La statuetta del Presepe che raffigura uno storpio, vergognoso così come la malattia l’ha ridotto, attraversa intatta il romanzo di Benedetta Cibrario, passando dalla Napoli borbonica fastosa e miserabile a quella sfigurata dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, fino alla Napoli di oggi, dentro una casa che odora di ‘libri, cera d’api e lavanda’. Lo seguiamo, nella sua immutata e dolorosa bellezza, per vicoli e palazzi, umide stamberghe e salotti sontuosi.
Dalle mani dell’apprendista Sebastiano, orfano di straordinario talento che lo modella scavando nella creta il suo amore per il padre adottivo, il pastoraio Tommaso Iannacone, finisce un secolo e mezzo dopo nel palazzo del duca di Albaneta e fra le mani del fedele Giovanni Scotti, impiegato postale e restauratore, che rimodella assorto arti spezzati, ravviva un incarnato, raddrizza un piede. Per poi arrivare fino alla giovane Vicky, in una villa della penisola Sorrentina, come ‘regalo di benvenuto’ di suo padre: rituale immutabile e promessa di una eternità impossibile. E’ un omaggio alla bellezza, ‘Lo Scurnuso’, alla “curiosità e al rispetto per ogni forma d’arte” e alla “felicità di essere nati napoletani”. Continua a leggere