Albert Camus, “Sull’avvenire della tragedia”

di  LORENZO CHIUCHIU’ 

Il testo proposto è parte di una conferenza che Camus tenne ad Atene nel 1955. La traduzione integrale è uscita su Davar III (Reggio Emilia 2006) e su “La Repubblica” del 18/11/2006.

Il tragico e la sua «immobilità forsennata», le «duplici maschere del bene e del male»; il «tutto è bene» simile all’attuale «andrà tutto bene»; la responsabilità del singolo di fronte alla dismisura della storia (per Camus la guerra fredda, per noi la globalizzazione) e delle potenze che la attraversano (la tecnica, le guerre convenzionali e quelle economiche, la peste che colpisce i corpi e quella che svuota il senso delle parole); il teatro di propaganda che somiglia alle retoriche politiche di oggi.

Camus, come tutti classici, precorre i tempi o li dissolve, fa impallidire cronaca e sociologia: a volte la storia assume il volto del destino e l’ultima parola spetta alle esistenze libere, inquiete e in rivolta.

 

Sull’avvenire della tragedia
di Albert Camus

 

Un saggio orientale nelle sue preghiere chiedeva alla divinità di risparmiargli di vivere in un’epoca interessante. E la nostra epoca è interessante, vale a dire tragica. Per purificarci dai nostri mali, abbiamo almeno il teatro della nostra epoca o possiamo sperare di averlo? In altre parole, è possibile la tragedia moderna? È questa la domanda che vorrei porre oggi. Ma questa domanda è ragionevole? O piuttosto è del tipo: «avremo un buon governo?» o «i nostri scrittori diverranno modesti?» o ancora «i ricchi spartiranno presto la loro fortuna con i poveri?», domande interessanti, ma che danno più da sognare che da pensare.

Credo di no. Credo invece che per due ragioni ci si possa interrogare legittimamente sulla tragedia moderna. La prima è che i grandi periodi dell’arte tragica si collocano, nella storia, in secoli di transizione, in momenti in cui la vita dei popoli è ad un tempo carico di gloria e di minacce. Dopo tutto Eschilo combatte due guerre e Shakespeare è contemporaneo di una bella serie di orrori. Inoltre entrambi si trovano in una sorta di pericolosa svolta nella storia della loro civiltà.

Si può rilevare che nei trenta secoli della storia occidentale, dai Dori fino alla bomba atomica, non ci sono che due periodi dell’arte tragica, entrambi circoscritti nello spazio e nel tempo. Il primo è il greco, presenta una grande unitarietà e dura un secolo, da Eschilo a Euripide. Il secondo dura poco più e fiorisce nei paesi limitrofi ai confini dell’Europa occidentale. In effetti, non si è sottolineato a sufficienza che la magnifica esplosione del teatro elisabettiano, il teatro spagnolo del secolo d’oro e la tragedia francese del XVII secolo sono pressoché contemporanei. Quando Shakespeare muore, Lope De Vega ha cinquantaquattro anni e ha già fatto rappresentare la gran parte delle sue pièces; Calderón e Corneille sono vivi. L’intervallo di tempo fra Shakespeare e Racine non è più lungo di quello fra Eschilo e Euripide. Almeno storicamente possiamo considerare che si tratta, con estetiche differenti, di una sola e magnifica fioritura, quella del Rinascimento, che nasce nel disordine ispirato al palcoscenico elisabettiano e raggiunge la perfezione formale nella tragedia francese. Continua a leggere

Eugenio Montale, “nulla abbiamo disperatamente amato più di quel nulla”

Eugenio Montale

NEL DISUMANO

Non è piacevole
saperti sottoterra anche se il luogo
può somigliare a un’Isola dei Morti
con un sospetto di Rinascimento.
Non è piacevole a pensarsi ma
il peggio è nel vedere. Qualche cipresso
tombe di second’ordine con fiori finti,
fuori un po’ di parcheggio per improbabili
automezzi. Ma so che questi morti
abitavano qui a due passi, tu
sei stata un’eccezione. Mi fa orrore
che quello che c’è lì dentro, quattro ossa
e un paio di gingilli, fu creduto il tutto
di te e magari lo era, atroce a dirsi.
Forse partendo in fretta hai creduto
che chi si muove prima trova il posto migliore.
Ma quale posto e dove? Si continua
a pensare con teste umane quando si entra
nel disumano.

 

Da: Quaderno di quattro anni, Oscar Mondadori 2015
Edizione a cura di Alberto Bertoni e Guido Mattia Gallerani

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OLIMPIA, Dal grembo alla Torre

di Elio Grasso

I “libri della vita” hanno limiti soltanto davanti. Indietro, l’orizzonte cambia per sempre. E la poesia da lì in poi potrebbe farsi sempre più libera. Non si tratta di tempo, ma di spazio in cui bisogna difendersi e tirare alla svolta. Olimpia ha già le sue leggi, trovate in quelle radici che Luigia Sorrentino ha riunito una volta per tutte. De Angelis, nella prefazione, lo conferma puntandosi sul “tema della salvezza”. Anche se lui stesso intuisce che non si tratta di uno scioglimento completo. La pressione mondiale, quando ha a che fare con la vita, non dà per sempre un polo certo. La materia ha salti imprevisti: invadono la lingua del poeta, rinfacciano il dissidio originale, corrugano la poesia fino a che non si comprende che occorre ancora una volta affrontare il “mostro iniziale” (così Montale definiva il big bang della poesia). Ma all’approdo questo libro affida le diverse stazioni dell’umano femminile, dalla giovinetta che annaspa nel vuoto di “milioni di notti” alla visione finale delle città del mondo circondate da sabbie monti e boschi. La dichiarazione di essere “finalmente comprensibile” è come l’originale singolarità da cui tutto inizia. La parola fa debuttare l’antropologia di quanto definiamo vita, comprendendo occhi e bocca e corpo intero. Da lì alle mura, vicine al cielo, il salto è breve. Tutta la prima sezione si attesta sull’abitare quel che improvvisamente esiste: pareti risuonanti, incarnazioni, grembo meraviglioso cui esser grati. Controllo e abbandono rilanciano la natura stessa della poesia come fluttuazione e canto. Nel mezzo la giovinetta schiude tutto lo stupore che l’accresce, dentro la prima lezione di realtà. Continua a leggere

Per Roberto Roversi

La verità della poesia
di Carlo Bordini

Dopo la scomparsa di Zanzotto e di Pagliarani è morto il 14 di questo mese, nella sua Bologna, a 89 anni, quello che può essere considerato l’ultimo dei grandi poeti italiani del secolo trascorso: Roberto Roversi. Personalità combattiva e insieme appartata, e quanto mai generosa, partigiano in Piemonte, autore di alcune delle più belle canzoni di Lucio Dalla, legatissimo alla sua idea di indipendenza (fondò la sua Libreria Palmaverde, cenacolo, tra l’altro, di giovani poeti), ha seguito un percorso poetico di altissimo valore e può essere considerato uno dei grandi poeti della nostra epoca. Fu protagonista negli anni ’50 della rivista Officina, con Pasolini Fortini e Leonetti (per conoscere questa esperienza è opportuno leggere il bel libro di Gian Carlo Ferretti sull’argomento) e pubblicò nel 1965 con Einaudi il libro di versi Dopo Campoformio. Continua a leggere

Addio al filosofo Anacleto Verrecchia

Il filosofo Anacleto Verrecchia, appassionato studioso di Giordano Bruno e Friedrich Nietzsche, è morto ieri a Torino all’età di 85 anni. Gli amici lo saluteranno martedì 7 febbraio, alle ore 12, al cimitero momunentale del capoluogo torinese.

Nato a Vallerotonda (Frosinone) il 15 settembre 1926, si trasferì da giovane a Torino, dove studiò laureandosi in germanistica. Verrecchia ha poi vissuto in Germania (soprattutto a Berlino) ed è stato a lungo addetto culturale all’ambasciata italiana di Vienna, esperienza testimoniata con i libri “Rapsodia viennese: luoghi e personaggi celebri della capitale danubiana” (Donzelli, 2003) e “Incontri viennesi” (Marietti, 1990).

Ha collaborato alle pagine culturali di giornali italiani, tra cui “Il Resto del Carlino”, “La Stampa”, “Il Giornale”, e tedeschi come “Die Presse” e “Die Welt”. Continua a leggere