Victor Hugo, “Mazeppa e altre poesie”

Victor Hugo

 

Dall’introduzione
di
Stefano Duranti Poccetti

 

Avvinarsi a queste poesie non è stato sempre semplice, intrise come sono di riferimenti storici e anche mitici. È stato perlopiù impossibile, purtroppo, mantenere i giochi di rima dell’Autore.

Mi sono concentrato piuttosto – più da poeta che da traduttore – sulla fedeltà all’aspetto concettuale e mistico di Hugo, entrando con lui in rapporto empatico, cercando di dare alle liriche l’aspetto più piacevole possibile e in questo, nella maggioranza dei casi, è stata la stessa lingua francese, di norma non così divergente dalla nostra, a dettarmi l’andamento, i tempi giusti, la parola appropriata; ma, quando questo non è stato possibile, è normale avere trovato degli escamotage che spero saranno accettati dai lettori e soprattutto dallo stesso Hugo, che, chissà, magari ci starà osservando da qualche parte mentre ci accingiamo a ripristinare con lui un legame nel ricordo della sua poetica, troppo spesso dimenticata.

Nel mio piccolo, offro questa raccolta, dopo che con la casa editrice Nulla Die avevo pubblicato la traduzione de Les Chevaliers errants.

 

Mazeppa

 

(A M. Louis Boulanger)
Away! – Away! –
En avant! En avant!
Byron, Mazeppa

 

Allora Mazeppa, stridente e piangente,
vede braccia, piedi, fianchi dalla sciabola lambiti
e tutte le sue membra legate
a un arroventato cavallo nutrito d’erbe marine,
irrequieto, emanante fuoco dalle narici
e fuoco dai piedi.

Quando è attorcigliato nei nodi come un rettile,
ha ben da rallegrarsi della sua rabbia inutile
il carnefice, tutto esultante
di vederlo infine cadere sulla feroce groppa,
sudore sulla fronte, saliva alla bocca,
sangue negli occhi.

Si sente un grido e subito ecco per la pianura
l’uomo e il cavallo in fuga senza respiro
sulle mobili sabbie,
soli, riempendo di rumore il vortice di polvere.
Simili alla nera nuvola in cui serpeggia il fulmine
volano insieme ai venti!

Vanno. Nelle valli passano quali tempesta,
come quegli uragani raccolti nei monti,
quale globo infuocato.
Poi, già non sono altro che un punto nero nella bruma,
sfacendosi nell’aria quale fiocco schiumante
nel vasto oceano blu.
Vanno. Lo spazio è esteso. Nel deserto immenso,
nell’orizzonte senza fine che ricomincia
entrambi s’immergono. Continua a leggere

Edmond Rostand, “Il Bosco Sacro”

Edmond Rostand (1868-1918)

 

 

Il Bosco Sacro è certamente un’opera unica nel panorama del teatro e della poesia del Novecento. Questo testo di Edmond Rostand, pubblicato per la prima volta nel 1908 (rappresentato come pantomima) e che finalmente esce in lingua italiana grazie alla traduzione di Stefano Duranti Poccetti, mette insieme mito e contemporaneità. Porta all’incontro tra gli dèi e una FIAT 35-45 HP che giunge in una foresta mistica abitata da presenze divine che saranno così meravigliate dal veicolo da volerlo addirittura provare. Il testo si fa perfetta allegoria della Parigi abitata dall’Autore, attenta al passato e perennemente devota al progresso.

Il bosco sacro

L’ombra di tre cipressi sull’erba avanza.
Mentre in lontananza s’argenta un cielo di Grecia,
presso una sorgente che scola, sprofondando in stagni,
gli dèi si sono seduti su un bosco d’ulivi.

È l’ultimo dei boschi sacri.

Il mare tranquillo
s’allunga sul fondo, ancora più bianco intorno a una penisola.
Si scorgono, lievemente sfiorati da un po’ d’aria,
i glauchi olivi biancheggiare come il mare.
Degli alti e riflessivi allori, splendidamente cupi,
sono vicini ai meno alti allori dove rose crescono,
contraendo il fogliame con nero sdegno.
Gli dèi restano seduti come in un giardino.
Sono là, familiari, armoniosi, pacifici,
senza sforzarsi d’essere invisibili.

Giunone, riconoscibile dalle belle pieghe del collo,
quanto per lo scettro d’oro da cui emerge un cuculo;
Venere pare una statua, vestita
in modo scultoreo con biancheria bagnata;
Marte, dio della battaglia; Apollo, dio del giorno,
il cui arco nell’aria appare più grande di quello d’Amore;
Giove, di cui, questa sera, il sopracciglio s’aggrotta
e che lascia cadere, nel prendere dal rovo una mora,
il fulmine scintillante ai due estremi;
Minerva, dagli occhi più fieri degli occhi dei gufi,
appare sotto gli altri due occhi vuoti e senza pupille
ch’ella ha tolto al cielo, levandosi la visiera;
Diana, di cui la salvia ama lo scarpone,
la quale porta uno stretto diadema; Vulcano,
che, facendo progetti d’arte e di meccanica,
gratta la sua fronte testarda sotto il berretto conico;
e Mercurio, che sente fin dentro il cervello
battere gli alettoni ch’egli ha sul cappello.
Tutti i grandi dei sono lì; tutti, eccetto Nettuno
e Vesta, importunata sempre dalle cose piacevoli,
e Cerere, che si occupa delle spighe imbiondite;
ma tre dei più piccoli rimpiazzano gli assenti:
Pan, che non è mai lontano da un bosco d’Arcadia
e che dalle canne crea sognanti melodie.
Il nettare che circola è versato da Ebe,
mentre Cupido si concede a giochi da bebè,
che sono poco rassicuranti per la gelosa Giunone…
Sicché gli dèi, tutti insieme, risultano dodici.

Edmond Rostand, Il bosco sacro. Le Bois Sacré, traduzione di Stefano Duranti Poccetti, prefazione di Ombretta De Biase, Nulla Die Edizioni, 2021

 

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Victor Hugo, “I Cavalieri erranti”

 

Victor Hugo

I CAVALIERI ERRANTI. I POEMI CAVALLERESCHI DI VICTOR HUGO

Quello che si propone è un Victor Hugo inedito: è l’Hugo dei miti, delle leggende, l’Hugo medievale, soprattutto è l’Hugo che si concede al poema cavalleresco. Ne La légende des siecles (silloge scritta a intermittenza tra il 1855 e il 1876), quello che si può considerare probabilmente il più grande scrittore francese dà luogo a un particolare ciclo. Les Chevaliers errants, composto da due poemi cavallereschi: Le petit roi de Galice ed Eviradnus. Ecco che i suoi eroi, Roland ed Eviradnus, si caricano di forza mistica, scontrandosi coi rappresentanti del male, facendo fede nelle loro innumerevoli esperienze, copiose battaglie, soprattutto in un’ispirazione divina, che li rende invincibili, donando loro l’astuzia d’Ulisse, il vigore necessario per combattere interi eserciti in completa solitudine. La forza dell’eroe è per Hugo quella di Dio, l’eroe è intermediario di Dio e non ha bisogno di vivere con gli uomini, perché egli è e rimane, anche nella vecchiaia, come nel caso di Eviradnus, un semidio, destinato sempre a vincere per ottenere Giustizia – d’altra parte l’Autore l’afferma anche nel suo Booz endormi: Le jeune homme est beau, mais le vieillard est grand. L’eroe impersona così il Poeta e così quello che lui definisce l’homme des utopies, capace di reinterpretare la realtà, scavando all’interno dei suoi meandri, riuscendo, da solo, a trovare la soluzione giusta, quella soluzione che, anche vista da un punto di vista cristologico, s’eleva a simbolo di Salvezza eterna per l’Umanità, continuamente circondata dal Male e da questo contaminata.

dall’introduzione di Stefano Duranti Poccetti

Victor Hugo, Les Chevaliers errants/ I Cavalieri erranti, traduzione di Stefano Duranti Poccetti, Nulla Die, 2021. Continua a leggere