Tudor Arghezi & Salvatore Quasimodo

Tudor Arghezi

Mi sono difeso invano e ora mi nascondo nell’ombra
della luna bianca, l’alta lancia spezzata.
Ho messo terre e acque tra noi come ostacoli,
e siamo, in ogni luogo, vicini.
T’incontro su ogni sentiero in attesa,
eterna silenziosa compagna.
Prendi per me nel cavo
delle mani l’acqua delle sorgenti
che esce tra templi e pietre senza rumore.
Ti slacci la camicetta e coi seni nelle mani
domandi: «Vuoi dissetarti qui o alla fonte?»
Hai accostato la tua bocca alla mia piegata
al ghiacciolo per bere con me la sua scintilla.
Confusa in ogni cosa, come ombra o pensiero,
la luce ti porta in sé e la terra ti ha fatto crescere.
In ogni suono il tuo silenzio: nelle tempeste
nelle preghiere nel passo dell’uomo e nei liuti.
Ciò che soffro è dolore per te,
tu sei in ogni cosa che nasce o muore,
vicino a me e pure cosí lontana,
sposa sempre promessa, mai sposa.

Tudor Arghezi nella traduzione di Salvatore Quasimodo, tratto da “Tudor Arghezi, Poesie”, Mondadori, 1966

Salvatore Quasimodo

Cîntare

M-am apărat zadarnic şi mă strecor din luptă
În umbra lunii albe, cu lancea naltă ruptă.
Pusei pămînt şi ape, zăgaze între noi,
Şi sîntem, pretutindeni, alături, amîndoi.
Te întîlnesc pe toată poteca-n aşteptare,
Necontenita mută a mea insoţitoare.
Pe la fîntîni iei unda pe palme şi mi-o dai,
Iscată dintre pietre şi timpuri, fără grai.
Ţi-ai desfăcut cămaşa şi-ntrebi cu sînii-n mină
De vreau s-astîmpăr setea din ei sau din fîntînă.
Ai dus la ţurţur gura cu gura mea plecată,
Voind să bei cu mine scînteia lui deodată.
Amestecată-n totul, ca umbra şi ca gîndul,
Te poartă-n ea lumina şi te-a crescut pămîntul.
În fiecare sunet tăcerea ta se-aude,
În vijelii, în rugă, în pas şi-n alăute.
Ce sufăr mi se pare că-ţi este de durere,
De faţa-n tot ce naşte, de faţa-n tot ce piere,
Apropriată mie şi totuşi depărtată,
Logodnică de-a pururi, soţie niciodată.

Tudor Arghezi, da “Cuvinte potrivite”, 1927. Continua a leggere

Tudor Arghezi

Vengono, eccoli, sempre da soli
verso di me tutti i frantumi,
briciole slabbrate ed intere
di cose che stenti a capire.
Sono come li ho dimenticati
da quando si sono addormentati:
un vecchio cimitero di bambole.
Ora cominciano a muoversi,
a prendere corpo dall’ombra
e da un brusio come d’alveare,
e si ricompongono a poco a poco.
Zoccoli con aureola d’angelo,
frammenti di icone che serbano, a rimorso,
di benedizione una traccia e maledizione,
una lacrima fissata in pittura,
una mano ferita, uno sguardo,
a campane, pare, lontane,
e qualche pagina di libro.
Un coccio risuscita un’anfora rotta.
Stormisce anche l’edera morta
e a una a una, destandosi, le voci spente
mormorano pare e pare che ridano.
Mi vedo ora convitato alla Cena,
ora centurione nella persecuzione.
Provo di nuovo la camicia d’allora,
stretta, con una ferita d’allora,
e dimenticata
nel cuore del tempo, silenziosa.
E se porto la mano allo squarcio
di non so quale lotta,
mi scivola molle sul sangue.
Là si raccoglie
tutto ciò che da sé si aduna,
frammenti di Scrittura e schegge di luna.
Non posso ingannarmi.
Il gelo mi brucia: un blocco d’argento,
e nella nebbia le dita
diventano sopra le unghie carbone di ghiaccio.

Tudor Arghezi
Traduzione di Marco Cugno
da “Accordi di parole” Einaudi, Torino, 1972

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