Stefano Bottero, da “Notturno formale”

Stefano Bottero © Nerina Toci 2022

è troppo tardi per tornare a casa.

obliterare
vestiti per gioco come segnalibri
rimandare il momento in cui ti spegni.

mi toglierò il ghiaccio dai capelli,
ti dirò che il corpo non significa niente.

 

*

 

drogarti solo per capire
le ragioni i cani che hai smarrito

nell’inutile che avevi – dentro

carie
che ti tengono sveglio.

adesso – è una gara di resistenza.

leccarti

per indicarti dove sono le mie ferite.

 

*

 

trascurare l’urgente

 

gli occhi socchiusi –

recepire l’alcohol come chiavi di casa il canto

delle iene

la vita breve dei tuoi accendini.

 

*

 

io non ho più mani.
fretta

di camminarti in gola come
scale – quando è tardi
rame

sottratto ai cavi.

Bianca – il tuo sangue non ha direttive
domani non c’è.

 

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RaiPoesia2022. Uno sguardo sulla poesia italiana contemporanea

La reciprocità degli sguardi

Nell’immagine, un frame della sigla che introduce a partire da oggi, venerdì 16 dicembre 2022 alle 16.30 un ciclo di incontri con i poeti italiani contemporanei sul nuovo sito web della Rai: RaiNews&TGRCampania con il progetto Raipoesia2022 ideato e condotto da Luigia Sorrentino.

Raipoesia2022 è uno sguardo sulla poesia italiana contemporanea, uno sguardo nel quale ci si perde o ci si ritrova.

Raipoesia2022 è accoglienza, è la risposta a una chiamata che predispone un luogo e uno sguardo che viene in superficie.

Raipoesia2022 è un progetto pensato soprattutto per le giovani voci della poesia italiana contemporanea, ma non solo. Ai volti e alle voci dei più giovani, si affiancheranno poeti già noti ai lettori della poesia contemporanea italiana, perché se non fossero presenti ne sentiremmo l’assenza.

Raipoesia2022 mette in evidenza i volti, gli occhi pieni di fascino e d’inquietudine dei poeti, custodi dell’attenzione, della profondità e della verità della parola della poesia.

Ascolteremo frammenti di parole che tassello su tassello andranno a comporre un’unica grande opera.

(Luigia Sorrentino)

Postilla

Il titolo, Raipoesia2022, porta con sé l’anno in cui è nato il progetto.

 

Raipoesia2022

ideazione e progetto di Luigia Sorrentino

si ringrazia Dino Ignani per la cortese collaborazione

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Biancamaria Frabotta, “non ci saranno mani come le tue”

Biancamaria Frabotta

RICORDO DI BIANCAMARIA FRABOTTA
di Stefano Bottero

Io dirò che non ci saranno mani come le tue. Che l’orfanità di queste prime ore del mattino è una categoria che riguarda ogni cosa a seguire. Dirò che le tue parole mancheranno come è mancato il sonno questa notte – che non dormirò mai più.

Tra qualche ora incontrerò diversi altri che ti hanno amata in questi anni. Sarà abbastanza a ricordarmi che quanto ho scritto fino a qui non corrisponde al vero.

Che resti, sempre, corpo e voce, come restano i poeti.

*

Durante la sua lectio magistralis, nel 2016, Biancamaria Frabotta rispose a una domanda dicendo «Sì, sono stata allieva di Binni. E vorrei continuare a esserlo».

Ho un ricordo lucido di quel momento. Pensai che per me, per lei, sarebbe stato lo stesso. Lo penso ancora, oggi, a poche ore dalla sua scomparsa.

Ho frequentato l’ultimo dei suoi corsi universitari. Fin dai primi anni della sua carriera accademica, Frabotta aveva sistematicamente chiesto che le venisse assegnata la classe del primo anno.

C’era qualcosa di geometrico, di necessario, nella postura della sua voce rivolta a gruppi di studenti troppo giovani per avere cognizione della letteratura del Novecento – cognizione che, come mandato, lei sceglieva anno dopo anno di trasmettere.

Altri parleranno con parole più precise delle mie della sua femminilità, della sua classe, della sua presenza. Io, ventenne, per la prima volta, ero abbagliato dal vedere il Poeta (la Poeta, anzi, per riprendere una questione tanto centrale nelle nostre conversazioni). Quel vederla sarebbe bastato anche da solo, allora, a rendere fondamenta i giorni delle sue lezioni.

La testimonianza è stata il filo sul quale ha fatto camminare i suoi rapporti – insicuri come tutti, perennemente sospesi sul baratro di significato che ha avuto nei suoi occhi chiari il solo correlativo. Allo stesso modo, sulla testimonianza ha edificato la sua poesia. Ne La materia prima, sua ultima raccolta – penultima tra qualche giorno – sulla quale cui mi sarei poi laureato nel 2019, l’atto testimoniale non è solo nexus creativo, etico ed estetico, ma ratio critica, capace di orientare lo sguardo fino alla liberazione da ogni residuo di necessità inautentica. Continua a leggere

Stefano Bottero, da “Poesie di ieri”

Stefano Bottero, credits photo Dino Ignani

Mi trascina verso il peso delle cose
questa scimmia che ho sulla schiena.
È un lembo di niente
il suo parlare indistinto,
una spina,
il mormorio del traffico.

“o re, il peso si fa spirito,
siamo una costellazione.”

Così nel tenue turbamento della nebbia di Monza
– incanto, incauto, vivo per scommessa
la vita è una sala d’aspetto
e ho perso il momento.

***

Contrappeso della mia solitudine
i miei incubi d’autostrada.
il desiderio di dimenticarti,
domani
di non dimenticarti.

Sei l’intimità della mia dissociazione,

così scivoli dietro di me come la notte
che mi adagia un nastro sulle palpebre
e lo tira da dietro.

***

A DARIO BELLEZZA, POETA

Mi hai letto una sera
come favola della buonanotte
tutti i tuoi dubbi di strano distacco,
di autocommiserazione.

Sei per me il desiderio di un passante,
l‘attesa snervante in una copisteria.
Sei le ciglia perfette di un corpo non tuo
vestito di sbagli, di amanti drogati.

Stinge di vita questa tua insistenza,
sorge ostinata questa tua finzione
egocentrica figlia
della fermata successiva.

vorrei solo cullassi anche la mia
                                 disperazione. Continua a leggere

Benedetti, un io poetico che non uccide

Mario Benedetti, poeta italiano, credits ph Dino Ignani

TRA IRREALTÀ E LACRIME
Stefano Bottero

«Siccome hai esercitato il tuo spirito a concepire tutta
l’esistenza in categorie estetiche, è naturale che
il dolore non sia sfuggito alla tua attenzione»
Søren Kirkegaard, Aut-Aut

Nella poesia di Mario Benedetti l’io poetico rapisce, proietta la propria cognizione singolare di un dolore che accompagna senza uccidere. Non la semplice consapevolezza del dolore, ma del ruolo del dolore nella vita che scorre, in cui ogni cosa è già stata – tragicamente – data. Se vogliamo, la consapevolezza heideggerriana dell’angoscia che si rende radice dell’esperienza sensibile, che «non vede un “qui” o un “là”, da cui si avvicina ciò che minaccia».

Le vite nei versi di Benedetti si muovono senza direzione, prive di punti cardinali, perché ogni cosa, ogni dolore, è diventato un punto fermo in una costellazione generale, troppo grande per essere compresa con la logica. «Tutto è una distanza sola. Le fermate sono da rimettere a posto». Un’indicibilità che non scoraggia, e si rende invece radice formale dei suoi versi. «Penso a come dire questa fragilità che è guardarti, / stare insieme a cose come bottoni o spille». «Morire e non c’è nulla vivere e non c’è nulla, mi toglie le parole».

Anche la morte è nella sua opera un luogo in cui le cose scorrono. Non si palesa in essa la consolatoria cessazione del nostro rapporto con ciò che non siamo. È proprio in questo, io credo, che la poesia di Benedetti sia ancora unica: nel riuscire a cogliere ciò che esiste anche nella fine, anche nel totale annichilimento della conclusione.
Scrisse così, nel Capitolo secondo di Pitture nere su carta (2008).

Non l’ascolto, sta la veglia, senza.
Carriole di muri, non raccontate.

Nessuno, nel finire degli occhi.
Neanche i visi. Hai abitato,

abbastanza, il corpo.

Abitato. Qua. Un sole, una pioggia.
Le scarpe, le scarpe ricordate.

I corpi, i due corpi, i tre.
Rimasti, nella loro casa.

Nella loro casa rimasti.

La cognizione dell’essere qui e adesso, ed essere allo stesso tempo relegati nell’inconsapevole. Non lo sguardo idiota di un Principe Myškin, non il cedimento allo stereotipo tardo ottocentesco de ‘la coscienza nell’allontanamento dal reale’. Tutto l’opposto: il riconoscersi razionalmente nello iato che separa ciò che siamo da ciò che è stato. Da ciò che è rimasto, ed è rimasto – sempre – abbastanza. Così non è l’esistenza in senso lato a filtrare nella composizione di Benedetti, ma un’esistenza consapevole del proprio inevitabile essere trascorsa. Anche le prime cose che ci hanno regalato consapevolezza, lo leggiamo in Tersa morte, non differiscono dal resto: «Dentro i discorsi si perde / la prima cosa che il bambino ha guardato».

Il dolore non è mai anticamera della fine, ma cartina tornasole di una verità esistenziale: ciò che ci definisce è l’incongruenza tra chi siamo e tutto il resto. E non il resto della bellezza o del vero, per Weil mere «cose impersonali e anonime», ma il resto di ciò che compone il presente fisico. Che compone l’adesso.

Il corpo, colato in vetroresina,
si muove lentissimamente.

Dove? Sembra fisso, vuoti i movimenti.
È là? Si muove, un poco sempre.

Tra irrealtà e lacrime.

C’è tutto in questa sottile confusione tra la prassi del corpo e l’estetica del verso. La consapevolezza sacrale di sé, del proprio muoversi nel vivere, non trova risposte né sana il dolore. Essa è invece la domanda, l’interrogazione continua dello sguardo che contempla l’indicibile e lo rende poesia. «Anche per me / la stessa cosa, la stessa cosa vostra, un dolore violento, / cosa succede? cosa mi sta succedendo?».

Rendersi conto di quanto la sua opera, la sua domanda, aderisca al presente di questo aprile, porta con sé un leggero imbarazzo. Lo stesso di quando, da bambini, gli adulti indovinavano cosa stessimo provando con le parole esatte di una deduzione indelicata.