Un’opera d’esordio folgorante: Santese con “Vento nelle mani degli uomini”, ci riporta a una poesia di ampio respiro, a uno spazio cosmico che tutto crea e distrugge.
Dimenticate
Si sbracciano come in un sogno
o è l’abbraccio del fuoco e voi: dimenticate.
Dimenticate la gioia
che vi reclama e vi sfa
i gesti dentro un solo grande giorno di luce
che qualcuno disse la vita.
Dimenticate le mura che si aprono,
le macerie e il sale
d’ogni pianto che sbriciola
vetri e pensiero
e prepara il verde luminoso dei prati
mentre giorno dopo giorno
mette spore, dimenticate il bambino
scalzo che vola nell’aria e i bambini, tutti, il grande buio e
l’impossibile, il silenzio
che vi cresce intorno e prepara tutto,
e mai lo dite,
dimenticate le madri
che camminano nell’ombra e abbracciate in sogno fino all’ultimo
respiro, i vivi e
i morti che mai si ricongiungono. Questi sassi scagliati
contro un viso qualunque.
Dimenticate.
Tutto.
Ricomincerete: non il centro del buio
l’uscita dal buio era la sporgenza
alla fine, come in premio, la vita.
Oh ma questo no. Oh questo,
non lo dimenticate.
*
Carezzami ti prego
Carezzami ti prego in questa notte sterminata
di voci e vetri grano grano ricomposti
nella carne
che ci tiene
svegli, alla notte, lungo un filo. Sai, è stato un attimo, e poi
siamo stati cancellati
dal canto e del mondo per ritornare
nel sangue
che agghiaccia un giorno
dentro un volto, e prende
un corpo, un altro
ancora e
sfiora vite, vede vite, sente vita alle labbra, prende
contorni e chiaroscuri, luci
e risa. L’attimo, l’unico, e poi…
fu luce immensa ai vetri
chiamò improvvisi all’amore
d’ogni solco nella carne
mia e tua, nella mente, d’ogni vuoto
bacio e ti lascio e ti lasciano i giorni
per entrare ora, dentro, nelle
ossa
fino al bruciare
improvviso del cristallino dentro un battito: “ora”,
ti prego, lasciami
entrare, o sarà niente
e saremo niente
polvere lacrime
di gioia e mai più.
*
Da me a te
Ciò che cade tra le mani e squarcia le mani, a metà: le apre nel [sangue
una poesia, un grumo di luce e sogno, una liberazione
per coloro che vengono e ci leggono dentro
ogni cosa, le ramificazioni screziate dell’essere, l’albero fulgido, chinandoci la testa sopra
per morirci
sdraiati od entrare,
nel fiato della nottola nel sibilo della caverna
del firmamento che
rotea
assottigliandosi
nella marea delle nuvole sopra la fronte
come il bastone sollevato
a due mani per fare paura l’uccello grandissimo della morte, chiamando tutti
i venti a raccolta
nella scatola del cartone, nell’erba,
nella buca del pozzo,
nel granulo iridato di polvere
che slaccia volando
i capelli lunghissimi
alla donna
dispiegandoli nell’aria,
leggono: dei giocattoli del ridere e della gioia piovuti
dal baratro del firmamento
e nascosti, ora dopo ora, dentro il verde della terra,
della punta della piroga che si frantuma
come le ossa contro l’onda del nulla
dalla quale, un giorno, a nuoto, si nasce,
leggono
delle unghie dell’orso sognate in sogno
è un giorno conficcate
lentamente
nel costato,
delle lingue inusitate e demolite
avverate nel libro di tutti i leggenti
di tutti i veggenti
di tutti i soldati
di tutti i salpati,
i giochi, gli ammanchi,
del battito miracolato dei cento talloni
sulla terra arrossata di polvere
per il troppo danzare, per il troppo gioire, per il troppo ardere,
perché la falena elettrica degli occhi
sbigottisse una mattina di fronte alla pagina bianca e sterminata
del libro della poesia aperto sulle cosce
dal quale andavano leggendo,
leggendo, dell’uomo e della
donna, accovacciati l’uno nell’altra, mentre disegnano
per terra, senza volerlo, in silenzio,
gridando, una storia diversa,
accovacciata in altre storie,
granello di sabbia in granello di sabbia, da te a tutti, saltando tutto, ogni cosa; da me a te.