questo mondo.

Silenzio, bevitore.
Silenzio. Continua a leggere

Fernando Della Posta, da “Ricostruzione delle favole”

Fernando Della Posta – Foto di proprietà dell’autore

Tuscania

Alte torri come grida sul paesaggio,
massicce, che si perdono prima del cielo,
affermano con forza d’esser figlie
anch’esse della genia testarda.

Ma nel silenzio assolato del lago
ritrova la sua statura e cresce,
con rinnovati passi d’atleta,
l’espunta latitudine di cuore.

*

Nei tempi dorati in cui bambino
venivi avanti dall’informe, santi
eroi fissati per l’eternità
al culminare dell’ultima danza,
segnavano il sentiero dei viventi
ed anche il tuo confuso tra di essi.

Le casipole conchiuse in un nugolo
fatiscente, sorprese dall’arcangelo
a rincorrersi sul colle, celavano
famiglie attorno ai fuochi alimentati
dal respiro delle numerose proli.
L’illusione era che ogni cosa fosse

al proprio posto.

*

Quando la luna è alta e illumina il lento
sonoro brusio delle stelle, tu
dannato allo specchio cerchi uno stile,
la cifra, ma il simile cui non somigli
deride, diffida, ti cuce addosso
l’insignificanza, la tragica commedia.

*

Kalì la terribile non è la donnona impulsiva
e sgraziata tramandata dai Veda, ma è la media
che sfronda con passo meccanico, è la falce
che tagliando uniforma gli esemplari migliori.

Suoi segni le melodie ticchettanti,
il lento fluire del fiume che addormenta,
il cigolio del cancelletto che chiude il recinto,
l’agnellino trovato sbranato nel gregge.

Cadere quietati nel suo grembo condanna
la tribù alla stasi. La fine delle cose
già ferme ha un suono dolce.

*

Spezzare le catene

L’opacità refrattaria della vita irrisolta,
il ripetersi di ossessioni psichiche
come braccia vive staccate dai corpi.
Dimenticato il torto scatenante,
in queste case infestate s’aspetta
il singolo atto d’amore
che spezzi la catena dell’errore.

 


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Paolo Fabrizio Iacuzzi intervistato da Fabrizio Fantoni in occasione del 67esimo Premio Internazionale Poesia Ceppo Pistoia 2023

Fabrizio Fantoni intervista Paolo Fabrizio Iacuzzi, Presidente del Premio Internazionale del Ceppo e poeta, nella splendida cornice di Piazza Giovanni XXIII a Pistoia. Il ruolo della poesia e del poeta, il Premio e la sua evoluzione, le letture dagli scritti di Iacuzzi.

67 Premio Letterario Internazionale Ceppo 2023

Pistoia, 20 aprile-13 maggio 2023

I NUOVI 10 EVENTI DEL PREMIO
IL PROGRAMMA IN TRE PARTI

Premi Ceppo Ragazzi • Premi Ceppo Biennale Poesia • Premi Ceppo Giovani Narrativa

PRIMA PARTE
20-29 APRILE 2023
PREMIO CEPPO RAGAZZI
PER LE SCUOLE PRIMARIE E SECONDARIE

WLODEK GOLDKORN
ANNA SARFATTI

SECONDA PARTE
5 MAGGIO 2023
“PREMIO CEPPO PISTOIA CAPITALE DELLA POESIA”
VALERIO MAGRELLI

6-7 MAGGIO
“PREMI CEPPO SELEZIONE POESIA”

TERZINA FINALISTA PER IL “PREMIO CEPPO POESIA”
GABRIEL DEL SARTO
STEFANO MASSARI
LUIGIA SORRENTINO Continua a leggere

Luigia Sorrentino con “Piazzale senza nome” vince la 67esima Edizione del Premio Poesia Ceppo

Eleonora Rimolo vince con “Prossimo e remoto” il Premio Poesia Ceppo “under 35”

È Luigia Sorrentino, poeta e giornalista napoletana, con “Piazzale senza nome” (Collana Gialla Oro Samuele Editore/Pordenonelegge, 2021) la vincitrice della 67esima edizione del Premio Ceppo Poesia.

Sorrentino ha esordito nel 2003 con la raccolta “C’è un padre” (Manni) e poi ha pubblicato numerosi altri volumi di poesia, alcuni dei quali tradotti anche all’estero.

Il premio Under 35 a Eleonora Rimolo

Eleonora Rimolo, nata a Nocera Inferiore classe 1991, con “Prossimo e remoto” (Pequod, 2022) è invece la vincitrice del Premio Ceppo Poesia “Under 35”.

Le scrittrici sono state premiate domenica 7 maggio 2023 a Pistoia, alla biblioteca San Giorgio, con la votazione in diretta della giuria dei giovani lettori “under 35” e hanno ricevuto il riconoscimento da Paolo Fabrizio Iacuzzi, poeta, direttore e presidente del Premio Letterario Internazionale Ceppo.

La cerimonia si è svolta alla presenza di Federica Fratoni, Consiglio regionale della Toscana, Gabriele Sgueglia assessore alle politiche giovanili del Comune di Pistoia e la consigliera Isabella Mati, Lorenzo Zogheri presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia.

Gli altri finalisti del “Premio Ceppo Poesia” erano: Gabriel Del Sarto con “Sonetti bianchi” (L’Arcolaio) e Stefano Massari con “Macchine del diluvio” (MC Edizioni).

I finalisti “Under 35” erano Francesco Brancati con “L’assedio della gioia” (Le Lettere) e Riccardo Innocenti con “Lacrime di babirussa” (NEM).

Oltre ai premi offerti dalla Fondazione Caript, tutti i vincitori hanno ricevuto il “Ceppo di Via del Vento”, un cofanetto con dieci libretti selezionati dall’editore Fabrizio Zollo.

Video-intervista inedita a Mark Strand

Video-Intervista inedita di Luigia Sorrentino a Mark Strand

Civitella Ranieri
24 giugno 2011
Traduzione in italiano di Giorgia Sensi Graziani

Prima parte

Ciao Mark, ci siamo visti a marzo qui a Civitella Ranieri, grazie per aver accettato questo secondo incontro. Cosa hai fatto in questi mesi?

Grazie a te. Gli ultimi tre mesi ho viaggiato, ho fatto una lunga vacanza, ho viaggiato in Spagna, Italia, Svizzera, di nuovo in Italia, sempre in macchina. Non ho scritto, ho solo letto, ho fatto il turista, non ho lavorato, essenzialmente sono stato in vacanza.

Si sta bene in vacanza, eh?

Benissimo, sempre.

Mark, che cos’è per te il tempo e qual è il rapporto tra il poeta e il tempo?

Una domanda difficile.
Il tempo significa cose diverse a poeti diversi, a ciascun individuo.
Secondo me, noi viviamo nel tempo, abbiamo il tempo in prestito. Il tempo umano è una parte del tempo, la parte misurabile. Il tempo esiste come entità enorme, incommensurabile, noi viviamo di momento in momento, da un’ora all’altra, di mese in mese, di anno in anno, queste nozioni di tempo con cui misuriamo la nostra vita sembrano alla fine, locali, fragili, oltre non credo che possiamo andare. L’universo è così vasto, nello spazio e nel tempo, noi non siamo in grado di padroneggiarlo. I fisici se ne occupano da un punto di vista matematico, ma per uno come me la matematica non ha alcuna realtà, è una lingua che non so leggere, e mi chiedo fino a che punto sia reale per il matematico. Se tu guardi il cielo notturno, per esempio, ciò che vedi è una quantità di piccoli punti di luce nella tela scura, non vivi lo splendore delle stelle e lo splendore degli anni luce che le separa, questo va oltre i limiti della nostra capacità, della nostra esperienza. Potrebbe essere che siamo ancora troppo primitivi per poterci permettere una tale esperienza, credo comunque che siamo primitivi in tanti modi e limitati in tanti modi, perfino la mia capacità di parlare del tempo in relazione alla mia stessa vita è così primitivo che anche adesso, in questo preciso momento, mi sento primitivo. Forse nel corso della nostra conversazione posso ritornare a parlare del tempo. Credo che siamo soli, veniamo dal nulla, ci viene data una certa lunghezza di tempo da vivere e torniamo al nulla, circondati dall’infinità del tempo e dall’infinità dello spazio che non siamo in grado di capire.

Il tuo tempo è iniziato nel 1934, sei nato in Canada, tuo padre era un uomo d’affari, ha fatto molte cose, e tua madre è stata in tempi diversi una maestra di scuola e un’archeologa. Come li ricordi?

Quando mi trasferii negli Stati Uniti, mio padre aveva un lavoro e mia madre non era ancora archeologa, io parlavo poco inglese, avevo quattro anni e mezzo, ero preso in giro per il mio accento, soprattutto i giovani che erano molto conformisti all’epoca negli Stati Uniti, mi prendevano in giro e un giorno un ragazzo mi prese a botte e io tornai a casa piangendo e mio padre mi disse che dovevo reagire e così la volta dopo affrontai questo ragazzo e lo spinsi giù dalle scale della scuola e il preside e un’insegnante della classe andarono dai miei genitori dicendo che dovevano controllarmi di più perché ero un violento. E quella fu la mia prima azione da ‘uomo’ e una delle ultime, di solito sono un tipo pacifico. Quindi la mia prima esperienza negli Stati Uniti fu quella di un outsider, e in un certo senso mi sono sempre sentito un outsider. D’altro canto, proprio perché mi sentivo un outsider, questo mi spingeva a conformarmi ancora di più, così imparai l’inglese molto in fretta senza traccia di accento, volevo essere come tutti gli altri e in un certo senso sono un miscuglio di uno che si comporta bene, che è uguale a tutti gli altri, ma psicologicamente mi sento un outsider, uno che non ne fa parte, e infatti non voglio essere come tutti gli altri, parlare come tutti gli altri, pensare come tutti gli altri.

Avevi quattro anni quando arrivasti negli Stati Uniti.

Sì, quattro anni, non è mai troppo presto per imparare.

Avrai sicuramente qualche ricordo di quel bambino di quattro anni. Com’era?

Ho diversi ricordi. Uno per esempio: ero un bambino magro, ma anziché le nocche sulle mani avevo delle fossette. C’era un bambino di sette anni che aveva le nocche e io pensavo quando avrò sette anni avrò le nocche e non più le mani di un bambino piccolo. Questo è uno dei primi ricordi. Un altro è l’attesa della visita dei nonni a Filadelfia e mia madre che mi vestiva bene, con dei bei calzoncini corti e una camicia col colletto chiuso, e mi ricordo che stavo alla finestra ad aspettarli. E quando arrivarono mio nonno mi regalò un dollaro d’argento e qualcosa è cominciato in quel momento, il desiderio di ricchezza che ha prodotto il desiderio contrario, di non averne per niente, di solito sono mosso da sentimenti opposti, ma sto scherzando, ovviamente. Questi sono essenzialmente i miei ricordi di allora, aspettare i nonni e volere le nocche. Mi ricordo anche di avere giocato nella sabbia con una bambina e mi graffiai con un’unghia e tornai a casa piangendo e mia madre mi chiese se volevo un cerotto grande o uno piccolo, e io dissi piccolo, ma quando tornai a giocare nella sabbia capii che sarebbe stato meglio un cerotto grande perché avrebbe giustificato il mio pianto e reso più importante la ferita, il cerotto piccolo invece la rendeva meno importante.
Imparai una lezione.

Poco dopo tuo padre, che lavorava per la Pepsi Cola, si trasferì con la famiglia a Cuba, poi in Colombia, in Perù, in Messico. Ci furono tanti spostamenti nella tua famiglia, era divertente per te? Forse però il viaggiare ti impediva di avere degli amici.
Mark,  dimmi se c’è un paesaggio, un luogo che hai portato con te per sempre.

Prima di tutto mio padre cominciò a lavorare per la Pepsi quando io avevo quattordici anni, un periodo di tempo molto lungo tra i quattro e i quattordici anni, in quel periodo di tempo ebbe lavori molto diversi, e trasferirsi in paesi così diversi non fu molto piacevole, perdere gli amici… A Cuba ci fui solo d’estate, in Colombia per sette mesi, in Perù per l’estate, frequentavo una scuola privata negli Stati Uniti, ma imparai molto, vedevo come si viveva in paesi diversi, mia madre nel frattempo, quando eravamo in Perù poi in Messico, era diventata archeologa e io andavo con lei negli scavi, mi poteva spiegare cose a cui non avrei potuto avere accesso altrimenti, così quei viaggi furono istruttivi. Ma per esempio in Colombia, dove rimasi per sette mesi, avevo un sacco di tempo a mia disposizione, mi annoiavo, e fu allora che cominciai a leggere molto, fino a quel momento non ero stato un grande lettore, e i miei genitori dicevano perché non scrivi ai tuoi amici negli Stati Uniti? E quella fu la mia prima esperienza di scrittore. Volevo essere invidiato, volevo scrivere in modo tale che loro desiderassero avere le mie stesse esperienze, e in quel momento diventai uno scrittore, anche se quell’esperienza durò solo per un po’, però ricomparve più avanti quando avevo circa ventiquattro anni. Ma in quel periodo fui anche molto malato, e dovetti stare a lungo a letto, ebbi quattro volte la polmonite prima di viaggiare in Sud America, prima della penicillina, una tosse terribile, sei settimane, due mesi a letto, e avevo molto tempo per sognare a occhi aperti, non potevo vedere i miei amici, come sognatore a occhi aperti diventai un professionista, e divenne la base della mia abilità a fantasticare, non sono sicuro che sia stato quello il motivo ma se guardiamo al processo di causa/effetto molto probabile.

Eri un bambino che disegnava, dipingeva, e portavi con te questi ricordi, dipingendo.

Beh, dipingevo sempre, piuttosto bene, da adolescente, prima di diventare un lettore, mia madre aveva studiato arte e mi incoraggiò sempre a disegnare, dipingere. Pensavo che sarei diventato un pittore, finché non frequentai una scuola d’arte e capii che altre madri dicevano ai loro figli che sarebbero diventati pittori, ed erano migliori di me.

Mark Strand e Luigia Sorrentino – Foto d’archivio – 2011

Studiavi pittura, quando diventasti improvvisamente un lettore di Stevens, uno dei maggiori poeti degli Stati Uniti del XX secolo. Cosa ti insegnò Stevens?

E’ molto difficile da dire. Il potere delle singole parole, la sua lingua straordinaria, leggi le poesie di Stevens e sei stupefatto del suo vocabolario, anche la sua musica, e la creazione di immagini, la potenza visiva delle sue poesie. Se sei un pittore, sei molto suscettibile a poesie che hanno una qualità pittorica, e di tutti i poeti del XX secolo penso che Stevens fosse il più pittorico. C’è anche un elemento esotico in Stevens, e non hai dubbi che quello che stai leggendo è poesia. Un’altra cosa molto interessante è che mi piaceva anche senza capirlo, e mi resi conto che puoi amare una poesia anche senza sapere cosa significa, che l’esperienza di una poesia non era necessariamente la conoscenza di quella poesia, che si poteva assorbire una poesia senza essere capaci di dire di cosa parlava. Quello l’ho imparato da Stevens.

Per Stevens, “poeta è colui che scrive e sostiene la domanda della vita”.
Qual è la domanda della vita che scrive e sostiene Mark Strand?

A essere sincero, non lo so.

So ciò che chiedo alla vita, un altro giorno, un altro mese, un altro anno, un’altra vacanza, sempre di più, quello che la mia scrittura chiede alla vita non lo so e a dir la verità non lo voglio sapere, se lo sapessi potrei non scrivere più. Ciò che mi fa continuare a scrivere è non sapere di cosa sto scrivendo, perché sto scrivendo. Questo tipo di domanda è per i lettori, non per lo scrittore, almeno non per me.

Nel 1960 avevi 26 quando ricevesti una borsa di studio per venire in Italia, a Firenze, per studiare la poesia italiana del XIX secolo. Cosa c’era di nuovo nella tua valigia quando ripartisti dall’Italia?

L’esperienza in Italia fu fantastica. Prima di tutto vidi moltissimi dipinti che prima avevo visto solo in riproduzione e vederli dal vivo fu una rivelazione, inoltre il mio italiano era molto meglio di quanto non sia adesso quindi potevo leggere Montale, Quasimodo, Ungaretti, Palazzeschi, un po’ di Foscolo e anche Carducci. Mi concentrai molto sulla mia scrittura quando fui in Italia, fu un periodo molto produttivo, fu l’anno in cui venni pubblicato per la prima volta da un’importante rivista negli Stati Uniti.

Ti ricordi la valigia che avevi portato con te? Cosa c’era dentro?

Roba, vestiti.

Scarpe.

Solo un paio, qualche camicia, pantaloni non molti (questo detto in italiano), poca roba. Avevo una macchina da scrivere, manuale, i vestiti non volevano dire niente per me.

E negli occhi cosa c’era?

Nei miei occhi?

Cosa portavI negli occhi?

Non sono sicuro di capire bene. Portavo solo i miei occhi, senza occhiali, non portavo occhiali allora.

C’era una cosa che sentivo quando ero qui, mi sentivo molto americano, amavo l’Italia ma ero così diverso e l’Italia allora era un paese così diverso da adesso, meno automobili, i taxi erano neri e verdi, molti andavano in bicicletta e le rovine della Seconda Guerra Mondiale erano visibili ovunque. Mi comprai una Lambretta usata e imparai a bere un buon caffè. Vivevo con trecento lire al giorno, facevo un pranzo abbondante, risotto, salmì, insalata.

Fu dopo quell’esperienza in Italia a Firenze che cominciasti a pubblicare le tue prime poesie. era il 1964 quando uscì il tuo primo libro, Dormendo con un occhio aperto, (Sleeping with one eye open) insegnavi inglese, avevi 30 anni erano gli anni in cui gli Stati Uniti erano in guerra in Vietnam.
Perché scegliesti questo titolo, Dormendo con un occhio aperto?

La guerra stava appena iniziando nel 1964/1965, e io ero molto contrario alla guerra, come molti altri poeti scrivevo poesie contro la guerra ma erano brutte poesie e così, a parte una ‘The Way It Is’, le altre le buttai, ma le leggevo in questi grandi readings a gente come me convinta che non dovessimo essere in guerra. Ma quello era soprattutto a fine anni Sessanta quando la gente era arrabbiata dalla nostra presenza là, ma il titolo suggerisce adesione al mondo dei sogni e al mondo della realtà, un occhio rivolto all’interno e l’altro all’esterno e in un certo senso era obbligo della poesia tenere in equilibrio visione interna e visione esterna, e credo che il titolo indicasse un ‘modus operandi’ di tutta la vita. Ma non andrei oltre. A te sembra che abbia senso?

Una volta in un’intervista hai detto che devi la tua carriera di poeta a un altro poeta Harry Ford. Cosa ha fatto per te?

Prima di tutto, con Richard Howard, ci incontravamo tre volte la settimana per pranzo, e parlavamo dei libri che leggevamo, il mio rapporto con Richard Howard era strettamente letterario, qualche volta leggevamo le nostre poesie, ma meno frequentemente che con altri poeti, Richard era molto più avanti di me come poeta, ma con altri due amici più intimi, Charles Wright e Charles Simic,si parlava di poesia, di lavoro, di vino, di cibo, specialmente con Simic che amava mangiare e bere, e si parlava molto di poeti stranieri, il che ci portò a pubblicare un libro insieme chiamato Another Republic. Ford non era un poeta, era un editor e figurativamente parlando mi ha salvato la vita perché nel 1965-66, quando tornai dal Brasile feci domanda di un ‘grant’ e Harry Ford era nella commissione, e era anche in quella di ‘Atheneum’, e mi scrisse una lettera per dire che gli piaceva il mio manoscritto ma non poteva pubblicarlo per Atheneum perché altrimenti non avrebbero potuto darmi il grant ed era meglio avere i soldi piuttosto che la pubblicazione perché il libro l’avrebbe sicuramente pubblicato qualcun altro. Passarono due anni e nessuno aveva ancora pubblicato il mio libro, nessuno lo voleva, le mie poesie uscivano su riviste ma un libro sembrava impossibile. Poi per caso incontrai Ford a una festa a New York e mi chiese, Dov’è il tuo libro? Cosa è successo? E io dissi, Mah, nessuno lo vuole. ‘Perché non me lo mandi? Glielo mandai e due giorni dopo mi telefonò per dirmi che l’avrebbero pubblicato. E Harry Ford rimase il mio editor finché non morì.

Un altro poeta che ha giocato un ruolo fondamentale nella tua vita è stato Joseph Brodski che tu hai conosciuto negli anni ‘Settanta. Ci racconti il tipo di relazione che avesti con Brodski?

L’ho incontrato nel 1972 quando venne negli Stati Uniti e lo ammiravo molto, era stato tradotto in inglese e gli avevo mandato dei biglietti d’auguri per Capodanno e quando arrivò negli Stati Uniti gli chiesi se avesse ricevuto i miei biglietti e disse di sì, non solo ma che aveva letto le mie poesie e ne citò una mia lunga, in inglese, lui aveva una memoria prestigiosa, poteva recitare per ore, ma mentre lo ascoltavo recitare la mia poesia ne fui sopraffatto , mi volevo inginocchiare e baciargli le scarpe.

Diventammo grandi amici, la sua influenza su di me fu più grande della mia su di lui, lui mi faceva domande sull’uso della lingua, così era meglio, così più naturale, sarebbe meglio un’altra parola?

Anch’io gli facevo delle domande, e le sue risposte erano sempre molto astute, io seguivo sempre i suoi consigli, non sono sicuro che lui seguisse quello che gli dicevo io. Lo adoravo, era la persona più intelligente che io avessi mai conosciuto, la sua mente era così veloce, la sua immaginazione così fertile, sapeva sviluppare idee, ipotesi più velocemente di chiunque altro che io avessi mai conosciuto.

La sua energia intellettuale era travolgente, era un enorme piacere stare con uno così intellettualmente vivace. Stare con lui mi faceva venire voglia di scrivere. Era la stessa sensazione quando parlavamo al telefono se lui era all’estero. Un grande scambio intellettuale, poetico, più dalla sua parte che dalla mia.

Qualcuno ha scritto che la tua scrittura a un certo punto si è fatta autobiografica, anzi obliquamente autobiografica, come sarebbe avvenuto in Buio, più buio, (Darker)  poema del 1970, poi via via questo io che si sentiva molto minacciato dall’esterno approda a un io più interiore, accade forse, questo lo dice la critica, nella tua poesia più famosa la ‘Denarrazione’, una poesia lunga. Cosa ha determinato il cambiamento nella tua scrittura?

Prima di tutto credo che Darker non sia così autobiografico, credo che nella poesia americana ci sia stato un movimento verso l’autobiografia a causa di tutti i poeti confessionali del tempo, e io non volevo essere lasciato fuori, almeno la parte più conformista di me, volevo farne parte, ma non è durato molto, quando uscirono i miei Selected Poems e scrissi i Nova Scotia Poems, ne avevo abbastanza di poesia confessionale, capii che non era per me, non ero un buon poeta autobiografico, e capii che dovevo indirizzare altrove la mia attenzione, ma non credo che le mie poesie autobiografiche siano le mie migliori, sono più fiction che autobiografia, la storia di una vita, fiction, che rappresenta la mia vita e stranamente, all’epoca, provai una certa forma di repulsione per quella mia poesia, non c’era niente di interessante nella mia vita che valesse la pena rivisitare, credo che la mia forza fosse più sul lato dell’ironia, della fantasia, nell’invenzione, nel raccontare vite alternative, perché scrivere della vita che facevo io quando potevo inventare delle vite più interessanti? Quindi la misi da parte.

Nel 1978 diventi poi un poeta di fama internazionale pubblicando L’ora tarda, vai a insegnare nelle più importanti università americane e tiri fuori un io ironico che fino a quel momento non era apparso nella tua poesia. Ci parli di questo cambiamento?

Beh, non accadde nel 1978. Quell’anno segnò la fine della poesia autobiografica, per cinque anni non scrissi perché non sapevo cosa dire. È facile rivolgersi all’ironia, alla fantasia … ma non succedeva niente, cominciai a scrivere articoli per riviste, scrissi libri per bambini, dei racconti, e poi ciò che mi indirizzò verso i libri successivi fu effettivamente la traduzione dell’ Eneide di Robert Fitzgerald, fece partire una esplosione interna, improvvisamente la mia lingua si fece più ricca, le frasi più elaborate e più lunghe, niente di autobiografico, mi divertivo molto a scrivere, e lo devo a Robert Fitzgerald e a Virgilio.

Hai scritto poi Il monumento rispondendo a una domanda che ti era stata posta in una conferenza, ‘Come ti piacerebbe essere tradotto tra 500 anni? E tu hai risposto scrivendo quest’opera, The Monument.

A dir la verità The Monument fu una reazione alla poesia autobiografica di cui parlavo prima. Era una specie di gesto grandioso, di come sarei stato tradotto in futuro come se potessi avere una traduzione nel futuro, e come desidererei essere letto in futuro soprattutto tra 500 anni, che è piuttosto comico nella sua grandiosità. Ma l’idea non è semplicemente della propria opera tradotta, ma di come uno è tradotto, come la propria opera rivela chi sei, fino a che punto è il traduttore il poeta, soprattutto in futuro quando il poeta non è più lì a parlare per sé ma le poesie sono là a parlare per lui, il libro esprime anche il disincanto per questo concetto di provvisoria immortalità, perché ciò che uno vuole è vivere per sempre non necessariamente attraverso la propria opera ma di persona, essere vivo, avere venticinque anni per mille anni, è impossibile, è ridicolo ma in un certo senso profondo è quello che vogliamo, possiamo non volerlo riconoscere ma è così. Non sono sicuro che tutto questo sia espresso in The Monument. In effetti The Monument è un libro che ritenevo molto divertente da leggere per la considerazione dei vari modi in cui siamo trasportati nel futuro se siamo scrittori.

Mark, secondo te la morte può essere ingannata?

No, mai. La morte è assoluta. Quando ne abbiamo parlato mesi fa era chiaro che uno può abitare la stanza dell’immortalità, ma anche lì il nostro tempo è limitato. Ci sono diverse morti. C’è la morte vera, moriamo. Poi c’è la seconda morte quando nessuno si ricorda di noi, quando nessuno dei nostri parenti si ricorda di noi, i nostri nipoti non si ricordano di noi, questa è la seconda morte, più lenta. La terza morte come scrittore è quando le tue opere sono portate via dalla biblioteca perché per loro non c’è più spazio, e tu sei dimenticato. Questa è la terza morte, inevitabile. Dobbiamo vivere con il concetto che qualunque cosa facciamo e diciamo possiamo essere sostituiti.

A un certo punto hai mollato la poesia e ti sei messo a fare altro, critico, giornalista, come se avessi voluto prendere le distanze dalla poesia. Come mai è accaduto questo?

Beh, non avevo idee, ho semplicemente smesso di scrivere perché non volevo scrivere brutte poesie, e quando smetti di scrivere per un po’ sembra che tu esca dal mondo della poesia, da quell’atteggiamento mentale da cui nasce la poesia, non è che ti manchi, ma non fa più parte della tua vita quando scrivi, non è stata una tragedia, è stato un modo di ricaricare le batterie, non puoi continuare a spendere energie in un libro dopo l’altro… Va bene, c’è gente che lo fa, ma io non ci riesco.

Poi sei ritornato di nuovo a scrivere poesie e hai pubblicato La vita ininterrotta con il quale ottieni il titolo di ‘Poeta Laureato degli Stati Uniti’ e la tua opera poetica acquista una visibilità senza precedenti. Cosa vuol dire Poeta Laureato, Mark?

Beh, essere poeta laureato non ha voluto dire molto per me. Era un titolo, sono stato anche sorpreso perché il precedente Poeta Laureato era stato molto più vecchio, io ero appena cinquantenne , in effetti non ha fatto molta differenza. Ho fatto molti reading, ho venduto molti più libri, quell’anno non ho scritto una sola poesia perché abitavo a Washington in una casa terribile, in affitto, è stato un anno di vita sociale, feste, cocktail party, cene, perché se hai un titolo a Washington allora sei qualcuno, altrimenti non sei nessuno. Poeta laureato è come stare in vetrina, come un bouquet messo su un tavolo, ero come qualcosa di frivolo da avere a un party.

Porto oscuro esce nel 1993 ed è un singolo poema diviso in 45 sezioni, poi con Tormenta al singolare nel 1999 Mark Strand si aggiudica il Premio Pulitzer per la Letteratura, consacrato ancora una volta poeta. Cosa ricordi di quel giorno?

Lo ricordo benissimo. Il mio editor, Harry Ford, era morto un mese prima e io ero a New York, seduto nel suo ufficio perché nel pomeriggio avrei dovuto leggere un ricordo, un discorso funebre in sua memoria, e per scriverlo stavo usando la sua macchina da scrivere e d’un tratto sentii il bisogno di uscire a fare una passeggiata, e finii con l’andarmi a comprare una camicia bianca, poi tornai in ufficio a finire il discorso funebre e mi resi conto che Harry Ford indossava sempre una camicia bianca, forse inconsapevolmente comprando una camicia bianca avevo reso omaggio a Harry Ford? Quando tornai in ufficio tutti vennero a congratularsi con me dicendo, Complimenti! Congratulazioni, hai vinto il Pulitzer Prize! E tornai nell’ ufficio di Harry Ford a finire il discorso. Quindi mi ricordo bene quel giorno, la camicia bianca, la macchina da scrivere, il discorso, la notizia del premio.

A cosa stai lavorando adesso?

Sto scrivendo il mio capolavoro! Sono venuto a Civitella l’anno scorso a maggio e ho cominciato a scrivere brevi brani in prosa, ho finito il libro a febbraio, otto mesi, ed è stato pubblicato negli Stati Uniti e poi qui in Italia da Nottetempo di Ginevra Bompiani. Mi è piaciuto molto scriverli, mi sono davvero divertito, è stato un vero sollievo rispetto a scrivere poesia, la poesia aveva cominciato a esercitare una forte pressione su di me, pensavo di dover essere migliore di quanto effettivamente potevo essere e avevo cominciato a pensare che le mie poesie non fossero abbastanza buone, mi davano ansia e infelicità, e così cominciai a scrivere questi pezzi in prosa, sembrava che rappresentassero chi sono in modo più enfatico della poesia, alcuni sono buffi, altri più seri, alcuni sembrano poesie – alcuni li vedono come poesie – ma io non li considero poesie, così finii in febbraio, poi mi dissi, basta pezzi in prosa, stavo per finire un memoir che avevo cominciato , ma poi cominciai a fare dei collages, ne feci quattro o cinque, li feci vedere a qualche persona, ora un paio sono in mostra in una galleria a New York, e continuo a farli. E venendo a Civitella, dove avevo cominciato i brani in prosa, ieri ne ho incominciato un altro, troppo tardi per essere incluso nel libro, ma quando ero a Milano ho parlato con Antonio Riccardi da Mondadori, che era rimasto offeso che io avessi offerto i miei brani in prosa a un altro editore, ma gli ho detto, beh, è solo un libriccino e tu eri forse troppo occupato in Mondadori per uscire con questo mio ‘grosso’ volume, ne scriverò ancora e arrivato a 100 potrai pubblicare il tutto. Quando sono arrivato qui, in questo posto, ho avuto questa idea dei brani in prosa e forse chissà ne scriverò ancora e fra un anno avrò un altro libro per Antonio.

Ora sei in un posto tranquillo, Civitella Ranieri, puoi scrivere facilmente, qui c’è silenzio, quiete, hai tutto quello che serve per poter scrivere. Ma tu riesci anche a scrivere in metropolitana, in un luogo pubblico oppure ti sentiresti troppo osservato ed emotivamente diciamo “scoperto” per poterlo fare?

Credo di aver bisogno di silenzio, di tranquillità, è un fattore molto importante, sarebbe impossibile per me scrivere in metropolitana – leggo in metropolitana – riesco a scrivere poesia solo in un posto molto tranquillo, posso scrivere lezioni, conferenze, altre cose così in aereo per esempio anche se non voglio che la persona seduta accanto a me mi veda scrivere perché non voglio avere alcuna relazione con la persona accanto a me, c’è anche l’impressione di essere visto come troppo emotivo, credo che scrivere in pubblico sia un po’ un’esibizione, sono sempre sorpreso da chi va a scrivere da Starbucks, o in un caffè, annunciando al mondo di essere scrittori, preferisco tenerlo per me, in privato.

Perché si scrive poesia e perché si legge poesia, per scoprire che il poeta vede il mondo come lo vediamo noi?

Credo che l’unica differenza tra il poeta e le altre persone sia la risposta del poeta, il poeta ha accesso alla storia della poesia, a poesie scritte prima di lui, e ha familiarità col modo in cui altri scrittori hanno espresso la loro esperienza del mondo. Questo non significa che l’esperienza del poeta sia più profonda o più ricca di quella di altre persone, altre persone hanno sentimenti, altre persone si innamorano, altre persone hanno paura del buio, non vogliono andare in guerra, è solo che il poeta scrive ciò che sente, anche altri possono qualche volta scrivere una poesia qua e là, ma il poeta ha imparato la lingua della poesia, ha la sua lingua e ha la lingua che ha ricevuto e ha anche la lingua in cui sta scrivendo. Ci sono tre fattori: la sensibilità del poeta, c’è la storia del poeta, e c’è la lingua in cui il poeta trasmette i suoi sentimenti cosicché altri possano riconoscere in loro stessi ciò che il poeta sta dicendo.

Il poeta che tipo di realtà vuole trasferire al lettore?

Questa è una domanda molto difficile. Credo sia diverso a seconda dei diversi poeti, non è nemmeno una scelta, il poeta fa ciò che può, parte della risposta è che il poeta esprime il modo in cui egli vede il mondo, ma non è solo questo, è il modo in cui NON vede il mondo, ciò che è oltre a quello che lui riesce a vedere, nelle sue poesie naturalmente il poeta presenta un mondo che è riconoscibile ad altri ma presenta anche un mondo che è interno a lui stesso, che lui ha reso proprio, il mondo della sua vita interiore, della sua soggettività, fatto soprattutto di sentimenti e di idee generate dall’interno, e lo stile della poesia è donato dall’esterno, e il miscuglio di interno ed esterno è la realtà che il poeta presenta al lettore, questo ha senso.

Quando ascoltiamo la tua poesia siamo affascinati dalla voce, dal ritmo, siamo condotti nel mondo della poesia che hai scritto, a volte però nella poesia che hai scritto accade qualcosa di inimmaginabile, o comunque ci si trova dinnanzi a qualcosa di strano, di inaspettato, quasi che la lingua della poesia prenda il sopravvento su quello che il poeta ha detto o avrebbe voluto dire, perché succede questo?

Un’altra difficile domanda. Credo che il poeta voglia sempre andare al di là, oltre ciò che è comprensibile nell’immediato, oltre ciò che è possibile dire, così ciò che il poeta vuole fare è suggerire di più di ciò che effettivamente dice, spera che la sua poesia abbia un grado di risonanza e suggerisce la possibilità di significati più grandi di quanto le singole parole possiedano. Questa è la parte mistica della poesia di cui è difficile parlare in termini concreti, molto di ciò che il poeta ha da dire è suggerito inconsapevolmente, c’è un mondo in ciascuno di noi di cui non sappiamo e che non capiamo, e a cui non sempre abbiamo accesso, appare nei sogni e spesso appare in una poesia in modo del tutto inaspettato, se le poesie fossero scritte rigorosamente dalla nostra coscienza non sarebbero mai migliori di quanto siamo, porterebbero avanti un discorso razionale dove il significato sarebbe appreso immediatamente, ma la poesia cerca di fare qualcos’altro, cerca non solo di esprimere significati concreti, ma di suggerire significati oltre il concreto, non solo significato, cosa si prova ad avere qualcosa che significa qualcosa per te.

La poesia è un’esperienza di totale immersione nel mistero dell’essere e del tempo, da dove viene la lingua della poesia, proviene dall’inconscio o dalla coscienza?

Credo che venga da entrambi, si nasce in una lingua e in una cultura, la lingua è proprietà pubblica, appartiene a tutti, per farla propria bisogna assorbirla in modo speciale. Una delle cose che il poeta fa, come ho detto prima, è investirla di qualcosa al di là della denotazione, qualcosa di misterioso, credo che debba investire la lingua di mistero, come si faccia non ne ho un’idea, la società è opposta al mistero, la società usa la lingua per convincerti di questo o di quello, la società non ha tempo per l’ambiguità, ma noi viviamo vite che sono ampiamente ambigue, che non dipendono da ciò che è assolutamente razionale, o decisioni molto chiare, viviamo vite che in qualche modo sono sospese nel mezzo, e penso che ciò che i poeti fanno è in mezzo, a volte tra l’incertezza, l’ambiguità, il mistero.

Una volta hai detto che la poesia esiste come qualcosa di diverso nell’universo, come qualcosa che il lettore non ha ancora incontrato prima di quel momento. Che cosa deve cercare questo lettore nella poesia?

Quando dico che una poesia è qualcosa di diverso nel mondo voglio dire che ciascuna singola poesia ha la propria identità ed è una cosa nuova, il poeta comincia con un foglio bianco e ci scrive sopra qualcosa, qualcosa che non è mai stato scritto prima, il significato può esistere altrove, ma il modo in cui appare su questo particolare foglio di carta non è mai apparso prima, quindi ogni poesia è qualcosa che esiste in quel momento, è un artefatto del tutto nuovo. È qualcosa che succede naturalmente e noi leggiamo la poesia del poeta perché sentiamo quella voce dentro la poesia, e con voce non intendo il suono, intendo l’identità, il fattore che identifica la poesia, ciò che la distingue dalle altre. Continua a leggere

Gino Scartaghiande. Il luogo della Storia

Nel 1977 l’uscita di questo libro rappresentò un punto di rottura nella poesia italiana, data l’audacia espressiva di un poema multiforme che fu subito salutato da molti come un vero e proprio evento.

A distanza di ben oltre quarant’anni viene ora riproposta al pubblico l’opera forse dagli esiti più importanti di Gino Scartaghiande. E non si tratta di una semplice operazione nostalgica o di un consolatorio omaggio tout court, ma di un vero e proprio riconoscere a questo lavoro una quanto mai attuale vitalità.

Appunti sui “Sonetti” per Luigia Sorrentino
di
Gino Scartaghiande

King-Kong è come suono onomatopeico, è un rullo di tamburo,  l’incontro con il fenomeno stesso dell’ispirazione in tutta la sua complessità che ti piomba addosso come qualcosa di feroce e al contempo dolcissimo ma con cui devi comunque combattere, un po’ come la lotta di Tobia con l’angelo. E l’arma con cui condurre la battaglia non è altro che il verso e la sua specifica forma.

Nel mio caso “sonetto” è inteso proprio come “piccolo suono”, sia quale consapevole minus rispetto alle sue più alte forme espresse nelle civiltà del passato, sia quale aspirazione, nonostante tutto, ad esse. Ma realisticamente, abitando noi la catastrofe del moderno, non ho potuto che riformularne l’essenziale sua prima origine proprio nel contrasto con il monstrum del disforme, così come aveva già fatto Giacomo da Lentini nei confronti del mostro polifemico e dell’epicureismo di Federico II, ma nel contesto di uno straordinario momento di civiltà letteraria siciliana.

La forma nasce sempre da un simile contrasto, così come ogni virtù si entifica sempre a fronte di un male che si è riuscito a vincere. Una tale dinamica presuppone l’aver occupato di già zone sotterranee ed infere dell’essere, in un ingrato lavoro a tentoni, dove si è ciechi come una talpa. Senza questo lavoro dalle sue fondamenta, ogni forma è solo di superficie, ovvero mistificante. Modigliani per erigere i suoi immortali “pilastrini di bellezza”, sprofondava nel sottosuolo della metropolitana di Parigi, da cui traeva i suoi massi, la materia su cui lavorare, e che egli riportava all’essenzialità di un koùros cicladico, non senza la riverberante presenza del dio extra-olimpico Apollo già proveniente dal deo Marduk di Babilonia.

Tra le fondamenta dei “Sonetti” da cui ripartire c’è in primis il luogo della Storia e della violenza perpetrata in suo nome; e io, nel primo poemetto del libro, riparto proprio dall’assassinio di una donna, Rosa Luxemburg, la cui morte rivivo sul mio stesso corpo. Ma è tutta la storia fantasmatica delle immagini in cui siamo immersi nella nostra modernità – lèggi film, romanzi, canzonette, telefilm, spettacoli d’intrattenimento – a costituirsi quale luogo che uccide la donna.

E questo perché un’immagine ineffettuale, dove non si attua cioè l’effettualità della poiesis, è mitica, e il mito, per sostentarsi, esige sine qua non il sangue delle vittime. Quando Rossellini gira Roma città aperta uccide davvero Anna Magnani, l’ha già tradita alle spalle. E questo perché Rossellini non paga, effettualmante, con un proprio personale sacrificio, il prezzo del mezzo che usa, o per dirla con l’antichissimo poeta   latino Lucilio, non sa più cosa significhi praetium persolvere quis in versamur, ovvero saldare il debito per le cose che si usano. E questo vale tanto più per l’arte, come con il loro sacrificio intenzionale ci hanno poi di nuovo rivelato

Pasolini e Troisi. E tutto ciò perché, come viene a dirci Pietro Tripodo in un suo saggio del 1995 pubblicato nel collettaneo La parola ritrovata, “Già il mondo delle immagini, con maggiore nostra passività, seleziona il luogo e il momento della più grande atrocità, del più grande oltraggio”.

Gino Scartaghiande, foto di Dino Ignani

CITTADINI DI UN REGNO CHE VA SCOMPARENDO

La prima ispirazione per quella che sarà poi la Gerusalemme liberata, un Tasso fanciullo l’ha avuta proprio durante le visite all’abbazia benedettina della Santissima Trinità di Cava de’ Tirreni, dove aveva soggiornato Urbano II, il papa che indirà poi la prima crociata.

Dacché il nostro bellissimo Regno delle Due Sicilie è stato annesso in un sistema non eudemonico, ovvero infernale, e con tanto di mafia al seguito, quale è l’odierno Stato liberale – ma tale annessione vale per tutta l’Italia, dalla foscoliana Venezia alla Napoli di Vanvitelli e Ferdinando Fuga; dal ducato di Parma, Piacenza e Guastalla allo Stato Pontificio – noi siamo ormai cittadini della diaspora, di un regno che continuamente va scomparendo.

Questa scomparsa però non è una perdita, ma il giusto avanzamento verso quello che è il vero fine di ogni civiltà: la sua definitiva uscita dal mito, lasciando al suo posto una traccia di splendore.

Questo è quanto ci hanno trasmesso gli antichi regni scomparsi, e soprattutto la Grecia, allorché il suo primo re storico, Teseo, libera quei giovani dal Minotauro, alias dal labirinto del mito, vuoi anche dal mito del successo, portandoli a nuova vita. In questa opera di liberazione, è tutta la tradizione e il nostro vero rapportarci ad essa.

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Marco Bini. “New Jersey”

Marco Bini, foto di proprietà dell’autore

New Jersey di Marco Bini – Note a margine
di Federico Carrera

 

«Il vero simbolo della provincia è essere incapace di narrare la propria storia». Il New Jersey di Marco Bini (Interno Poesia, 2020) si apre con queste parole, intense ma fulminanti, del fotografo Luigi Ghirri. Dico fulminanti proprio perché, poste in esergo a questa raccolta di poesia, sembrano guadagnare un nuovo significato, ancora più autentico – se possibile – dell’originario. Sono parole messe al posto giusto. E Marco Bini lo sa. Perché nella sua poesia non è dato l’evento casuale, incastrato fuori posto: tutto è ben dosato, a partire dalla costruzione di versi piani, mimesi di un discorso disteso, capace di far convivere affondi narrativi con picchi del più alto lirismo, il tutto in un tono da quotidianità dimessa, ma non degradata. Fino ad arrivare a una struttura solida, che rende il dipanarsi dei testi di poesia quasi un percorso ben guidato all’interno di una storia che lentamente è in grado di avvolgere il lettore, come fosse una narrazione. Ma è invece una poesia capace di rivelare, in pillole, una saggezza autentica e profonda, che ricorda quella di alcuni poeti antichi, come Orazio.

Gli oggetti, nella provincia che è teatro di questo New Jersey, assumono sempre un significato emblematico. Così i cartelli stradali diventano «costole» che «spalancano al cuore spazio per pulsare», l’«ossigeno» dell’ora del tramonto è «notte» che sparisce velocemente, «la torre dell’Unipol» di Bologna è «Rothko, Gramsci, Montale tutti assieme», e via dicendo. Ma gli oggetti sono emblemi che possono solo apparentemente mediare un rapporto di profonda incomunicabilità tra l’io e le cose del mondo. In effetti, il tema che domina la raccolta – e sul quale la raccolta stessa si fonda – sembra essere quello della distanza. Una distanza che può venire proiettata geograficamente, temporalmente o anche astrattamente. È lo iato che s’instaura inevitabilmente tra gli oggetti e l’io, che ne marca i confini, ne sottolinea le differenze. È il senso di vuoto che permea l’umano e lo rende in qualche modo diverso, forse completo. Ecco che appare limpido il senso delle parole di Ghirri: la provincia è lo stato esistenziale in cui si trova l’uomo, in rapporto di costante vicinanza-e-lontananza dalle cose. E il New Jersey diventa, in questo gioco di metafore, uno stato esistenziale prima ancora che uno Stato geografico e fisico: è la provincia per antonomasia, il luogo dal quale si osservano accadere le cose ‘che contano’, da cui si può ammirare una fucina di luce e di vita come quella di una altrettanto esistenziale Manhattan («il centro dove agglomerarsi / nel nucleo vulcanico dove fabbricano la luce»).

Il libro è costruito così intorno a un tema originale, mentre viene in qualche modo evitato, ma con grazia, il confronto diretto con le grandi soglie della tradizione poetica occidentale, vale a dire Amore e Morte: eppure non si potrebbe dire che, in qualche modo, i testi di questa raccolta non abbiano a che fare anche con esse. È l’approccio di una penna sensibile sia sul piano umano sia sul piano letterario, che non vuole banalmente ripetere alcuni motivi, ma, se possibile, aggiungere qualcosa agli stessi. Continua a leggere

Una monografia su Matteo Bonsante

 

 

ESTRATTO 

L’analisi dell’opera letteraria di Matteo Bonsante ci consegna, volendo trarne delle considerazioni generali, un grande affresco storico-letterario che abbraccia, a ben vedere, il periodo di tempo che va dagli anni Ottanta del XX secolo alla prima decade del XXI. Volendo usare un’immagine rappresentativa di questo lungo processo artistico, si può dire che l’opera bonsantiana ci appare come un lieve panno su cui si adagiano, in un’ottica di corrispondenze, i piani differenti che compongono la realtà: raziocinio e intuizione, libertà e determinismo, al di qua e al di là – tutto si compenetra in una trama esistenziale sempre volta alla ricerca effettiva e mai soltanto abbozzata di una chiave di volta che possa, in definitiva, suggerire all’individuo (poeta o lettore, poco importa) non solo una riflessione estetica ed etica sulla vita, ma soprattutto una pratica dell’esistere e dell’essere al mondo.

A partire dalla prima opera, Bilico, e attraverso una progressiva acquisizione dei rapporti di interconnessione tra le diverse compagini della realtà – noumeno e fenomeno –, si può affermare che Bonsante abbia cercato di fornire alla sua poesia un materiale sempre vivo e magmatico col quale riscoprire, attimo dopo attimo, una genuinità del vivere in apparenza irraggiungibile. ‹‹A quattro anni dipingevo come Raffaello, poi ho impiegato una vita per imparare a dipingere come un bambino››, ha affermato Picasso in riferimento alla sua personale e costante ricerca della semplicità della linea – di una forma, cioè, che potesse riassorbirsi in sé stessa senza retorica e senza ostentazione mostrando, per l’appunto, quella genuinità geometrica di cui è composta la realtà. Specularmente, non sarebbe affatto un errore comparare questa stessa ricerca picassiana a quella di Matteo Bonsante, un poeta che sin dagli esordi ha cercato di scavalcare la parola in quanto forma artificiale spesso incapace di comunicare l’essenziale a vantaggio di una melodia, di una carica immaginifica che tenta il finito e l’infinito per potersi ri-trovare in uno spazio fuori da ogni tempo e da ogni condizionalità fisica, riassorbendosi e raggiungendo così l’essenziale e il genuino che è, poi, il vero obiettivo della sua ricerca. Continua a leggere

OIKOS, Poeti per il futuro

Oikos. Poeti per il futuro è un progetto poetico-civile dei Classici contro, vale a dire del gruppo di classicisti coordinati da Alberto Camerotto e Filippomaria Pontani (Università Ca’ Foscari di Venezia) che ormai da anni ripercorrono i testi degli autori grecolatini per parlare delle questioni più spinose del presente (l’immigrazione, la giustizia, la bellezza, l’Europa e così via).

Nel 2020 e 2021, il tema dei Classici contro è appunto OIKOS: l’ambiente, la natura, cioè la nostra casa comune.

Il progetto, tra le varie iniziative in cantiere, si traduce in un’antologia contenente 150 poeti contemporanei di molti Paesi del mondo (Oikos. Poeti per il futuro, a cura di Stefano Strazzabosco, Premessa di F. Pontani e A. Camerotto, Disegni di L. De Nicolo, Mimesis/Classici Contro n. 18, Milano-Udine 2020) e in una serie di azioni, tanto in linea come in presenza – quando possibile –, che fanno dialogare i poeti con classicisti, insegnanti e studenti di vari licei italiani.

L’antologia, di cui esiste anche un’edizione minore con una selezione di 80 autori, riunisce alcune tra le voci più significative della poesia contemporanea: per fare qualche esempio, si va dal grande autore marocchino-francese Tahar Ben Jelloun, che come altri ha scritto una poesia apposta per Oikos, alla poetessa beat statunitense Anne Waldman, che dedica il suo testo (anche questo inedito e scritto per l’antologia) all’amica Patti Smith; dagli israeliani Tsuriel Assaf, Sabina Messeg, Maya Weinberg, Adi Wolfson, Elad Zeret, rappresentanti di una eco-poesia che è stata tra le prime a dedicare attenzione ai temi ambientali, alle cinesi Ming Di, Jami Xu e Xiao Xiao; dalla vietnamita Nguyen Phan Qué Mai ai messicani Homero Aridjis, David Huerta, Blanca Luz Pulido; dai colombiani Rómulo Bustos Aguirre, Juan Manuel Roca, Ángela García, Yirama Castaño Güiza, Myriam Montoya, Armando Romero al croato Drazen Katunaric, i cechi Petr Kral ed Erik Ondrejicka, il finlandese Jouni Inkala, gli svedesi Lars Gustaf Andersson e Lasse Söderberg; e ancora, dal congolese Gabriel Okoundji al giapponese Goro Takano e gli statunitensi Bill Mohr, Robin Myers, John Taylor eccetera. Continua a leggere

Gabriella Musetti, da “Un buon uso della vita”

Gabriella Musetti

le storie sono all’inizio
tutte uguali
nasci da un ventre aperto
dal buio vedi la luce
ma subito la storia cambia
secondo il luogo lo status
il modo e l’accoglienza
non c’è una regola prescritta
uguale a tutti
ognuno trova a caso la sua stanza
chi bene – felice lui o lei – chi
con dolore

***

è morta questa mattina è morta
ma non si è accorta di morire
rideva come una bambina
su un prato in primavera
rideva anche di sera (e pure di mattina)
– s’è messa in salvo – qualcuno dice
volata via sopra una rondine
un po’ di soppiatto un po’ per avveduta
consolazione – la scelta unica rimasta
quasi sicura

***

era morta con la luna storta
era morta sopra un cuscino estraneo
di un vicino fuori della sua casa
come faceva a spiegare
a chi gliel’avesse chiesto
che era uscita in giardino
solo a fumare una sigaretta
scavalcata la finestra s’era trovata
nella casa buia decisa
a seguire il suo destino?

***

lei (invece) era morta di notte
tra le botte della sera e quelle del mattino
s’era sottratta all’impeto
alla colpa perfino alla desolazione
e la solitudine che la penetrava
non dava godimento alcuno

***

era morta mentre sedeva in classe
prima della lezione d’italiano
s’era spenta come una lampada
accasciata sullo sterno senza un sospiro
senza avvedersene
e anche i giovani entranti
la guardavano appena
come dormiente Continua a leggere

Dimitri Milleri, da “Sistemi”

Dimitri Milleri

La sala d’aspetto
era un luogo di mimesi involontaria.
Era un silenzio privo di telefoni,
composto di frammenti: gesti usuali
in miniatura, archetipi di sedie
gerani immobili.
Nulla giungeva allo stato solido, violenta
era la forza di gravità in ogni volto,
irrefrenabile
la volontà di divinarla.

Quando non ci fu più distanza
fra esterno e interno
tutto si fece angusto, angusto e scomodo:
leggings a pois, riviste e prescrizioni
volevano restare corpi estranei.

Qualcuno poi spaccò la confluenza
con mosse improvvisate, gentilezze
dovute.
Bisognava essere buoni.

***

L’ipermnesia colpisce prima il cuore,
le statue degli affetti come fiori
finti nei cimiteri
le miniature esatte del vissuto.

Si perde il filo, tanto è quel nitore:
si dice mucchio di spire
che un corpo fa dormendo
terra magra,
rosso degli occhi chiusi.

Eppure, guardala nel troppo dei ricordi
la matassa di nomi battuti a pioggia, la spranga
ferruginosa, la data, la ricorrenza
che il disperdono fisso non arretra.

***

Se il vento muore la retta del mare
collassa e si provano tutte, ma resta
fisso comunque l’interno dell’occhio-mare.
Fra le stagioni si apre una distanza
come fra caste, il server fa le lucciole
tutto d’un colpo nel maggese, i forasacchi
dentro le orecchie dei cani.
L’estate
cade dal cielo come un’overdose.

Se il vento muore si provano tutte, ma resta
comunque fisso l’interno dell’occhio-mare.

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Philip Larkin, “Talking in bed”

,

Philip Larkin

Talking in bed ought to be easiest,
Lying together there goes back so far,
An emblem of two people being honest.
Yet more and more time passes silently.
Outside, the wind’s incomplete unrest
Builds and disperses clouds about the sky,
And dark towns heap up on the horizon.
None of this cares for us. Nothing shows why
At this unique distance from isolation
It becomes still more difficult to find
Words at once true and kind,
Or not untrue and not unkind.

*

Niente dovrebbe essere più semplice

di parlare a letto, stendersi insieme
è un rito antico, è l’emblema
di due persone reciprocamente oneste.
Eppure, sempre più tempo si passa in silenzio.
Fuori, un’ansietà di vento
raggruppa e disperde le nuvole nel cielo.
E città oscure si annunciano all’orizzonte.
A nessuna di queste cose importa veramente di noi.
E niente ci spiega perché
a questa siderale distanza dalla solitudine
sia invece sempre più difficile, almeno per una volta,
trovare parole oneste e gentili
o almeno non false, non meschine.
Traduzione di Giovanni Ibello Continua a leggere

Pasolini e Zanzotto, due grandi figure della letteratura del secondo Novecento

ANTEPRIMA EDITORIALE 

In occasione del centenario della nascita di Andrea Zanzotto si propone l’introduzione di Alberto Russo Previtali al volume Pasolini e Zanzotto: due poeti per il terzo millennio, Franco Cesati Editore, 2021.  

 

PASOLINI E ZANZOTTO NEL TEMPO DELL’ANTROPOCENE

di Alberto Russo Previtali

 

«I poeti, che non sanno quel che dicono, è ben noto, dicono però sempre le cose prima degli altri»[1] . Questo aforisma di Jacques Lacan potrebbe essere eletto a criterio supremo per stabilire chi può essere definito “poeta”. Se pensiamo a Pasolini e Zanzotto in base ad esso, non possiamo che vedere in loro dei poeti nel senso più profondo della parola. La loro fedeltà radicata ai valori più propri della poesia, al suo «fertilissimo stupore»[2], alla vocazione della sua parola sorgiva, ha permesso a questi poeti di sentire in anticipo gli aspetti negativi dei cambiamenti irrevocabili avvenuti nel dopoguerra, denunciandoli, e producendo su di essi una conoscenza poetica singolare e insostituibile. Zanzotto è nato il 10 ottobre 1921, Pasolini il 5 marzo 1922: a un secolo dalla loro nascita sono incontestabilmente due delle figure maggiori della letteratura italiana del secondo Novecento. La loro influenza letteraria e artistica è crescente, così come l’interesse che i critici e gli studiosi di altre discipline portano sulle loro opere. È dunque doveroso chiedersi, oggi, cogliendo il tempo propizio delle ricorrenze e delle date: a che cosa è dovuta la prossimità particolare di questi poeti con noi, lettori del XXI secolo? Che cosa rende così essenziale, così intima, la loro presenza? Le risposte potrebbero essere molte, e di diverse appartenenze prospettiche. Ma ce n’è una che, probabilmente, è all’origine di tutte le possibilità interpretative: Pasolini e Zanzotto sono stati i testimoni poetici di un’epoca di profondissimi cambiamenti culturali, quelli determinati dalla trasformazione dell’Italia in un paese industriale con una moderna società dei consumi.

Gli intellettuali italiani nati nei primi decenni del Novecento si sono ritrovati negli anni della maturità a vivere i rivolgimenti rutilanti del miracolo economico. Come Pasolini ha ripetuto più volte, la radicalità delle mutazioni della società, il passaggio folgorante da un’economia prevalentemente agricola a un’economia industriale, fanno dell’Italia un caso esemplare di questa fase storica. Ed è proprio la velocità bruciante del cambiamento ad avere moltiplicato gli effetti negativi e traumatici dell’avvento della modernità, che si sono imposti come oggetto delle opere di numerosi scrittori, poeti, cineasti e artisti appartenenti a quella che Alfonso Berardinelli ha chiamato «l’ultima generazione cresciuta in un’Italia ancora premoderna», ovvero l’ultima generazione «che abbia vissuto nella sua maturità, fra i trenta e i quarant’anni, il trauma di un mondo noto e amato che si trasformava fino a scomparire»[3] . A partire dagli anni Sessanta, anche Pasolini e Zanzotto si confrontano apertamente nelle loro opere con il cambiamento in atto. Le mutazioni degli elementi essenziali del loro rapporto artistico con la realtà sono vissute come dei traumi che determinano delle rotture nei loro percorsi poetici e letterari. Si tratta di cambiamenti di direzione irreversibili, che saranno esplorati fino alla fine dei loro itinerari. In queste dinamiche, le esperienze di questi due poeti appaiono oggi più che mai caratterizzate da numerosi e rilevantissimi punti in comune, che trovano riscontro negli interventi critici che si sono dedicati l’un l’altro nel corso dei decenni. Esplorare e ricostruire i rapporti tra le opere di Pasolini e Zanzotto è quindi certamente il primo fine del presente saggio, che si propone di offrire un ritratto critico “allo specchio” dei due poeti: per ricostruire le loro convergenze, ma anche per dare risalto ai rispettivi tratti singolari. La conferma più densa del buon orientamento di questo progetto ci viene da una poesia in dialetto di Zanzotto, Ti tu magnéa la tó ciòpa de pan, scritta in memoria di Pasolini e inserita nella raccolta Idioma del 1986:

Ti tu magnéa la tó ciòpa de pan
sul treno par andar a scola
a Sazhil e Conejan;
mi ere póch lontan, ma a quei tènp là
diese chilometri i era ’na imensità.
Cussita é stat che ’lora
do tosatéi no i se à mai cognossést.
[…]
Se se à parlà, pi avanti, se se à ledést;
zherte òlte ’von tasést o se a sticà,
la vita ne à parà sote straségne
e ciapà-dentro par tamài diversi,
mi fermo, inpetolà ’nte i versi
ti dapartut co la tó passion de tut;
ma pur ghe n’era ’n fil che ’l ne tegnéa:
de quel che val se ’véa l’istessa idea.

[Tu mangiavi il tuo pane
sul treno per andare a scuola
tra Sacile e Conegliano;
io ero poco lontano, ma a quei tempi
dieci chilometri erano un’immensità.
Così avvenne che allora
due ragazzetti non si sono conosciuti.
[…]
Più avanti, ci siamo parlati, ci siamo letti;
certe volte abbiamo taciuto o abbiamo litigato,
la vita ci ha spinti sotto sgocciolamenti di acqua fredda (colpi)
e presi in trappole diverse,
io fermo, impiastricciato nei versi,
tu dappertutto con la tua passione di tutto;
ma pur c’era un filo che sempre ci legava:
di ciò che vale avevamo la stessa idea][4]

 

Questa poesia ricorda in apertura la condivisione di una vicinanza geografica, che l’uso del dialetto rafforza e inserisce in un orizzonte più vasto e profondo, quello a cui si fa allusione nei due versi finali della seconda strofa, in uno dei punti più intensi del componimento: «ma pur c’era un filo che sempre ci legava / di ciò che vale avevamo la stessa idea». Dedicheremo nella seconda parte del volume un’attenzione specifica alla comprensione del filo comune tra Pasolini e Zanzotto, a questo «ciò che vale» in cui sembra essere racchiuso il segreto ultimo delle loro esperienze. Ma questi versi, scritti poco tempo dopo la morte di Pasolini, si pongono fin d’ora come la stella da seguire per orientare la nostra esplorazione. Poiché è in nome della «stessa idea» di questo «ciò che vale» che Pasolini e Zanzotto ci appaiono uniti nelle loro testimonianze poetiche di fronte agli «stravolgimenti dell’umano»[5] . Il senso di queste testimonianze, così legate al contesto particolare dell’Italia, assume oggi una rilevanza che ne oltrepassa le frontiere. Il valore delle loro opere, da un lato, e, dall’altro, l’esemplarità dello sviluppo economico italiano, hanno reso le loro esperienze altamente significative in una prospettiva europea e mondiale. È dunque possibile guardare oggi a Zanzotto e Pasolini come a due testimoni altissimi di quel fenomeno globale che alcuni storici e climatologi hanno ribattezzato, a posteriori, «Grande accelerazione»:

La progressiva crescita a cui si è assistito dal 1945 è stata tanto rapida da prendere il nome di Grande accelerazione. L’accumulo di anidride carbonica nell’atmosfera dovuto ad attività umane si è verificato per tre quarti della sua entità nel corso delle ultime tre generazioni. Il numero di veicoli a motore presenti sulla Terra è cresciuto da 40 milioni a 850 milioni. Gli abitanti del pianeta sono triplicati e il numero di quanti vivono in città è passato da circa 700 milioni a 3,7 miliardi. Nel 1950 la produzione mondiale di plastica ammontava all’incirca a un milione di tonnellate, ma nel 2015 si è arrivati a 300 milioni. Nello stesso arco temporale la quantità di azoto sintetizzato (principalmente per ottenere fertilizzanti) è passata da meno di 4 milioni di tonnellate a più di 85. La Grande accelerazione è ancora tale sotto alcuni aspetti, mentre altri – raccolta ittica marina, costruzione di maxi dighe e rarefazione dello strato di ozono – hanno cominciato a rallentare[6]. Continua a leggere

Marco Marangoni, da “Sentimentalissima luce”

Marco Marangoni

                      A G. Pontiggia

Io vivo in una traversa
di via Vincenzo Monti – che è un po’ più lunga – …
ma abito in una via,

l’unica di Milano dove c’è soltanto una casa, la mia
……………
***

Maria Zambrano scrive
che c’è un presente perfetto
nella parola che ferma il tempo
ma senza far che diventi
immobile, stella fissa
(senza desiderio);
presente invece
che si installa
in quel che conta
(e che ieri non ti ho detto);
rito del bosco
e del sole,
del tramonto (…) remo che sembrava
spezzato
luce declinante tra gli alberi
freccia che vuole al centro del verbo

***

L’abbiamo capito una sera,
misurando e osservando le piante,
quel brocco di soli andati e di nebbie
che in settembre facevano vedere
(come sotto un velo)
il frutto d’oro delle mele.
Abbiamo parlato a lungo,
ma il mestiere e l’arte restavano indietro,
dove la proprietà finiva in ciascuno,
e c’era un senso che non era meglio alberi
e non era di nessuno.

***

Se non ci fosse un sogno più reale
e questo non fosse il fratello, in luce,
della morte…
da dove mai i canti e i nodi
e gli ordini
che insieme tengono le voci
e il cigolio dei cardini?
c’è un passaggio
in fondo ai segni
e a tutte le porte
che indica il doppio
del tuo stato (alterno), dell’alterna
tua sorte

da: Sentimentalissima luce, Punto a capo editrice, 2021

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Francesco Accattoli, “La Mar”

Francesco Accattoli / ph. Vito Panico

da: Natanti

L’odore è piantato nel freddo.
Sulla balza del porto
si asciugano le strade, le case bianche.
I gatti dietro i vetri, nessuno
per strada, fuorché il mare.
A volte il dolore della febbre
sale, a volte il nulla arriva
come pioggia, è un nulla
vegetale, verde, vivo,
vicino al molo nel pieno del nord.

Il mare si crepa d’angustia,
non vale lo sforzo di ricucirlo.
Le maglie hanno ceduto.

***

D’inverno i granchi dormono
tra gli scogli, per le ossa è un inferno.
Scendo, a volto scoperto,

nel nord che ci fa il mare grande.
Lo guardo farsi trama, ascolto
i cambi d’intonazione. Le parole

hanno il passo delle maree.
D’improvviso il silenzio sul bianco,
come un tappeto d’organza.

***

A fine corsa, due nuvole
di storni, plasmate da un levante
che mischia le onde e le deforma.

Crepe di creta nella falesia.
L’inverno a guardare il cielo.

***

A meno che non si dica di andare
lì dove si raccolgono i vènti,
chiedere in ginocchio che si calmi
il suono che percuote le porte, che trattiene
il passo sulla terra fermo e gravi
il peso del pianeta;

a me prende il male di parlare
a meno di un miglio dalla costa.
Laggiù sono stati lampi tutta la notte,
di qua luci a mala pena, mogli
piccole case. Io sto di guardia,
che non ci fuggano dalle reti.

***

Si svegliava e prima del caffè cercava il mare con lo sguardo. Era un rito tutto umano, lo faceva prima ancora di parlare. Il mare era stato con lui nel letto, le reti si erano mosse durante la notte, la febbre della terra lo coglieva al primo sonno. E si trovava a camminare sull’asfalto, salire nel cemento, fino al terrazzato, sentire duro sotto i piedi e sbattere di porte in una bora ingrata. Tirava calci avvolto nella tela, tendeva le gambe, cercava la sentina, il fondo sudicio di cherosene. Con entrambe le mani lo sentiva sdraiarsi sulla chiglia, compiere l’amplesso della mareggiata. Sudavano le persiane un cigolio di pescatori, schiumava il tanfo della notte sulla terraferma.

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Marino Santalucia, “Norma L’altra me”

Marino Santalucia

Marino Santalucia racconta in “Norma L’altra me”, Edizioni progetto cultura 2020, lo sguardo di una donna nei diversi momenti della vita. Una poesia che si posa sullo sguardo femminile e poi sul se stesso maschile, poi su altre donne e uomini che si interrogano su ciò che vedono, su ciò che vivono.

IL NIDO

Non parlano i miei slanci
assalgono il silenzio impigliandosi
alle tue reticenze fanno il nido.

 

FOSSI STATA ALMENO UNA CORDA

Chi ha scolpito
labbra e viso
per cantare la mia poesia?
Fossi stata almeno una corda
avrei vibrato all’infinito.

 

IL BRUNO ODORE DELLA TERRA

Dentro me non manchi mai
non svanisci nell’aria,
ovunque spandi
il bruno odore della terra
e canti eterne piramidi.

 

SAREI UN ORTO BELLISSIMO

Potrei essere rinchiusa in uno spazio infinito
bellissimo come un orto incolto
senza rumori
tranne il seme che sboccia
o il vento che scompiglia. Continua a leggere

La nuova poesia italiana

Poesia contemporanea. Quindicesimo quaderno italiano, Marcos y Marcos

Dario Bertini, Interno 3

La finestra rimane sempre aperta: l’istinto naturale
sarebbe di saltare o mettersi a pulirla:
se c’è neve è meglio
dare un nome alla paura, lasciare che qualcuno
provi ancora ad amarci: lei lo sapeva bene,
per questo ha messo Bach sotto la doccia –
l’acqua bollente riempie il bagno di vapore,
appanna i vetri: verso le quattro del pomeriggio
un merlo taglia l’aria, si posa sul terrazzo,
(il becco giallo, gli occhi come spilli): lei
qui si toglie la maglietta, la schiena
è bianca come un cielo polare; scrive col dito
sullo specchio una parola che scomparirà

*

Simone Burratti, Con il tempo i computer si stancano

Con il tempo i computer si stancano,
rallentano, la batteria interna
perde energia per il surriscaldamento.
Diventano più sporchi, meno
Maneggevoli, si convincono
che la sfiducia totale nei calcoli
sia una diversa forma di sapienza.
Analizzare il futuro li spaventa
come una volta li rendeva forti.
Con il tempo, con i modelli nuovi,
la sostituzione diventa necessaria;
e allora i loro dati si disperdono
tra foto e file word nelle cartelle
minuscole dei loro successori.

*

Linda Del Sarto, Il ricordo impazzisce

Il ricordo impazzisce.
Ci sono odori che
entrano dentro, smuovono
pianti e stringono
a tradimento il collo.
Ammaccano l’armonia dei visi.
Quel bacio, per esempio: elettrolisi
del mio danno
cerebrale – dal tatto al non
contatto tra sinapsi. È normale.
Perché non fu tanto l’arte
del rimbambire, una catarsi
quanto l’instupidire
per il troppo amarsi.

*

Emanuele Franceschetti, (Introitus)

La memoria coltiva la sua lingua.
Dal fondo si riversa un sillabario,
cose insepolte che ancora significano
dietro la soglia incerta del visibile.
C’è un nome che non puoi dimenticare:
i vivi e i morti restano indivisi
nell’equivoco del tempo lineare.
La vita si contamina, persiste.

*

Matteo Meloni, Seytes

Diventeranno pietraie le Alpi,
cambieranno colore.

Nell’aria secca volava un astore
e sulle alture guardingo
rastrellava le forre.

Verranno i segugi troveranno
il nascondiglio, una lingua
di neve tra le spire del ferro,
il grigio fumoso.

*

Francesco Ottonello, se vuoi provare a entrare

se vuoi provare a entrare
qui devi avere un motivo. trovalo
se sei ancora qui questo è l’unico
che conosci per comunicare

non parlo con nessuno. ti chiedi chi sei
è la domanda a essere sbagliata

ora immagina di sdraiarti. censura dimentica
ciò che hai letto sopra non era sopra. non c’è niente
vedi non c’è più niente. ora sei con me. come me. ora
ti ho convinto. è vero. forse. ti controllo
a quel forse ti aggrappi. ti tendo
vedo che vieni

*

Sara Sermini, Cardus

L’aria era irsuta e ispida
come i cardi che raccogliemmo.

Sotto la luna, vicino al cavalcavia,
i sacchi abbandonati dell’immondizia
erano cuscini colorati.

Vicino alla luna, tra le ortiche e il fango,
bisognava soltanto badare ad amare.

Poesia contemporanea. Quindicesimo quaderno italiano, Marcos y Marcos

Poesia contemporanea. Quindicesimo quaderno italiano, a cura di Franco Buffoni, prefazioni di Antonella Anedda, Andrea De Alberti, Massimo Gezzi, Paolo Giovannetti, Franca Mancinelli, Guido Mazzoni, Fabio Pusterla, Marcos y Marcos 2021.

H. D., la poeta che stregò Ezra Pound

Hilda Doolittle

Pubblichiamo in Anteprima Editoriale tre poesie tratte dal volume H. D. Poesie Imagiste di Hilda Doolittle, a cura di Giorgia Sensi in uscita il 9 settembre 2021 con Interno Poesia.

NOTA DI GIORGIA SENSI

Nata nel 1886 a Bethlehem, Pennsylvania e conosciuta semplicemente con le iniziali H.D., la poeta Hilda Doolittle studiò letteratura greca al Bryn Mawr College di Philadelphia, ma si ritirò prima di aver completato gli studi. Nel 1907, per un solo anno, fu fidanzata con Ezra Pound. Le sue poesie, apparse su “Poetry” nel 1913, sono da Pound definite come un perfetto esempio di poetica imagista.

«Pound disse: “Ma Driade, questa è poesia.” Tirò un frego con la matita. “Taglia qui, abbrevia questo verso… “Hermes of the Ways” è un buon titolo. Questa la mando a Harriet Monroe di Poetry ...” E scrisse a grosse lettere “H.D. Imagiste” in fondo alla pagina».

Questa la versione che Hilda Doolittle, non ancora H. D., dà dell’incontro  – lei quindicenne e lui sedicenne  – con Ezra Pound.

L’incontro avvenne per la prima volta nel 1912 nella sala di lettura del British Museum e segnò la nascita del movimento poetico chiamato Imagismo.

Tra Ezra Pound e Hilda Doolittle nacque subito una stretta amicizia, un tormentato rapporto amoroso con numerose interruzioni, che durò per più di mezzo secolo, fino alla morte di Hilda, nel 1961.

H. D. e Ezra Pound fecero parte di quegli scrittori americani di inizio secolo, tra i quali T. S. Eliot, la cui vita e opera fu plasmata dalla scoperta dell’Europa, dove trascorsero la maggior parte della vita e scrissero le loro opere più importanti.

Ezra dominava Hilda (e non solo lei) affermandosi come sua guida e maestro, la avvicinava a nuovi libri e nuove idee, le dava occhi nuovi (come ebbe a dire più tardi), aiutandola e allo stesso tempo controllandola.

Apparentemente archiviato l’amore per Ezra Pound, la vita sentimentale di H. D. fu comunque tumultuosa. Nel 1913 sposò Richard Aldington, poeta inglese, che insieme a Hilda e Ezra frequentava la reading room e la celebre sala da tè del British Museum e che, con lei, partecipò alle prime antologie imagiste. Al di là della poesia, li accomunava un grande amore per i miti della Grecia classica.

Dopo la separazione da Aldington, H. D. iniziò una relazione con la scrittrice Frances Gregg, ebbe altre relazioni sia etero sia omosessuali, un rapporto di amicizia con D. H. Lawrence la cui natura non è mai stata chiarita, soffrì di disturbi nervosi, (il suo analista fu  Sigmund Freud), ebbe crisi mistiche, mise al mondo una figlia, Perdita, avuta dal compositore Cecil Gray, e infine conobbe Bryher (il cui vero nome era Winifred Ellmann), una ricca industriale, che fu la sua compagna stabile per il resto della sua vita.

Poesie imagiste di H. D. (Hilda Doolittle)

Mid-day

The light beats upon me.
I am startled –
a split leaf crackles on the paved floor –
I am anguished – defeated.

A slight wind shakes the seed-pods –
my thoughts are spent
as the black seeds.
My thoughts tear me,
I dread their fever.
I am scattered in its whirl.
I am scattered like the hot shrivelled seeds.

The shrivelled seeds
are split on the path –
the grass bends with dust,
the grape slips under its crackled leaf:
yet far beyond the spent seed-pods,
and the blackened stalks of mint,
the poplar is bright on the hill,
the poplar spreads out, deep-rooted among trees.

O poplar, you are great
among the hill-stones,
while I perish on the path
among the crevices of the rocks. Continua a leggere

La poeta russa Marina Cvetaeva

Marina Cvetaeva

Поэт – издалека заводит речь.
Поэта – далеко заводит речь.

Планетами, приметами, окольных
Притч рытвинами… Между да и нет
Он даже размахнувшись с колокольни
Крюк выморочит… Ибо путь комет –

Поэтов путь. Развеянные звенья
Причинности – вот связь его! Кверх лбом
Отчаетесь! Поэтовы затменья
Не предугаданы календарем.

Он тот, кто смешивает карты,
Обманывает вес и счет,
Он тот, кто спрашивает с парты,
Кто Канта наголову бьет,

Кто в каменном гробу Бастилий
Как дерево в своей красе.
Тот, чьи следы – всегда простыли,
Тот поезд, на который все
Опаздывают…
– ибо путь комет

Поэтов путь: жжя, а не согревая.
Рвя, а не взращивая – взрыв и взлом –
Твоя стезя, гривастая кривая,
Не предугадана календарем!

8 апреля 1923 

Da lontano – il poeta prende la parola.
Le parole lo portano – lontano.

Per pianeti, sogni, segni… Per le traverse vie
dell’allusione. Tra il sì e il no il poeta,
anche spiccando il volo da un balcone
trova un appiglio. Giacché il suo

è passo di cometa. E negli sparsi anelli
della casualità è il suo nesso. Disperate –
voi che guardate il cielo! L’eclisse del poeta
non c’è sui calendari. Il poeta è quello

che imbroglia in tavola le carte,
che inganna i conti e ruba il peso.
Quello che interroga dal banco,
che sbaraglia Kant,

che sta nella bara di Bastiglie
come un albero nella sua bellezza…
È quello che non lascia tracce,
il treno a cui non uno arriva
in tempo…
Giacché il suo

è passo di cometa: brucia e non scalda,
cuoce e non matura – furto! scasso! –
tortuoso sentiero chiomato
ignoto a tutti i calendari…

8 aprile 1923  Continua a leggere

Mark Strand (1934 – 2014)

Mark Strand

Your shadow

You have your shadow.
The places where you were have given it back.
The hallways and bare lawns of the orphanage have given it back.
The Newsboys’ Home has given it back.
The streets of New York have given it back and so have the streets of Montreal.
The rooms in Belém where lizards would snap at mosquitos have given it back.
The dark streets of Manaus and the damp streets of Rio have given it back.
Mexico City where you wanted to leave it has given it back.
And Halifax where the harbor would wash its hands of you has given it back.
You have your shadow.
When you traveled the white wake of your going sent your shadow below, but when you arrived it was there to greet you. You had your shadow.
The doorways you entered lifted your shadow from you and when you went out, gave it back. You had your shadow.
Even when you forgot your shadow, you found it again; it had been with you.
Once in the country the shade of a tree covered your shadow and you were not known.
Once in the country you thought your shadow had been cast by somebody else. Your shadow said nothing.
Your clothes carried your shadow inside; when you took them off, it spread like the dark of your past.
And your words that float like leaves in an air that is lost, in a place no one knows, gave you back your shadow.
Your friends gave you back your shadow.
Your enemies gave you back your shadow. They said it was heavy and would cover your grave.
When you died your shadow slept at the mouth of the furnace and ate ashes for bread.
It rejoiced among ruins.
It watched while others slept.
It shone like crystal among the tombs.
It composed itself like air.
It wanted to be like snow on water.
It wanted to be nothing, but that was not possible.
It came to my house.
It sat on my shoulders.
Your shadow is yours. I told it so. I said it was yours.
I have carried it with me too long. I give it back.

By Mark Strand

 

La tua ombra

Hai la tua ombra.
I luoghi in cui sei stato l’hanno restituita.
I corridoi e i prati spogli dell’orfanotrofio l’hanno restituita.
La Newsboys Home l’ha restituita.
Le strade di New York l’hanno restituita e anche le strade di Montreal.
Le camere di Belém dove le lucertole divoravano le zanzare l’hanno restituita.
Le strade scure di Manaus e quelle afose di Rio l’hanno restituita.
Città del Messico dove te ne volevi andare l’ha restituita.
E Halifax dove il porto si lavava le mani di te l’ha restituita.
Hai la tua ombra.
Quando viaggiavi la scia bianca del tuo incedere affondava
l’ombra, ma quando arrivavi la trovavi ad attenderti.
Avevi la tua ombra.
Le soglie che varcavi ti sottraevano l’ombra e quando uscivi te la restituivano.
Avevi la tua ombra.
Anche quando te la dimenticavi, la ritrovavi; l’ombra era stata con te.
Una volta in campagna l’ombra di un albero coprì la tua ombra
e tu non venisti riconosciuto.
Una volta in campagna pensasti che la tua ombra fosse proiettata da un altro.
L’ombra non disse nulla.
I tuoi abiti portavano dietro la tua ombra; quando li toglievi, lei si diffondeva come il buio del tuo passato.
E le tue parole che volavano come foglie in un’aria persa, in un luogo che nessuno conosce, ti hanno restituito la tua ombra.
Gli amici ti hanno restituito la tua ombra.
I nemici ti hanno restituito la tua ombra. Hanno detto che era pesante e avrebbe coperto la tua tomba.
Quando moristi la tua ombra dormiva sulla bocca del forno e mangiò come pane i ceneri.
Esultava tra le rovine.
Vigilava mentre gli altri dormivano.
Risplendeva come cristallo tra le tombe.
Componeva se stessa come l’aria.
Voleva essere come sull’acqua.
Voleva non essere nulla, ma non era possibile.
Venne a casa mia.
Mi sedette sulle spalle.
La tua ombra è tua. Glielo dissi. Le dissi che era tua.
L’ho portata con me troppo tempo. La restituisco.

Traduzione di Damiano Abeni
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Una poesia di Alda Merini

Alda Merini

 

Il gobbo

Dalla solita sponda del mattino
io mi guadagno palmo a palmo il giorno:
il giorno dalle acque così grigie,
dall’espressione assente.
Il giorno io lo guadagno con fatica
tra le due sponde che non si risolvono,
insoluta io stessa per la vita
… e nessuno m’aiuta.
Mi viene a volte un gobbo sfaccendato,
un simbolo presago d’allegrezza
che ha il dono di una strana profezia.
E perché vada incontro alla promessa
lui mi traghetta sulle proprie spalle.

(22 dicembre 1948 – da ”Poetesse del Novecento”, 1951)

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I poeti del Festival “Piombino in Arte”

A confronto con Onofrio, Poletti e Vitale

NOTA DI MATTEO BIANCHI

Da mercoledì 21 a sabato 24 luglio, saranno i poeti i protagonisti indiscussi della quinta edizione di Piombino in Arte, già Populonia in Arte, festival organizzato dall’associazione EstroVersi con la direzione artistica di Cinzia Demi e il supporto del Comune di Piombino. Giovedì 22, alle 19, sulla terrazza mozzafiato dell’Hotel Esperia di fronte all’Isola d’Elba, sarà proprio Demi a intrattenere la platea con i personaggi della Commedia dantesca, prendendo il largo da un suo libro che ha riscosso un’attenzione particolare tra i ragazzi, Incontriamoci all’Inferno (Pendragon). E dopo una cena con l’autrice fuori dagli schemi, alle 21, nel giardino dell’ex Pro Patria, si leggeranno e commenteranno i versi di Bruno Galluccio, Cristiano Poletti, Marco Vitale, Marco Onofrio, Michele Paoletti, Fabio Canessa e Davide Puccini. A seguire, sarà premiato il vincitore della II edizione del concorso letterario #assaggidipoesia, Axel Sintoni, il più votato dalla giuria popolare.

Dal canto suo, Marco Onofrio ha deciso di fissare al foglio un inestinguibile Azzurro esiguo (Passigli, 2021), metafora del meccanismo cosmico di cui siamo parte: «L’azzurro, ossia il colore del cielo, dell’ossigeno che ci tiene in vita, e del mare, da cui la vita è originata, appare “esiguo” perché infinitesima, ma infinitamente significativa e preziosa è la goccia della vita su scala universale – argomenta – quindi il prodigio di questo pianeta rispetto al buio e gelido orrore del vuoto senza fine in cui rotoliamo, così come l’apertura brevissima della nostra esperienza tra gli abissi del “prima” e del “dopo”. L’azzurro appare “esiguo” anche perché nell’esistenza di ognuno i dolori sono in genere più numerosi e frequenti delle gioie, tanto che per ogni fuggevole gioia càpita di pagare un prezzo salatissimo che, a posteriori, ce la fa quasi detestare, oltre che rimpiangere. E tuttavia è proprio questa creaturale, disperata fragilità a rendere l’azzurro inestinguibile, sì, e irrinunciabile la necessità di fermarlo e salvarlo attraverso la parola». Nella poesia eponima, con cui il libro si conclude, Onofrio scrive tra l’altro:

Come riuscire a dire l’azzurro esiguo
dentro l’universo tutto nero?

Siamo lampi che aprono il mondo
tra due abissi di tenebra infinita.

La nostra casa è lo sguardo
il canto, l’amore, il senso
la disperata, ultima parola.

Il porto di Piombino al tramonto

Che il sereno sia la più diffusa delle nubi, chiamando in causa Montale, lo contesta Cristiano Poletti con i suoi fatidici Temporali (Marcos y Marcos, 2019), in cui la poesia viene dalla realtà, o meglio, prorompe dalla realtà per vivere nell’esperienza di ciascuno, in ogni gesto di ogni giorno. Continua a leggere

Torna la poesia a Spilimbergo

C  O  M  U   N   I  C  A  T  O      S  T  A  M  P  A  

Dopo il grande successo del Festival della Letteratura Verde il secondo momento letterario che da tre anni accompagna l’estate della provincia pordenonese: Panorami Poetici.

 

Nato dall’incontro della Samuele Editore con il Comune di Spilimbergo, per la direzione artistica di Alessandro Canzian e Roberto Rocchi, il festival viene ospitato quest’anno da Palazzo Tadea e nella sua straordinaria cornice vedrà succedersi poeti da tutta Italia per letture, presentazioni, dialoghi.

 

Alle 16.00 l’inaugurazione dell’Edizione 2021. Alle 16.30 la prima tornata di dialoghi e letture con Elisabetta Zambon, Fulvio Segato, Matteo Piergigli introdotti da Roberto Rocchi. Alle 17.00 Alessandro Canzian presenterà “L’antro siel del mondo” di Ivan Crico (pordenonelegge, 2019). Alle 17.30 Roberto Rocchi introdurrà Giovanni Fierro e Rossella Pretto. Alle 18.00 Rodolfo Zucco presenterà “Alter” di Christian Sinicco (Vydia Editore 2020). Alle 18.30 Alessandro Canzian introdurrà le letture di Beppe Cavatorta, Giuseppe Nava, con l’eccezionale partecipazione di Claudio Damiani. Alle 19 verrà presentato e leggeranno gli autori del contest Vetrine Poetiche. Alle 19.30 la chiusura del Festival con la performance poetica BIL in motion di Martina Campi, Mario Sboarina, Francesca Del Moro, Enzo Campi, Alessandro Brusa (Bologna in Lettere). Continua a leggere

Hopkins, “Il naufragio del Deutschland”

Gerald Manley Hopkins a 19 anni

«Ritmo, energia, intensità d’una lingua magnificamente ostacolata, e una sofferenza a cui non dovevano esser estranei una struggente religiosità, le tacitate propensioni sessuali e lo scontro fra l’umiltà che si pretende dal sacerdote e il necessario orgoglio del poeta.»[…]

Con queste parole Nanni Cagnone, curatore e traduttore de Il naufragio del Deutschland (Giacometti e Antonello, Macerata, 2021) frutto di una rielaborazione durata decenni, descrive le caratteristiche salienti dell’universo poetico di Hopkins.

Part the First. Stanza One

Thou mastering me
God! giver of breath and bread;
World’s strand, sway of the sea;
Lord of living and dead;
Thou hast bound bones & veins in me, fastened me flesh,
And after it almost unmade, what with dread,
Thy doing: and dost thou touch me afresh?
Over again I feel thy finger and find thee.

Prima parte. Prima stanza

Tu che me domini
Dio! donatore del soffio, del pane;
Fibra-lido del mondo, impulso del mare;
Dei vivi e dei morti Signore; ossa e vene
In me hai legato, m’hai affibbiato la carne,
Poi l’opera tua con tale spavento, l’hai
Quasi disfatta: e mi colpisci di nuovo?
Altra volta sento il tuo dito, te trovo.

Stanza Two

I did say yes
O at lightning and lashed rod;
Thou heardst me truer than tongue confess
Thy terror, O Christ, O God;
Thou knowest the walls, altar and hour and night:
The swoon of a heart that the sweep and the hurl of thee trod
Hard down with a horror of height:
And the midriff astrain with leaning of, laced with fire of stress.

Seconda stanza

Sì, io consentii
Oh a vibrata balenante frusta;
Tu mi udisti, più veritiero della lingua,
Ammettere timore di te, o Khristos, o Dio;
Tu sai i muri e l’altare, l’ora e la notte:
Il deliquio d’un cuore che’l tuo scagliarti e squassare
Vertiginato fecero, tutto calpesto: e il prèmito
Del diaframma, contratto, costrizione rovente.

Stanza Three

The frown of his face
Before me, the hurtle of hell
Behind, where, where was a, where was a place?
I whirled out wings that spell
And fled with a fling of the heart to the heart of the Host.
My heart, but you were dovewinged, I can tell,
Carrier-witted, I am bold to boast,
To flash from the flame to the flame then, tower from the grace to the grace.

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La poesia e il disegno di Dagnino

Massimo Dagnino

I MIEI GATTI VI OSSERVANO
di 
Massimo Dagnino

(2019)

      La pioggia abbassa la terra
nel giardino fiori lambiscono l’ombra
immaginaria del suo corpo. Guarda piovere
dal suo sguardo domestico fino a diffidare
del sonno. Potrei rilasciarmi,
come i gatti,
sui cornicioni, a spingermi nel loro inumano
onirismo.
Nel temporale erano cresciute
le zucche, sul tumulo di terra. Il rovescio anticipa
l’inconcludente e alberi alti
asciugano la notte, a voragine
il vigneto colmo declina
nell’incuria della voce: anfiteatro popolato
da gatti alleati, non si lascia tradurre
l’epigrafe irregolare, scivola
in raucedine la strada.

***

Passo del Turchino

l’afa si fa stasi
le viscere gonfiano corpi e fiori
di passiflora deposti (disposti)
dalla madre non arriva
nel sogno il buio tra il fogliame
cronologico l’abitato si estingue.
Fisso il cerchio rosso del segnale
nell’affondo di colline, quel rosso lanciato
a torpedine in collisione.

La casa limitrofa a emanazione
del buio, senza controllo la crescita
asfittica di ortensie tra volti inattuali
commisurato al parlare
un vacuo temporale figura animali
nei lampi a vuoto
un treno fermo, distanziato nei giorni
nello squarcio di vigne – scartati dal tempo –
i miei gatti vi osservano

Ma la segnaletica sbarra la struttura del buio.

Svelta accorcia le scale per infiltrarsi
nel disordine del frutteto, compulsiva non smette
di lavarsi il manto mordicchiandosi da pulci
fastidiose: spia
i cani aguzzando
le orecchie e a inarcarsi nel sonno
nell’ala d’ombra ignara della specie
di piante dove dormire fino al richiamo del nome.
Mastica dove ha più denti
Incisivi, isola la carne e io mi vedo
Nascosto al suo pasto
Notturno, presto reattiva alla pioggia
Ipnotica nel soffio felino
Estingue legami.

28 giugno 2019

***

L’immagine ritorna mentre sparisce
fra piante e la villa in mattoni, si orienta nel suo
territorio fatto di scale, terrazzi, alberi
letti, cartoni su cui rinvigorire
le unghie: si annuncia quando arriva a mangiare.
Ma ora l’insieme si trasla
le zampe sporche, ringhia infastidita
nel nervosismo della coda: ti fissa
mentre le gratti il collo riportandomi
trasfigurato alla mia specie.

Spaventata si avvolge nel suo sonno.
A sollevarla nell’aria mostra una strana gioia
nel labbro leporino, inaspettata
della nuova latitudine.

***

Arriva dallo scollamento del buio, riconosco
la sua andatura indifferente.

La lascio stare
mentre si addormenta seguendo
il profilo curvo della collina.

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Mandel’štam, “Conversazione su Dante”

Nel 1933 Osip Mandel’štam, poeta in disgrazia, «e­ migrato interno» in procinto di diventare carne da lager, «arde di Dante», e studia l’italiano servendo­si della Divina Commedia.

In Crimea durante la pri­mavera scrive Conversazione su Dante, ma quando tenta di pubblicarlo incontra una serie di rifiuti. Di certo il saggio non ha nulla a che vedere con il rea­lismo socialista, né corrisponde al canone degli stu­di danteschi.

Affrancando il «sommo poeta» ita­liano da secoli di retorica scolastica, Mandel’štam ragiona su ciò che presiede alla nascita della sua poesia: in primo luogo, la metamorfosi.

Tutto, nella Commedia, è in movimento, e per il vero lettore, «esecutore creativo», leggere Dante significa rifiu­tarsi di restare incatenati a un presente che a sua volta è saldamente ancorato al passato: «Pronun­ciando la parola “sole” compiamo un lunghissi­mo viaggio al quale siamo talmente abituati che ormai viaggiamo dormendo. La poesia … ci sveglia di soprassalto a metà parola – parola che ci sembra molto più lunga di quanto credessimo –, e in quel momento ricordiamo che parlare è sempre essere in cammino».

Unico poiché sembra comprende­re tutti i linguaggi, quello di Dante evoca il mon­do con irripetibile potenza, e la Conversazione di Mandel’štam, tripudio di luminose intuizioni, co­strutti arditi e metafore inusitate (biologiche, mu­sicali, meteorologiche, tessili), in una prosa conti­nuamente attraversata da squarci di poesia, scor­ge e mette in luce i tratti più moderni, addirittura sperimentali, del suo poetare.

A cura di Serena Vitale. Continua a leggere

Dialoghi sulla Letteratura di Mariella Radaelli

RECENSIONE DI ALBERTO FRACCACRETA

Si è percorsi da un brivido di genuino stupore quando si legge l’indice de Il ferro e la rosa. Dialoghi su mondo e letteratura di Mariella Radaelli, posto all’estremità di quattrocentoundici densissime pagine: brivido che cresce allo snocciolare — sicuro e inconcusso — di nomi non certo ignoti, di mostri sacri della letteratura odierna: Isabel Allende, Ray Bradbury, Andrea Camilleri, Jonathan Franzen, Giovanni Giudici, Nadine Gordimer, Günter Grass, Franco Loi, Alda Merini, Amos Oz, Toni Morrison, José Saramago e molti altri. Possiamo continuare a lungo. Una galleria di premi Nobel, giganti della poesia nostrana e straniera, eminenti romanzieri: sono stati tutti intervistati durante la ventennale esperienza giornalistica della Radaelli (che ha rubricato i pezzi per quotidiani come «Il Giorno», «QN», «Corriere del Ticino»; oggi lavora come columnist al «Khaleej Times», dopo essere stata corrispondente per il «New Delhi Times», l’«Italo-Americano» e il «China Daily»). «Le mie scrittrici e i miei scrittori — dichiara l’autrice nell’introduzione — mi hanno insegnato a battagliare i qualunquismi e le sciatterie del quotidiano. Leggerli ha affinato la mia capacità d’ascolto e la mia dimensione riflessiva di conciliazione».

Bene, innanzitutto ciò che emerge dal libro è proprio l’ampia capacità di ascolto della giornalista, il suo farsi da parte per accogliere il pensiero e il punto di vista dell’altro, per lasciar emergere le idee sul mondo, sull’arte, sulla società della personalità letteraria chiamata in causa e puntellata costantemente dagli intelligenti stimoli dell’interlocutrice. Un esempio? L’arditissima intervista Mario Luzi: “Mia madre, la voce di Dio”, pubblicata su «Il Giorno» il 5 aprile 2003.

Ecco uno spezzone: «Luzi, parliamo della sua fede in Cristo. All’inizio non avevo una posizione esplicita, ma dentro di me agiva questa forza spirituale. E il merito è stato di mia madre. L’ha anche scritto in “La porta del cielo”. Sì, è stata lei a insegnarmi a sentire la presenza del Cristo nell’eucarestia. Aveva un legale “umbilicale” con sua madre. L’ha paragonata a Monica, la madre di Sant’Agostino. Avevamo anche noi quei colloqui, quelli che Agostino aveva a Ostia con Monica. I miei rapporti con mia madre, che era una donna molto semplice, sono stati formalmente umili ma di sostanza. Il nostro è stato un rapporto bellissimo. A lei ha dedicato molte poesie, molte raccolte. Fino all’ultimo svolse i suoi compiti, lei scrive: “Preparò l’ultima cena”. Il richiamo cristologico non è casuale. Lei ha fatto dello Spirito la sua principale materia poetica.

Ho solo cercato di ristabilire, ma non so se ci sono riuscito, il fondamento spirituale del linguaggio poetico. Esiste però un “salto” tra la poesia, che contiene in sé nell’etimologia del vocabolo la radice del fare, e la preghiera. La contemplazione è qualcosa di superiore: un’immobilità che non rompe il silenzio, come invece accade quando ci si mette a scrivere». Continua a leggere

La poetessa uruguaiana Ida Vitale

Ida Vitale

OBLIGACIONES DIARIAS

Acuérdate del pan,
no olvides aquella cera oscura
que hay que tender en las maderas,
ni la canela guarneciente,
ni otras especias necesarias.
Corre, corrige, vela,
verifi ca cada rito doméstico.
Atenida a la sal, a la miel,
a la harina, al vino inútil,
pisa sin más la inclinación ociosa,
la ardiente grita de tu cuerpo.
Pasa, por esta misma aguja enhebradora,
tarde tras tarde,
entre una tela y otra,
el agridulce sueño,
las porciones de cielo destrozado.
Y que siempre entre manos un ovillo
interminablemente se devane
como en las vueltas de otro laberinto.
Pero no pienses,
no procures,
teje.
De poco vale hacer memoria,
buscar favor entre los mitos.
Ariadna eres sin rescate
y sin constelación que te corone

IMPEGNI D’OGNI GIORNO

Ricordati del pane,
non ti scordare quella cera bruna
che si deve spalmare sopra il legno,
né la cannella per guarnire,
né le altre spezie necessarie.
Corri, aggiusta, veglia,
verifi ca ogni rito della casa.
D’accordo con il sale, il miele,
con la farina, il vino inutile,
cedi senz’altro al tuo talento ozioso,
allo strepito ardente del tuo corpo.
Passa, per questo stesso ago da cucire,
una sera via l’altra,
tra l’una e l’altra tela,
il tuo agrodolce sogno,
le porzioni di cielo danneggiato.
E sempre in mano tua un gomitolo
senza mai smettere si avvolga
come nei giri d’altro labirinto.
Ma non pensare,
non sforzarti,
tessi.
A poco vale ricordare,
cercare appoggio dentro i miti.
Arianna tu non hai riscatto
né una costellazione per corona.

TODO ES VÍSPERA

Todo es víspera.
Todo sueña un renuevo
y mueve el corazón a defenderse
de los derrumbaderos.
Cada uno en su noche
esperanzado pide
el despertar, el aire,
una luz seminaria,
algo donde no muera.
Algo inviolado, exacto, fehaciente,
para afrentar la sombra,
un puro manantial,
raíz de agua, algo
como esa jarra tuya, Isabel,
donde acaso
hay claridad humana,
amor con su poder resplandeciente,
más misterioso que la sombra misma.

TUTTO È VIGILIA

Tutto è vigilia.
Tutto sogna un rinnovo
e muove il cuore a tenersi lontani
dai precipizi.
Nella sua notte ognuno
speranzoso chiede
il risveglio, l’aria,
una luce semenza,
qualcosa in cui non muoia.
Qualcosa d’intatto, esatto, affi dabile,
per aff rontare l’ombra,
una pura sorgiva,
vena d’acqua, qualcosa
come quella caraff a tua, Isabel,
dove forse
c’è chiarità umana,
amore e il suo potere risplendente,
più misterioso della stessa ombra. Continua a leggere

“Astolfo sulla luna”, omaggio a Ariosto


ALLA RICERCA DEL SENNO DI ORLANDO

Moni Ovadia legge Roberto Pazzi da Un giorno senza sera
Roberto Pazzi legge dall’Orlando furioso di Ludovico Ariosto

di Matteo Bianchi

Rileggere il passato per affrancarsi dal presente e non subire gli umori della mondanità. Il nostro patrimonio letterario lo testimonia nonostante il corso impietoso del tempo; perciò la ricerca del senno perduto, seguendo l’ippogrifo di Astolfo fin sulla luna, è diventata una questione urgente per Roberto Pazzi: ogni giorno assistiamo allo spettacolo dell’insensatezza attraverso la mistificazione linguistica di tante cose che non contano, ma che sono spacciate mediaticamente per indispensabili, così la ludopatia, l’ubriacatura per il pallone. Una sproporzione d’importanza che l’eroismo del piede ha rispetto a quello della mente e che nulla ha a che fare con il Goal di sabiana memoria.

Roberto Pazzi

Giovedì 24 giugno, dopo l’inaugurazione nel cortile del Castello Estense della mostra “Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori”, organizzata da Ferrara Arte, alle 21.30  Roberto Pazzi e Moni Ovadia dialogheranno in versi accompagnati dal suggestivo spettacolo di videomapping proiettato sulla torre di San Paolo con musiche di Arvo Pärt e Gesualdo da Venosa. Se il direttore del Teatro Comunale “Abbado” comincerà leggendo le poesie dello scrittore ferrarese tratte dall’antologia Un giorno senza sera (La nave di Teseo), Pazzi risponderà attingendo direttamente dall’Orlando furioso.

«Recitare dall’apice del cuore di Ferrara è un sogno che custodisco da anni, dal 31 luglio 1981 – esordisce Pazzi – quando Carmelo Bene interpretò Dante dalla Torre degli Asinelli per commemorare il primo anniversario della strage fascista alla stazione di Bologna. Il canto dantesco volò nell’aria calda di quell’estate e raggiunse più di centomila persone, che ascoltavano là sotto. Ferrara vanta uno dei maggiori poeti del mondo, Ludovico Ariosto, e portare la sua visione in cima alla nostra città mi è sembrato doveroso».

In una notte di plenilunio sarà emozionante ascoltare i passi del poema nel luogo dove fu concepito e letto a Ippolito d’Este, cui è dedicato, che ascoltati i primi canti pare avesse commentato: «Messer Lodovico, dove siete andato a trovare tante corbellerie?».

Al centro della lettura di Pazzi saranno le ottave sulla follia di Orlando (100-136) del canto XXIII, e quelle del volo di Astolfo sulla luna (ottave 70-91) del canto XXXIV.

«Rimane l’attualità eterna di queste pagine – aggiunge – che sanno sorridere di tante vanità umane, “dell’ozio lungo d’uomini ignoranti”, delle bugie degli amanti, della fama scambiata per la gloria, dell’insipienza umana alla costante ricerca di beni effimeri, che si mostrano ingannevoli, ma con un tono di infinita comprensione della dissennatezza, e che non giudica, ma compatisce. Abbiamo bisogno di autori nelle cui parole si riscopra ancora oggi la gioia dei sensi e il gioco del caso, che non divulghino solo una concezione trascendente della realtà».

Geni come Ariosto, Boccaccio, Mozart e Rossini sono tra i pochi che abbiano espresso nelle loro opere, nella letteratura o nella musica, la gioia di vivere libera dall’ombra della morte, persuasa che l’esistenza abbia in sé il suo valore e il suo limite. D’altronde, la scelta di un poeta rinascimentale nel momento di un sospirato ritorno alla normalità dopo le continue quarantene vuole anche essere un saluto alla vita che rinasce.

Moni Ovadia

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Pascoli, “Il gelsomino notturno”

Giovanni Pascoli

E s’aprono i fiori notturni,
nell’ora che penso ai miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.

Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l’ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.

Dai calici aperti si esala
l’odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l’erba sopra le fosse.

Un’ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l’aia azzurra
va col suo pigolio di stelle.

Per tutta la notte s’esala
l’odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s’è spento…

È l’alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l’urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.

 

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Alessandro Fo, “Filo spinato”

DAL RISVOLTO DI COPERTINA

Il filo spinato del titolo è quello che, trattenendo il nonno di rientro da un assalto durante la Grande Guerra, gli salvò la vita. Senza quel filo non ci sarebbero stati il padre del poeta, né la zia Bianca, né lo zio Dario, né il premio Nobel di quest’ultimo. Incontriamo poi in questo libro un ricco romano del IV secolo, di cui rimane pressoché solo il nome: ma fu grazie a lui se il giovane Agostino poté studiare. Senza di lui, niente Confessioni. E poi, ancora, una borsetta di perline trovata fra le macerie della Seconda guerra mondiale e conservata durante la prigionia per essere regalata a una futura nipote, che ora l’ha riposta cosí gelosamente da non riuscire piú a trovarla. La consolazione di un declivio fiorito lungo la strada che conduce a un lavoro logorante. Una pagella del 1934, nella quale un 6 in matematica fa ancora recriminare dopo piú di ottant’anni l’alunna che lo ricevette. Un garage da sgomberare, in cui giace un tesoro di lettere di Ripellino. L’avvento salvifico di vecchi libri sbrindellati nella cella di una prigione. Le poesie di Alessandro Fo raccontano piccoli episodi come ripresi da vecchie foto, sempre con la speranza che qualcosa resti, dopo la fine di ogni storia. Sempre con la certezza che tra lo scomparire e il riemergere ci sia un filo sottile, spinato o no, a cui tutti siamo appesi.

 

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Giannino di Lieto, “Il gesto antico e nuovo della lingua”

Giannino di Lieto

LA LINGUA INQUIETA E LA LINGUA DI UN POPOLO

 IDA TRAVI

Nel Breviario inutile, supplemento a “L’Ortica” del marzo 2003, al secondo paragrafo, titolato Della Comunicazione, Giannino di Lieto scrive: “Una Società di parlanti è attraversata da una ragnatela o intersezioni, le Società di Discorso. La configurazione di una Società di Discorso è circolare, quindi fondamentalmente chiusa”.

La lingua del discorso sembra vincente, sembra unificante solo perché è chiusa.

C’è molto di costrittivo nel suo unificare, c’è una perdita di libertà nel Discorso pubblico.
C’è una finzione. Passare attraverso il discorso pubblico, senza il coraggio della
poesia, vuol dire uscirne spellati.

La Società di Discorso chiude, non lascia parlare; la scrittura di questa Società di
Discorso
zittisce l’altro. Ecco allora che la parola poetica si ribella, forza il Discorso
chiuso, e all’improvviso apre un varco, sia nel passato che nel futuro.

Il varco è in realtà uno spiazzo millenario nel quale irrompono le civiltà che forse dormono, ma non sono ancora estinte. Dormono accanto a un futuro prossimo senza tempo.

Nello spiazzo millenario, se pur frantumato e scaduto, si fa vivo un essere antico, che mostrandosi come nuovo, riemerge dalle tempestose acque della storia.

Nessuno può sapere in che rapporto sta con l’ombra. Questa è cosa che non si può dire, ma solo poeticamente indicare, come farebbe un bambino col dito teso, come farebbe un muto indicando qualcosa di “profeticamente” accaduto.

Il tempo della capra
quando si munge piegati sul ginocchio
era uno spiazzo estivo,
ombra in corsa d’acqua
la fatica saltellante negli squadri cavi
graffiare del naufrago le mani
povere piante
come d’antico vivere:
il grido si è spellato sulla bocca.

Giannino di Lieto, Indecifrabile perché (“Giochi verticali”, p. 31)

Indicare poeticamente (silenziosamente) è un gesto antico e nuovo insieme. È gesto antico e nuovo in ogni lingua, in ogni civiltà. Questo gesto poetico racchiude un silenzio che si salva anche nella parola pronunciata. E un silenzio sonoro unisce contemporaneamente ciò che sta fuori – all’aperto – e ciò che batte – dentro – con il pendolo, al muro della nostra casa.

Vivere in punta:
se l’alba brucia i boccoli dell’aria
come bolle scoppiano i tempi iridescenti
oscilla fra muri
un pendolo d’incenso
nella moltiplicazione
l’anima è riflessa in fuga d’oro.

Giannino di Lieto, Indecifrabile perché (“Un pendolo”, p. 41)

Questo interno, in cui l’anima si mette in fuga d’oro, è simile allo spiazzo estivo in cui campeggia “l’ombra in corsa d’acqua, quando si munge piegati sul ginocchio”: siamo in quell’interno-esterno in cui il mondo non può coincidere coi suoi nomi e con la voce di chi quei nomi chiama. Eppure coincide con il gesto silenzioso di chi le cose addita, il sempre vivo, il minacciato che non muore mai, venuto allo spiazzo a scompaginare la quiete.

Siamo in quell’interno esterno-esterno dove si parla la lingua dei vecchi e dei bambini. La lingua d’un popolo. Quella non scritta. La lingua prima. La lingua del corpo-voce che nomina il mondo come se fosse la prima volta che appare. La lingua materna. Giannino di Lieto riparte da questa prima lingua, e la scavalca. Continua a leggere

Piero Bigongiari, “L’enigma innamorato”

Piero Bigongisri

COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA

La poesia di Piero Bigongiari, crescendo dai concimi di una dizione che può essere definita biblica – a patto che l’aggettivo sia letto non soltanto stricto sensu ma anche nella sua accezione più larga, nell’occorrenza di un’arcana solennità –, non poteva fiorire per acclamazione di pubblico. È infatti una lirica insidiosa, elusiva, a tratti severa, che rilascia un nettare melodico (a differenza del primivitismo betocchiano).

Eppure dietro alle sinuosità formali si incrociano significati sfingici, legati da un rapporto non esattamente (non del tutto) “ermetico”, come ci si aspetterebbe, bensì allegorico-metafisico, insomma lungo quella linea discontinua che scorre da Browning e Baudelaire.

I versi di Bigongiari non appartengono di rigore né alla poésie pure di marca simbolista né al «classicismo paradossale», al ragionamento modernista. Sono un ibrido, un ircocervo.

Certo è che Carlo Bo lo considerava «il più concettualistico rappresentante del movimento [ermetico] nella sua fenomenologia fiorentina». Nondimeno l’obscurisme della penna, al pari del Barocco pittorico che egli predilesse assieme alla moglie Elena, sin dall’inizio si muove sull’asse di una saturazione di motivi, spesso confinante in quell’«oltranza manieristica» (Pavarini) che ricompone un mondo nella sua impermeabile perfettività: e di lì, stabilita l’insufficienza del reale, oltre l’orizzonte di un’algida lontananza.
La tentazione che Bigongiari sia dunque un poeta per poeti è scottante e deriva dai presupposti filosofici con cui sorge la sua ispirazione. Continua a leggere

L’imparzialità della poesia

“Dizionario critico della poesia italiana 1945-2020” a cura di Mario Fresa (Società Editrice Fiorentina, 2021). Il curatore l’ha definito in una recente intervista “uno stimolo alla conoscenza”.

NOTA CRITICA DI GIUSEPPE MARTELLA

Qualche tempo fa mi è capitato di pubblicare su Facebook in tono semiserio un post provocatorio dove affermavo di voler acquistare questo libro per vedere chi manca.

Mario Fresa non è intervenuto nel breve dibattito che ne è seguito, ma mi ha subito scritto, rimproverandomi la poca serietà dell’intento e invitandomi a leggere e studiare attentamente il volume piuttosto che semplicemente consultarlo, poiché dietro c’era un immenso lavoro di coordinamento e di riflessione da parte di una equipe di critici molto agguerrita. Io gli risposi che certo lo avrei fatto, facendogli notare però che dizionari, enciclopedie, atlanti ragionati e quant’altro, sono fatti proprio per essere consultati all’occorrenza piuttosto che studiati.

Quando ho iniziato a leggerlo, un paio di giorni fa, la dichiarazione di intenti che trovo fin dalle prime parole della Premessa, recita infatti: “questo dizionario intende essere uno strumento di consultazione, di memoria e di informazione.”

Poi cerco invano un indice dei poeti censiti per farmi una prima idea dell’impianto complessivo dell’opera, dal momento che nella stringatissima premessa (poco più una pagina) i criteri della scelta e l’intento dell’opera non vengono affatto esplicitati al di là delle generiche parole suddette, del criterio temporale di includere poeti che hanno esordito dopo il 1945, e delle affinità elettive fra questi ultimi e i critici cui sono stati affidati.

Si tratta dunque di una mappa ecumenica della poesia italiana dal dopoguerra ai nostri giorni, che annovera poco più di 250 poeti in ordine alfabetico, senza un indice di consultazione, e 53 redattori che invece l’indice ce l’hanno ma nell’ordine inconsueto dei nomi piuttosto che dei cognomi, di cui non comprendo lo scopo se non insinuando il sospetto maligno di confondere le acque, poiché poi buona parte di questi redattori appaiono anche nel novero dei poeti.

Questo è il quadro che il lettore medio può ricavare in partenza, in un’opera che manca del tutto di una cornice critica e di una spiegazione della ratio che la regge.

Non gli resta pertanto che mettersi pazientemente in cammino seguendo l’alfabeto degli eletti. E così faccio, ovviamente sorvolando sulla lettura di molte schede, per il semplice motivo che diversi autori già li conosco bene, altri abbastanza da non volerli approfondire oltre. Mi appunto solo alcuni nomi che mi riservo di esaminare a tempo e luogo e annoto alcune cose che mi colpiscono per lo più sfavorevolmente.

Anzitutto, l’eccessiva ampiezza del periodo scelto ha costretto i redattori a fare delle schede stringatissime, da cui spesso non risulta il tenore e il valore dell’opera prescelta. Sicché al lettore non specialista (tranne forse solo nel caso dei mostri sacri che magari conosceva già) non rimane che annoverare una serie di presenze fantasmatiche piuttosto che di profili nitidi.

In secondo luogo, nello spazio asfittico complessivo, alcune schede risultano a mio parere troppo estese ed altre troppo compresse rispetto al valore dell’autore in questione. Un esempio per tutti: Bartolo Cattafi ha una scheda di mezza paginetta mentre Biagio Cepollaro ne ha una di lunghezza doppia, quando fra i due sussiste un abisso di valore, dal momento che il primo è uno dei maggiori poeti del secondo Novecento.

Ad Alfredo De Palchi poi, encomiabile traduttore e divulgatore della poesia italiana in Nord America ma poeta assai mediocre, viene riservato uno spazio quattro volte maggiore. Continua a leggere

“Parole spalancate”, il Festival Internazionale di Poesia di Genova 2021

Dal 10 al 19 giugno torna a Genova il Festival Internazionale di Poesia “Parole spalancate”, che inaugura la nuova estate culturale dopo la pausa forzata causata dal Covid con la sua ventisettesima edizione.

Come ogni anno la poesia viene presentata in tutte le sue forme e in rapporto alle altre arti, in particolare musica, teatro, cinema e arti visive, attraverso decine di eventi gratuiti tra letture, performance, concerti, incontri, mostre, installazioni e proiezioni.

Nonostante le difficoltà legate alla pandemia, il programma – finalmente tutto in presenza – è assai ricco.

Tra gli ospiti c’è il gradito ritorno di Frankie hi-nrg mc, che proporrà il reading “Faccio la mia cosa. Il rap e tutto il resto”, ispirato anche dal suo ultimo libro omonimo (Mondadori).

Nel 700° della sua morte, Dante viene ricordato con una serie di eventi, tra cui “Dante tra i genovesi”, una lettura che coinvolge la città attraverso personalità della cultura, dell’impresa e delle istituzioni coordinata da Francesco De Nicola e in collaborazione con la Società Dante Alighieri e il network Piazza Dante.#Festivalinrete di cui fa parte Parole spalancate.

Dante è oggetto anche del reading-concerto “Dante tra il tramonto e l’alba” di Alessandro Timossi con Andrea Nicolini e del concerto “Dante mediterraneo” di Jamal Ouassini e l’Ensemble Terra Mater, che declina il capolavoro di Dante nelle diverse lingue del Mediterraneo.

Il Festival celebra anche Charles Baudelaire in occasione del suo bicentenario, con il reading-concerto “Jazzspleen” con il Wind Tales Quartet, in anteprima nazionale e con l’incontro con Roberto Mussapi dal titolo “Il Cigno: sogno e tormento in Charles Baudelaire”..

Una serata speciale in collaborazione con il festival Elettropark è dedicata a John Giorno, figura-chiave della poesia orale americana, con letture, filmati inediti, dj-set e l’installazione di una sua opera di grandi dimensioni.

Un altro omaggio è tributato a Giorgio Caproni, con la lettura scenica di e con Eugenia Del Bue, una delle voci emergenti più interessanti del teatro italiano. Continua a leggere

Il segno e la poesia. 25 libri d’artista di Giulia Napoleone

Giulia Napoleone, Biblioteca cantonale di Lugano, 27 maggio 2021, in occasione della mostra “Il segno e la poesia. 25 libri d’artista”

A Lugano, nella Biblioteca cantonale da giovedì 27 maggio 2021 è in corso la mostra
Il segno e la poesia. 25 libri d’artista di Giulia Napoleone.

Il legame di un’antica amicizia lega la Biblioteca cantonale di Lugano a Giulia
Napoleone. L’artista è già stata infatti ospitata in passato in questi spazi con alcune
opere. Del resto, col suo lavoro di meditazione sulla pagina scritta e sulla parola, si
pone in linea perfetta con le scelte espositive dell’istituto che, negli ultimi anni,
mirano a indagare questo particolare aspetto della creatività.

Da queste considerazioni è nato il desiderio di collaborare in vista della realizzazione
di una mostra. Giulia Napoleone ha così appositamente creato per la Biblioteca
cantonale di Lugano 25 libri d’artista.

Giulia ha scelto una serie di poeti, inserendo in queste nuove meditazioni molti dei suoi consueti compagni di viaggio e numerosi altri amici, tra cui diversi ticinesi: Adonis, Annelisa Alleva, Antonella Anedda, Marco Caporali, Maria Clelia Cardona, Massimo Daviddi, Roberto Deidier, Milo De Angelis, Biancamaria Frabotta, Gilberto Isella, Maria Gabriela Llansol, Fabio Merlini, Pietro Montorfani, Alberto Nessi, Elio Pecora, Yves Peyré, Giancarlo Pontiggia, Fabio Pusterla, Roberto Rossi Precerutti, Rocco Scotellaro, Luigia Sorrentino, Brunello Tirozzi, Maria Rosaria Valentini, Marco Vitale, Simone Zafferani.

Sono nati così gli splendidi libri d’artista, una collezione di opere che si distinguono per varietà di formato e soggetti, la cui unicità risiede principalmente nel fatto che Giulia Napoleone non ha soltanto realizzato le immagini, ma ha anche composto le pagine, individuato e trascritto i versi, scelto con cura gli elementi fisici – carta, matite, inchiostri… – che dovevano accompagnarla in questo lavoro. Questi elementi influiscono infatti in modo determinate sul risultato finale, non soltanto negli aspetti più evidenti, ma anche nei flussi più impercettibili che chiedono di essere riconosciuti da una osservazione più attenta.

Giulia Napoleone, manoscritto con tre disegni con poesie di Luigia Sorrentino tratte dall’edizione francese di Inizio e fine, (2016) Début et Fin, traduzione di Joelle Gardes, (Al Manar, 2018)

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Addio a Giancarlo Majorino

Giancarlo Majorino

NOTA DI MAURIZIO CUCCHI

Ho avuto la fortuna di incontrare Giancarlo Majorino quando ero ancora poco più che un ragazzo, e di considerarlo da subito uno dei maestri a cui avere il privilegio di rivolgermi.

In lui è stata decisiva, e per certi aspetti inimitabile, la forza del pensiero complesso e della sua capacità di calarlo nei dettagli espressivi e innovativi della sua forma poetica. Un pensiero, oltre tutto, quanto mai vivo nella quotidianità dell’esperienza, e attivo nella identità di una parola lontana da ogni possibile condizionamento letterario, ma al contrario proveniente – nella piena consapevolezza della sua scrittura – dai termini concreti del reale vissuto.

Il suo lavoro poetico è stato “sperimentale” ben oltre le linee di un’avanguardia – quella dei suoi più o meno coetanei – costituitasi in gruppo, introducendo termini del rapporto con la contemporaneità e con la parola ricchi di interne tensioni, tensioni acute nella visione critica del contesto in cui lui stesso sapeva perfettamente di essere immerso, eppure sempre mosse da un irrinunciabile gusto naturale per la vita, per la sua incomparabile e in fondo misteriosa sostanza, capace di produrre insieme meraviglie e orrori.

Ciao, Giancarlo, ti ringrazio per avermi ascoltato e non cesserò, finché sarò in vita, di esserti fedele e riconoscente amico.

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Iole Toini, “Dei colori dei luoghi”

Iole Toini

La donna continuava a cadere.
Cadeva nell’aria come una luna.
Azzurra. Fosforescente.
Ora toccava una nuvola, ora
la cima di una montagna. Goccia
a goccia, il tempo luccicava lontano,
senza accadere. Una nave,
con l’ancora che pendeva sul fianco,
muoveva lo sfondo. La donna
guardava l’incanto del viaggio.

Il prodigio le entrava dagli occhi.
Non c’era direzione, né intento se non

lo stare nel passo dell’aria come uno stormo.
Non c’erano suoni, né chiavi.
Niente da rivelare. Eppure
ogni cosa avveniva, con commozione,
come sa fare la luce.

*

Per l’altra – di più – la mai
numerata l’innumerevole
vista la bella invisibile
che fa le cose diverse – aperte e chiuse
dove si spinge e non si spinge
il desiderio dentro le canne
dopo lo sparo e dopo
che l’urlo ha scoperto il passaggio.
Per l’altra – senza terra – proprio qui
densa e battente
che fiore e non fiore
che alba e nel buio
quando non passando passa
smisurata la dolcezza
intanto che muore sboccia
la rigogliosa pira che spoglia la rosa
e arretra e resta rotta.

Così imperfetta
e poca e minuta e tutta di meraviglia piena.

*

Più dei fiori
essere il grano nel becco della luce,
entrare nella spina della rosa,
stare tonda nella vena, scoprirmi cosa
d’aria, levare dalle spighe l’ala
della luna, tenere in bocca il buio,
vivere di distanza piena, il nome
che avanza vicinissimo
al vuoto toccato a tutto palmo
quando la carezza sa farsi bosco;
più dei fiori posso essere muschio,
stelo minimo nel colpo della falce
levata volo nello spasmo
di un bacio scampato alla calura,
poi neve nelle grotte della pelle
quando l’orma del pensiero
tocca il battito dello stare fermi.

Mentre cado faccio terra
sul pioppo levigato dalla pioggia.

Poco è detto, meno il fatto
di essere solo mani,
tensione muscolare che teme il nulla
della carne, e duole sola e sente
nello strappo l’altissimo mai colto
grido conducimi o lasciami
terra in terra, volto appagante intero.

*

Nella terra che aprì maggio
un canto si levò dalle vene di pietra

la pioggia eresse l’intenzione del giglio
la luce tese la lancia che aprì la festa.
E gridò il pesco, gridò il croco e la rondine,
gridarono i pioppi e le sterpaglie;
a bracciate il grano accese il campo.
Esaudita la gioia dell’erba,
esaudite le solitudini dei tordi,
il silenzio infiammò le rotte dei venti
che stesero le mani ai tetti, ai fili tesi
fra le case, alle strade ai tram alle navi.
Infine i fiori.
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