Gino Scartaghiande, marzo 2023 (foto di proprietà dell’autore)
di Luigia Sorrentino
Nel 1977 l’uscita dell’opera di Gino Scartaghiande, Sonetti d’amore per King-Kong, nato a Cava de’ Tirreni (Salerno) nel 1951, rappresentò uno spartiacque nella poesia italiana del Novecento. Un poema stilisticamente audace per quei tempi che molti accolsero come un evento. A distanza di oltre quarant’anni Graph Editore ripropone i Sonetti, con l’aggiunta di alcune poesie inedite.
Fonti del Kong
di
Gino Scartaghiande
Sonetti d’amore per King Kong sono un fenomeno non circoscrivibile in una data realtà storica, tantomeno in una decade. A rigore, rifacendomi ad Husserl, il fenomeno non ha niente a che fare con la realtà; esso è, rispetto all’arte, quella “inconcepibile mezza sfera mancante” a cui, come dice Beppe Salvia in Idea cinese, l’arte stessa “deve assoggettare la propria rappresentazione”, altrimenti “diventa genere. oggetto di culto”. Ed infatti è proprio da questa lontananza dalla realtà del fenomeno che la poesia riesce a darci oggetti precisi con cui comprendere e preservare l’intero Lebenswelt umano. E anche io, per quanto mi riguarda, credo che proprio la poesia in quanto fenomeno, dacché mi ha da sempre estraniato dal mondo, mi abbia poi aperto la vera via per poter questo stesso mondo incontrare ed amare fin dal di dentro della sua Storia, o proprio mettendomici sotto, come una talpa.
Il decennio post-sessantottesco è stato senz’altro tragico, per me studente universitario nel quartiere di San Lorenzo a Roma, durante i cosiddetti anni di piombo. Eppure eravamo aggrappati a questo fenomeno-poesia come oggetto reale, non solo io, ma tutta una schiera di poeti prima e dopo Pasolini, da Amelia Rosselli a Beppe Salvia, che hanno saputo superare, con enorme sacrificio di sé stessi, quell’assentificazione del fenomeno operato dalla poesia ermetico-idealista in cui si era venuto a dilatare l’occulto nichilismo liberal-romantico di Manzoni – si veda sull’argomento il libro-pamphflet di Aldo Spranzi L’altro Manzoni, Ares, 2008 – ovvero la mistificazione di una letteratura che, perdendo di vista il proprio oggetto fenomenico, diventa mero esercizio di stile, o di estetica, denotante una sostanziale mancanza proprio di quello stesso fenomeno cui avrebbe dovuto annunciare.
Il caso del romanticismo e dello storicismo di Manzoni è emblematico, e la questione è fondamentale per comprendere la catastrofe che si apre dopo l’altissima cifra classica di Foscolo e di Leopardi, e il conseguente precipitare di tutta l’epoca nell’ideologia positivista. Se ne avvidero Pascoli e Carducci, e corsero ai ripari, ritrovando il fenomeno oggettivo della poesia, e con esso soltanto, una lingua ed uno stile veritieri. “C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole” ci apre all’ “altrove” del fenomeno, e il “Né io sono per anche un manzoniano” sono parole pur troppo vere, dette quasi per celia da uno che aveva in epoca positivista vissuta la tragedia della messa a tacere di una origine fenomenica della lingua, che era invece ancora così naturalmente presente, in quanto tale, nei suoi avi meno remoti, e che il poeta fa d’un tratto balzare ai nostri occhi, nell’incontro di nonna Lucia con lo scaturire celeste dei giovani-cipressi “alti e schietti”. Non anche forse da quel “T’amo, o pio bove” carducciano sarà derivato il “Ma io / t’amo King Kong” dei Sonetti (pag. 28, Graphe.it Edizioni, 2023) e “Da la larga narice umida e nera” quel “Vieni con la narice dilatata” (ibidem). Come se un poeta prima di me mi avesse dato una plausibile zattera di salvataggio su cui salire. Mancando di questo oggetto fenomenico reale, l’arte non conforma nessun atollo di libertà per l’umanità, e anzi la conculca, per sostentare il mito-idolo di sé stessa. La catastrofe manzoniana si allargherà poi in quella del nostrano idealismo ermetico, con tutti i loro inani tuffi pitagorici in non si sa quale eternità se non in quella di una vanagloria mondana. Se ne ritrarranno in tanti, come dall’orlo di un abisso, consapevoli del maltolto… di “quanto ha roso il ferro della notte” Beppe Salvia (Canzone d’estate). Rebora che si ritirerà a Domodossola, Campana che scolpirà un suo sentiero di solitudine fino a La Verna, Antonia Pozzi che nell’antivedere di una nebbia, realizzerà il suo concreto oggetto fenomenico di poesia.
Il fenomeno della poesia è unico ed eterno in tutti i tempi e luoghi, e costituisce esso da solo tutta la tradizione. In questo fenomeno, o zona, se vogliamo dirlo con Apollinaire, si entra e ci si incontra all’istante con tutti i poeti di sempre in quanto persone vive, pur non avendoli mai prima conosciuti, e neppure mai letti. Sono essi stessi che ci vengono incontro e che ci prendono per mano. Essi ci donano le parole con il più alto grado di perfezione, ed è già un’altissima degnità per noi farne memoria. Così, in un percorso di conoscenza, mi è venuto incontro con il suo “Como smarrito sì vo per la via” Jacopone da Todi (Laude 89, v 127) mentre scrivevo “Come smarrito su di una strada” (ivi, pag. 36), e, dalla stessa laude, v 143, “scendemmo, saglio, tegno e so’ tenuto”, ed io “salgo, scendo gradini. Dappertutto” (ivi, pag. 45); o anche da Le aureole di Corazzini “Sei triste, mi dai pena / questa sera […] Che hai?” (Spleen, v 14-16) per il mio “sei triste stasera, sai cosa significa?” (ivi, pag. 27). Ma a volte basta anche un solo accento, una sola parola, come in questo “Te Campo” (Catullo, 55, 3) che mi si fa presente in un “Tu campo di / viaggi, campo di stasi” (ivi, 57).
Nessuna critica dunque di fronte al fenomeno, nessuna ermeneutica, se non il nostro confessarcene debitori. Il cosiddetto Anonimo del Sublime di fronte al fainetai trinitario di Saffo, “A me sembra pari agli dei colui che accanto a te siede”, viene rapito in estasi anch’egli, e tace, e ci rimanda solo il testo-fenomeno. Come tra i più splendidi oggetti reali di poesia. Se ne fa diacono, e anche doulos, ovvero servitore.
UN ESTRATTO DAL LIBRO
Il nome
I
Frantumazione di cristallo assorbita dal
corpo, schegge, relitti, aspre punte di vetro
inseguenti il loro metabolismo dentro le
braccia. Ancora disteso sul letto, con lo
spavento che incomincia a precipitare dalle
fenditure, dai vuoti delle finestre. Il nero
oleoso, impossibilmente denso, invade la stanza.
M’invade, copre tutto, assorbe tutto. Congloba
tutto. Tutto in effetti già conglobato da sempre.
Se la stanza, la tua stanza, non è più. Non è
mai stata; se non lo stesso nero universo
oleoso; ondulante. Mare che volge e rivolge
la sua sabbia nera: granellini coinvolti
nelle miriadi di combinazioni.
Ora sai bene, lo sai per certezza: il mare
d’acqua azzurra non esiste, non esiste il
cielo azzurro, non esistono le pareti azzurre
della tua stanza e nemmeno i vetri, i frantumi
di vetro, e le finestre.
L’esistenza non ha di queste topografie.
L’esistenza è oltre lo schermo di una
stella che brilla, oltre il polarizzante
cerchio d’oro del sole. L’esistenza non
è dedita allo sfruttamento della morte.
Coltiva questa frantumazione vetrosa
all’interno di te. Frantuma i milioni
di finestre divisorie, lascia che lo sfaldamento
prenda luogo dove entra l’esistenza. Continua a leggere→