da: Natanti
L’odore è piantato nel freddo.
Sulla balza del porto
si asciugano le strade, le case bianche.
I gatti dietro i vetri, nessuno
per strada, fuorché il mare.
A volte il dolore della febbre
sale, a volte il nulla arriva
come pioggia, è un nulla
vegetale, verde, vivo,
vicino al molo nel pieno del nord.
Il mare si crepa d’angustia,
non vale lo sforzo di ricucirlo.
Le maglie hanno ceduto.
***
D’inverno i granchi dormono
tra gli scogli, per le ossa è un inferno.
Scendo, a volto scoperto,
nel nord che ci fa il mare grande.
Lo guardo farsi trama, ascolto
i cambi d’intonazione. Le parole
hanno il passo delle maree.
D’improvviso il silenzio sul bianco,
come un tappeto d’organza.
***
A fine corsa, due nuvole
di storni, plasmate da un levante
che mischia le onde e le deforma.
Crepe di creta nella falesia.
L’inverno a guardare il cielo.
***
A meno che non si dica di andare
lì dove si raccolgono i vènti,
chiedere in ginocchio che si calmi
il suono che percuote le porte, che trattiene
il passo sulla terra fermo e gravi
il peso del pianeta;
a me prende il male di parlare
a meno di un miglio dalla costa.
Laggiù sono stati lampi tutta la notte,
di qua luci a mala pena, mogli
piccole case. Io sto di guardia,
che non ci fuggano dalle reti.
***
Si svegliava e prima del caffè cercava il mare con lo sguardo. Era un rito tutto umano, lo faceva prima ancora di parlare. Il mare era stato con lui nel letto, le reti si erano mosse durante la notte, la febbre della terra lo coglieva al primo sonno. E si trovava a camminare sull’asfalto, salire nel cemento, fino al terrazzato, sentire duro sotto i piedi e sbattere di porte in una bora ingrata. Tirava calci avvolto nella tela, tendeva le gambe, cercava la sentina, il fondo sudicio di cherosene. Con entrambe le mani lo sentiva sdraiarsi sulla chiglia, compiere l’amplesso della mareggiata. Sudavano le persiane un cigolio di pescatori, schiumava il tanfo della notte sulla terraferma.