Milo De Angelis, “Ritorno”

Pubblichiamo in esclusiva un estratto da : Ritorno, di Milo De Angelis, pubblicato con Vallecchi (Firenze) nel 2022.

Inconfondibile la voce del poeta che affronta il questo fondamentale volume il tema del ritorno come atto conoscitivo (discesa agli inferi) e di mutamento del sé.

OMERO

IX SECOLO A.C.

 

Partiamo dunque da Omero, leggendo il celebre episodio di Argo, nel diciassettesimo canto, che ho cercato di tradurre e di restituire alla tensione sentimentale che lo percorre, persino elegiaca, insolita in Omero.

Ulisse sta per varcare la soglia della reggia. Nessuno l’ha riconosciuto, finora, E anche più tardi le creature umane faranno fatica a riconoscerlo, chiederanno una prova, una garanzia, un segno, una vecchia cicatrice.

Argo no. Argo lo riconosce immediatamente. Ma non riesce a mostrarlo. È talmente grande la sua emozione da creare una paralisi, un blocco, un’assoluta incapacità di camminare e andargli incontro.

Riesce solo a muovere la coda e resta fermo lì, in quel mucchio di letame, pieno di pulci e dimenticato da tutti. Argo è attraversato da una dolcezza infinita e da un infinito dolore.

Muore così, all’ingresso della reggia, nel momento stesso in cui Ulisse varca la soglia, e la sua morte conduce alla rinascita del padrone.

Sono due nell’Odissea, le sentinelle del ritorno, come ha scritto la grande grecista Maria Grazia Ciani, e nessuna delle due è creatura umana.

Sono due: un povero cane dimenticato da tutti e un arco.

Il cane resta muto e esalando l’ultimo respiro restituisce il respiro a Ulisse.

L’arco, oggetto inanimato, si rianima tra le mani del legittimo proprietario e sembra quasi riconoscerlo, come uno strumento musicale che riconosce la mano antica e tanto amata (“toccò con la mano destra la corda, dice Omero, ed essa emise un suono bellissimo, come la voce di una rondine“).

Ecco dunque che il tema del ritorno si connette qui a un altro grande tema che percorre tutta la letteratura occidentale, ossia il tema del riconoscimento, (anagnòrisis) un tema che troviamo tante volte nella tragedia greca (Oreste e Ifigenia, Elena e Menelao), e poi in Dante e Shakespeare, nel Conte di Montecristo, nel Fu Mattia Pascal.

La bellezza di tale anagnòrisis e la sua forza amorosa sprigionata nel mondo mi spingono a pensare che ci sia un segreto legame tra il riconoscimento e la riconoscenza: dobbiamo essere grati a ciò che ci consente, una volta riconosciuto, di percorrere passo dopo passo i sentieri del nostro destino.

(Milo De Angelis)

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L'”Ulisse”, il capolavoro di Joyce, torna nella traduzione di Alessandro Ceni

In vista del centesimo anniversario della pubblicazione, nel febbraio 2022, il capolavoro di Joyce torna in una nuova traduzione a cura di Alessandro Ceni.

Dublino, 16 giugno 1904. È la data scelta da James Joyce per immortalare in poco meno di ventiquattr’ore la vita di Leopold Bloom, di sua moglie Molly e di Stephen Dedalus, realizzando un’opera destinata a rivoluzionare il romanzo. È l’odissea quotidiana dell’uomo moderno, protagonista non di peregrinazioni mitiche e straordinarie, ma di una vita normale che però riserva – se osservata da vicino – non minori emozioni, colpi di scena, imprevisti e avventure del decennale viaggio dell’eroe omerico. “Leggere l’Ulisse,” scrive Alessandro Ceni nella sua Nota introduttiva (qui pubblicata integralmente), “è come guardare da troppo vicino la trama di un tessuto” dove le parole, che sono i nodi della trama, rivoluzionano. Trascinata da una scrittura mutevole e mimetica, da un uso delle parole che è esso stesso narrazione, la complessa partitura del romanzo procede con un impeto che scuote e disorienta. Perché “un testo così concepito esige un lettore pronto a traslocarvisi armi e bagagli, ad abitarlo, a starci dentro abbandonando ogni incertezza”.

Una sfida insomma che, con il procedere della lettura, si trasforma in un vero e proprio godimento. Lo stesso di Joyce che, parlando del suo capolavoro, disse: “Vi ho messo così tanti enigmi e rompicapi che terranno i professori occupati per secoli a chiedersi cosa ho voluto significare; e questo è l’unico modo per assicurarsi l’immortalità”.

 

 

Nota introduttiva
di Alessandro Ceni

Ancora oggi il realista guarda solo verso
la realtà esteriore senza rendersi conto di
esserne lo specchio. Ancora oggi l’ideali-
sta guarda solo nello specchio voltando le
spalle alla realtà esteriore. L’atteggiamen-
to conoscitivo di ambedue impedisce loro
di vedere che lo specchio ha un rovescio,
una faccia non riflettente, che lo pone
sullo stesso piano degli elementi reali
che esso riflette.

                                           Konrad Lorenz, L’altra faccia dello specchio

La storia, disse Stephen, è un incubo dal
quale sto cercando di svegliarmi.

James Joyce, Ulisse

1. Abracadabra

Leggere l’Ulisse è come guardare da troppo vicino la trama di un tessuto. Spesso a rovescio. Per poi allontanarlo. E quindi riavvicinarlo. In un continuo movimento, anche muscolare, di avanti e indietro, o meglio, di indietro in avanti. Movimento durante il quale si ha coscienza e si dà contezza dello spazio e del tempo in cui esso avviene e dei sensi in atto. Questo processo diciamo ottico-cognitivo, incantatorio com’è proprio della sua qualità cinetica, incessantemente mettendo a fuoco e mandando fuori fuoco (offrendoci di volta in volta primi piani della fibra stessa del tessuto e campi lunghi dell’insieme dell’intreccio) ci conduce alla tutt’altro che stabilizzante condizione di trovarsi dentro e fuori dal testo contemporaneamente. L’Ulisse è la trama di una tela vista in simultanea nel recto, nel verso, alla luce ultra- violetta, a luce radente, e così via; tela che ha per telaio, che possiede per impianto portante, le due assi verticale-orizzontale delle due parole di apertura, “Stately” e “plump” (in questa traduzione “Sontuoso” e “polputo”), vale a dire l’alto/ basso, il drammatico/comico, l’eroico/farsesco del sopra/ sotto umano. Il dramma (nel senso stretto di rappresentazione seria di un avvenimento) e il comico (il suo contrario, la commedia dell’arte italiana) che vanno sobbollendo nel medesimo calderone danno origine per metamorfosi o trasformazione a una pozione che è la condizione del tragico quotidiano, quella condizione da tutti esperita dove l’antica matrice greca della ineluttabilità del destino e il moderno senso di illusorietà dell’esserci si fondono. I fili della trama del tessuto della tela sono i tanti e vari registri e colori (stilistici, linguistici) che animano questa stoffa fino a farcela balenare davanti per quello che potrebbe essere, per l’unicum che è: tutt’altro che “a misfire” (“un colpo mancato”, “una cilecca”), com’ebbe a definirlo Virginia Woolf, bensì uno straordinario e irripetibile colpito-e-affondato della scrittura. Un impensabile, fino ad allora (la data di pubblicazione è il 1922), tappeto magico.

2. Abracadabra

Nel leggere l’Ulisse ci si accorge che le parole, che sono i nodi della trama, rivoluzionano: com’è specifico della poesia, accade che le parole (anche una sola parola) illuminino violentemente rivoltandole le pagine, accendano orbitando di significato il tutto, incendino sul proprio asse l’immagine. Grande è la frequenza qui con cui la parola ci induce a percepire, grazie a una capacità sinestesica precipua della scrittura poetica, e in un modo a tal punto insistito che si potrebbe considerare l’intero testo alla stregua di un’unica poesia (niente a che vedere col poema), un’unica poesia dilatata, iperbolica, strutturata nelle 3 parti (I, II, III) ovvero macro-strofe del racconto divise in 18 episodi (3, 12, 3) ovvero scene ovvero macro-versi, dove ogni episodio è in realtà un lunghissimo, pantagruelico solo verso, ricchissimo di rime interne, assonanze, metafore ecc. che vanno materilizzandosi (cioè, vengono narrativamente rese) in persone, personaggi, casi, situazioni, frasi, espressioni ecc. L’impressione è che Joyce, superata nel 1916 la prova sperimentale del suo A Portrait of the Artist as Young Man, abbia voluto trasportare e ricomporre in prosa per il tramite tecnico della poesia una sua musica interiore, dove il geniale monstrum, il prodigioso ordito prodotto dall’unione di uno spartito sinfonico con un pezzo di chamber music ma dodecafonico – e Chamber Music è, come si sa, anche il titolo del primo libro di Joyce, una raccolta di poesie uscita nel 1907 –, miscela il recitar cantando (Il ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi) al melodramma pucciniano, le malìe di Ravel all’astrazione di Schönberg e alle fiamme di Stravinskij. È per questo che le sue parole nella pagina rivoluzionano: l’uso totale della lingua, declinata nei suoi multiformi linguaggi, fa della lin- gua in sé il racconto, il narrato (si presenta, diciamo, al pari di una Odissea della lingua, il cui canto è come se fosse per sortilegio in perenne esecuzione). E ancora: pittoricamente parlando, sembra quasi di assistere alla, per dir così, messa in scena di una pala d’altare giottesca, con la sua predella e le sue formelle (il cui ordine però è stravolto), dipinta da un cubista, di modo che lo stesso oggetto è osservato contemporaneamente da più punti di vista per ottenere una scomposizione che compone: un cubista con solidissime fondamenta figurative classiche (la mente va al Picasso di Les demoiselles d’Avignon).

3. Abracadabra

Dal leggere l’Ulisse – dai suoi nodi-parole della trama del tessuto del tappeto, dal suo inesorabile decontestualizzare e ricontestualizzare con la sua feroce conseguenza di spostamento di significati fino al rovesciamento e alla parodia (all’acuminato vertice della parodia della parodia), e oltre, fino alla purezza del travestimento e dell’imitazione (mai qui della dissimulazione o della falsificazione, perché qui tutto è onestamente e crudamente “reale” e “vero”), cioè a una sorta di sincronico incamminarsi sul filo senza bilanciere e farsi sparare dal cannone –, dal leggere l’Ulisse se ne può facilmente sortire con le ossa rotte e con la inquietante sensazione di non averci capito niente ovvero con la irritante sensazione di non possedere adeguate facoltà intellettuali, se non addirittura intellettive, oltre che con la ragionevole tentazione di liquidare il tutto come il coltissimo delirio di un letterato irlandese ebbro. In realtà, superato l’iniziale e, mi si passi, iniziatico sforzo di approccio, ponendosi in piena libertà e disponibilità nei confronti della sensibilità del testo, ci si può impadronire (e farsi irretire, esattamente farsi “prendere nella rete”) della profonda grandezza e bellezza di questo punto di non ritorno della letteratura mondiale di tutti i tempi. Da una parte il lettore tenga sempre ben presente che il modernismo joyciano, sodale della linea guida che andava allora tracciando il poeta Pound, ha salde basi evidenti e dichiarate oppure misteriosamente alluse proprio nella tradizione che va scardinando (avvelenando l’impianto stilistico dei grandi narratori dell’Ottocento europeo), secondo un procedimento comune a ogni opera d’arte autentica, e che qui, com’è ormai arcinoto, è costituita da uno zoccolo ovvero piattaforma (tettonica) o pangea formato dal Vecchio e Nuovo Testamento amalgamato alla totalità dell’opera shakespeariana (sulla quale Joyce abilmente riesce a innestare una speciale commistione ottenuta con le accese tinte di una novella chauceriana e le fosche di un truce dramma elisabettiano), passando per il mondo classico greco-latino, la mitologia gaelica e Dante e innervato da scrittori come Defoe, Sterne, Dickens, Rabelais, Cervantes, Balzac, tanto per rammentarne quasi a caso qualcuno; quindi il metodico lavoro di distruzione e di ricostruzione (di rinnovato utilizzo delle pietre del castello letterario) che caratterizza questo inedito omerico bardo del disastro dell’esistere poco o nulla ha a che spartire con l’inane macello di un avanguardista. Dall’altra parte un testo così concepito esige un lettore pronto a traslocarvisi armi e bagagli, ad abitarlo, a starci dentro abbandonando ogni incertezza, a imbarcarvisi provando dunque quel particolarissimo stato d’animo che si ha nel navigare, di identificazione di sé con la nave (io sono la nave/la nave sono io, la nave mi ha/io ho la nave): sono portato dal mezzo e ne divengo il mezzo. Al lettore è richiesto, insomma – an- che se è possibile che ne riemergerà come sfiorato dalla baudelaireiana “ala del vento dell’imbecillità” e stordito, claudicante, balbuziente – di calarsi nel buio della parola, nell’abisso della lingua, di scendere nell’agone di quelle pagine come un antico atleta di Olimpia: nudo. Si esige qui il cedere e l’affidarsi alla consapevole scelta del precipitare (in quel “Sì” con cui si chiude il viaggio?), evitando di controllare gli strumenti, le bussole e i portolani o i radar sollecitamente forniti dallo sterminato contributo critico e dall’apparato di commenti, glosse, note (utili, senza dubbio, ma giustificabili quasi del tutto da, legittimi, criteri editoriali), eludendo se possibile il sotteso, e presunto, schema compositivo che ricalcherebbe episodi dell’Odissea (e che a me pare invece presentarsi come un ulteriore depistaggio, a posteriori, joyciano, una ulissica trappola nella trappola, tanto ammiccante quanto grottesca, e proprio per le sue caratteristiche di erranza ed enigmaticità), e persino la figura medesima di Ulisse, che andrei casomai a rintracciare, anziché nell’eroe omerico, nell’arcaica figura mitica di un dio solare, cioè della nascita e della morte, antecedente alla colonizzazione greca dell’Egeo, pertanto da far risalire a prima dell’epica che lo riguarda. Il lettore infine cessi di continuare a guarda- re del prestigiatore il cilindro con la puerile speranza di capire come e perché ne esca il coniglio.

Fernando Pessoa, "Messaggio"

 

messaggio_pessoaDall’Introduzione di Giulia Lanciani
Mensagem, Messaggio, è l’unica raccolta poetica pubblicata da Fernando Pessoa durante la sua vita. L’atto della pubblicazione segna, agli occhi del poeta portoghese, la rinuncia alle infinite potenzialità di metamorfosi di un testo. È per questo che, nonostante la concezione precoce (almeno dal 1913), Messaggio è stato edito solo nel 1934, un anno prima della morte dell’autore.
In questo libro araldico, che vuol essere monumento, in questa “cattedrale testuale” dalla struttura profondamente unitaria e insieme composita, mista di epica, lirica e dramma, Pessoa racchiude quarantaquattro componimenti. Continua a leggere

Ritrovata opera di Michele Desubleo, allievo di Guido Reni

Dal deposito della Pinacoteca di Bologna tornerà nella chiesa del Carmine di Massa Lombarda (Ravenna), sua antica collocazione. E’ una ‘Madonna con il bambino in gloria’ del pittore franco-fiammingo Michele Desubleo (1602-1676), allievo di Guido Reni. L’opera ritrovata non è quella che vediamo nella foto qui accanto che è invece, “Ulisse e Nausica”. La tela, di cui si erano perse le tracce dagli anni Sessanta, è stata identificata, e sarà restaurata grazie al fondo messo a disposizione dalla Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, per il recupero di opere dimenticate. Continua a leggere

PoesiaFestival nei comuni delle Terre di Castelli

Ci saranno autori affermati o da scoprire, italiani e stranieri, ma anche cantanti e attori all’ottava edizione del PoesiaFestival in programma da giovedì 27 a domenica 30 settembre 2012 nei comuni modenesi delle Terre di Castelli.

ASCOLTA QUI VIVIAN LAMARQUE NELL’INTERVISTA DI LUIGIA SORRENTINO PER RADIO UNO

L’inaugurazione della rassegna è fissata per giovedì 27 settembre al teatro Ermanno Fabbri di Vignola, con la lezione magistrale di Vivian Lamarque e, a seguire, lo spettacolo scritto e diretto da Nicola Piovani ‘I viaggi di Ulisse’, un percorso in musica nelle vicende del mito, accompagnato dai disegni originali di Milo Manara. Continua a leggere

Lawrence Ferlinghetti, “Il mare dentro di noi”

Anteprima editoriale

Lawrence Ferlinghetti, nato nel 1919 a Yonkers, (New York) è un famoso poeta statunitense, dalle origini italiane. Tra poco sarà nelle librerie italiane la sua nuova opera che coniuga pittura e poesia dal titolo “Il mare dentro di noi”, con prefazione di Hirschman, Aletti Editore.

L’uscita di questo cofanetto che racchiude il volume bilingue The Sea Within Us (Il mare dentro di noi) dell’ultimo poeta della “Beat Generation” (Ferlinghetti il 24 marzo 2012 ha compiuto 93 anni), sarà presentato in anteprima mondiale il 6 agosto 2012 nel Castello Federiciano di Rocca Imperiale (Cosenza). Nella stessa giornata si terrà anche l’inaugurazione della sua mostra personale di pittura “Sulla rotta di Ulisse“. Continua a leggere

Scoperta fiaba inedita di James Joice, la guerra sui diritti

Una fiaba per bambini di James Joyce (1882-1941), recentemente scoperta, è stata pubblicata per la prima volta a Dublino da una piccola casa editrice, Ithys Press, che l’ha messa in vendita con un’edizione a tiratura limitata di 200 esemplari illustrati: i prezzi vanno dai 300 ai 1.200 euro a seconda del tipo di carta usata per la stampa. La storia fu scritta in una lettera il 5 settembre 1936 per il nipote del romanziere irlandese, Stephen James Joyce, all’epoca un bimbo di quattro anni che viveva in Francia, ed e’ intitolata “The Cats di Copenhagen” (I gatti di Copenhagen). lI raccontino fiabesco fu ispirato da una vacanza nella capitale della Danimarca compiuta in quel periodo dall’autore di “Gente di Dublino”.

L’editore Anastasia Herbert ha spiegato che si tratta di “un racconto gemello un po’ piu’ breve” di “The Cat and the Devil” (Il gatto e il diavolo) scritto sempre per il nipotino qualche tempo dopo e finora nota come l’unica favola di Joyce. “E’ una piccola gemma, che riflette l’umorismo, sorprendendo per la sua squisitezza narrativa”, ha detto Herbert. La favola, ambientata in una Copenhagen dove nulla è come sembra e secondo Ithys Press nell’immagine dei gatti ci sarebbero elementi di “anti-autoritarismo se non addirittura di anarchia”. Continua a leggere

Alessandro Haber, legge Dante e Manzoni

Sarà Alessandro Haber a chiudere l’edizione 2011 di “Leggere Dante“, il ciclo di letture promosso dalla Società Dantesca Italiana. L’attore bolognese proporrà letture dalla Divina Commedia, dai Promessi Sposi, dall’Adelchi e dal Cinque Maggio.
Haber opererà così un confronto tra l’opera di Dante Alighieri e quella di Alessandro Manzoni con riferimento particolare alle figure di Ulisse e Napoleone, al valore della patria e ai versi delle due principali opere dei padri della lingua italiana. Continua a leggere

Opere Inedite, Pierluigi Cuomo

Perluigi Cuomo, attore e regista, è anche poeta.
Pubblico volentieri le sue poesie, che ho scoperto di recente.
Per Pierluigi la poesia libera la coscienza “del sapere insieme”, della condivisione della conoscenza che proprio i poeti, più di tutti, avvicinano. Ecco, il tema di oggi potrebbe essere proprio quello della “conoscenza”. Il pensiero va a Dante  al XXVI canto dell’inferno della Divina Commedia: “Fatti non foste a viver come bruti/ ma per seguir virtute e canoscenza”… Secondo voi la figura di Ulisse è il simbolo della ricerca del sapere?

“La poesia è libertà la poesia è musica la poesia è spirito la poesia è un faro che illumina gli angoli bui della coscienza. Remota e silenziosa non ha voce per esprimersi, solo un soffio può darle vita. Un sollievo alla mente che si affanna alla periodica ricerca del se’, dei sensi e del senso.”
                      di Pierluigi Cuomo

                                                       ….. Continua a leggere