Aus der Hand frißt der Herbst mir sein Blatt: wir sind Freunde.
Wir schälen die Zeit aus den Nüssen und lehren sie gehn:
die Zeit kehrt zurück in die Schale.
Im Spiegel ist Sonntag,
im Traum wird geschlafen,
der Mund redet wahr.
Mein Aug steigt hinab zum Geschlecht der Geliebten:
wir sehen uns an,
wir sagen uns Dunkles,
wir lieben einander wie Mohn und Gedächtnis,
wir schlafen wie Wein in den Muscheln,
wie das Meer im Blutstrahl des Mondes.
Wir stehen umschlungen im Fenster, sie sehen uns zu von der Straße:
es ist Zeit, daß man weiß!
Es ist Zeit, daß der Stein sich zu blühen bequemt,
daß der Unrast ein Herz schlägt.
Es ist Zeit, daß es Zeit wird.
Es ist Zeit.
Paul Celan
da Mohn und Gedächtnis, Deutsche Verlags–Anstalt GmbH, Stuttgart, 1952
Corona
L’autunno mi bruca dalla mano la sua foglia: siamo amici.
Noi sgusciamo il tempo dalle noci e gli apprendiamo a camminare:
lui ritorna nel guscio. Continua a leggere→
Video-Intervista inedita di Luigia Sorrentino a Mark Strand
Civitella Ranieri 24 giugno 2011
Traduzione in italiano di Giorgia Sensi Graziani
Prima parte
Ciao Mark, ci siamo visti a marzo qui a Civitella Ranieri, grazie per aver accettato questo secondo incontro. Cosa hai fatto in questi mesi?
Grazie a te. Gli ultimi tre mesi ho viaggiato, ho fatto una lunga vacanza, ho viaggiato in Spagna, Italia, Svizzera, di nuovo in Italia, sempre in macchina. Non ho scritto, ho solo letto, ho fatto il turista, non ho lavorato, essenzialmente sono stato in vacanza.
Si sta bene in vacanza, eh?
Benissimo, sempre.
Mark, che cos’è per te il tempo e qual è il rapporto tra il poeta e il tempo?
Una domanda difficile.
Il tempo significa cose diverse a poeti diversi, a ciascun individuo.
Secondo me, noi viviamo nel tempo, abbiamo il tempo in prestito. Il tempo umano è una parte del tempo, la parte misurabile. Il tempo esiste come entità enorme, incommensurabile, noi viviamo di momento in momento, da un’ora all’altra, di mese in mese, di anno in anno, queste nozioni di tempo con cui misuriamo la nostra vita sembrano alla fine, locali, fragili, oltre non credo che possiamo andare. L’universo è così vasto, nello spazio e nel tempo, noi non siamo in grado di padroneggiarlo. I fisici se ne occupano da un punto di vista matematico, ma per uno come me la matematica non ha alcuna realtà, è una lingua che non so leggere, e mi chiedo fino a che punto sia reale per il matematico. Se tu guardi il cielo notturno, per esempio, ciò che vedi è una quantità di piccoli punti di luce nella tela scura, non vivi lo splendore delle stelle e lo splendore degli anni luce che le separa, questo va oltre i limiti della nostra capacità, della nostra esperienza. Potrebbe essere che siamo ancora troppo primitivi per poterci permettere una tale esperienza, credo comunque che siamo primitivi in tanti modi e limitati in tanti modi, perfino la mia capacità di parlare del tempo in relazione alla mia stessa vita è così primitivo che anche adesso, in questo preciso momento, mi sento primitivo. Forse nel corso della nostra conversazione posso ritornare a parlare del tempo. Credo che siamo soli, veniamo dal nulla, ci viene data una certa lunghezza di tempo da vivere e torniamo al nulla, circondati dall’infinità del tempo e dall’infinità dello spazio che non siamo in grado di capire.
Il tuo tempo è iniziato nel 1934, sei nato in Canada, tuo padre era un uomo d’affari, ha fatto molte cose, e tua madre è stata in tempi diversi una maestra di scuola e un’archeologa. Come li ricordi?
Quando mi trasferii negli Stati Uniti, mio padre aveva un lavoro e mia madre non era ancora archeologa, io parlavo poco inglese, avevo quattro anni e mezzo, ero preso in giro per il mio accento, soprattutto i giovani che erano molto conformisti all’epoca negli Stati Uniti, mi prendevano in giro e un giorno un ragazzo mi prese a botte e io tornai a casa piangendo e mio padre mi disse che dovevo reagire e così la volta dopo affrontai questo ragazzo e lo spinsi giù dalle scale della scuola e il preside e un’insegnante della classe andarono dai miei genitori dicendo che dovevano controllarmi di più perché ero un violento. E quella fu la mia prima azione da ‘uomo’ e una delle ultime, di solito sono un tipo pacifico. Quindi la mia prima esperienza negli Stati Uniti fu quella di un outsider, e in un certo senso mi sono sempre sentito un outsider. D’altro canto, proprio perché mi sentivo un outsider, questo mi spingeva a conformarmi ancora di più, così imparai l’inglese molto in fretta senza traccia di accento, volevo essere come tutti gli altri e in un certo senso sono un miscuglio di uno che si comporta bene, che è uguale a tutti gli altri, ma psicologicamente mi sento un outsider, uno che non ne fa parte, e infatti non voglio essere come tutti gli altri, parlare come tutti gli altri, pensare come tutti gli altri.
Avevi quattro anni quando arrivasti negli Stati Uniti.
Sì, quattro anni, non è mai troppo presto per imparare.
Avrai sicuramente qualche ricordo di quel bambino di quattro anni. Com’era?
Ho diversi ricordi. Uno per esempio: ero un bambino magro, ma anziché le nocche sulle mani avevo delle fossette. C’era un bambino di sette anni che aveva le nocche e io pensavo quando avrò sette anni avrò le nocche e non più le mani di un bambino piccolo. Questo è uno dei primi ricordi. Un altro è l’attesa della visita dei nonni a Filadelfia e mia madre che mi vestiva bene, con dei bei calzoncini corti e una camicia col colletto chiuso, e mi ricordo che stavo alla finestra ad aspettarli. E quando arrivarono mio nonno mi regalò un dollaro d’argento e qualcosa è cominciato in quel momento, il desiderio di ricchezza che ha prodotto il desiderio contrario, di non averne per niente, di solito sono mosso da sentimenti opposti, ma sto scherzando, ovviamente. Questi sono essenzialmente i miei ricordi di allora, aspettare i nonni e volere le nocche. Mi ricordo anche di avere giocato nella sabbia con una bambina e mi graffiai con un’unghia e tornai a casa piangendo e mia madre mi chiese se volevo un cerotto grande o uno piccolo, e io dissi piccolo, ma quando tornai a giocare nella sabbia capii che sarebbe stato meglio un cerotto grande perché avrebbe giustificato il mio pianto e reso più importante la ferita, il cerotto piccolo invece la rendeva meno importante.
Imparai una lezione.
Poco dopo tuo padre, che lavorava per la Pepsi Cola, si trasferì con la famiglia a Cuba, poi in Colombia, in Perù, in Messico. Ci furono tanti spostamenti nella tua famiglia, era divertente per te? Forse però il viaggiare ti impediva di avere degli amici.
Mark, dimmi se c’è un paesaggio, un luogo che hai portato con te per sempre.
Prima di tutto mio padre cominciò a lavorare per la Pepsi quando io avevo quattordici anni, un periodo di tempo molto lungo tra i quattro e i quattordici anni, in quel periodo di tempo ebbe lavori molto diversi, e trasferirsi in paesi così diversi non fu molto piacevole, perdere gli amici… A Cuba ci fui solo d’estate, in Colombia per sette mesi, in Perù per l’estate, frequentavo una scuola privata negli Stati Uniti, ma imparai molto, vedevo come si viveva in paesi diversi, mia madre nel frattempo, quando eravamo in Perù poi in Messico, era diventata archeologa e io andavo con lei negli scavi, mi poteva spiegare cose a cui non avrei potuto avere accesso altrimenti, così quei viaggi furono istruttivi. Ma per esempio in Colombia, dove rimasi per sette mesi, avevo un sacco di tempo a mia disposizione, mi annoiavo, e fu allora che cominciai a leggere molto, fino a quel momento non ero stato un grande lettore, e i miei genitori dicevano perché non scrivi ai tuoi amici negli Stati Uniti? E quella fu la mia prima esperienza di scrittore. Volevo essere invidiato, volevo scrivere in modo tale che loro desiderassero avere le mie stesse esperienze, e in quel momento diventai uno scrittore, anche se quell’esperienza durò solo per un po’, però ricomparve più avanti quando avevo circa ventiquattro anni. Ma in quel periodo fui anche molto malato, e dovetti stare a lungo a letto, ebbi quattro volte la polmonite prima di viaggiare in Sud America, prima della penicillina, una tosse terribile, sei settimane, due mesi a letto, e avevo molto tempo per sognare a occhi aperti, non potevo vedere i miei amici, come sognatore a occhi aperti diventai un professionista, e divenne la base della mia abilità a fantasticare, non sono sicuro che sia stato quello il motivo ma se guardiamo al processo di causa/effetto molto probabile.
Eri un bambino che disegnava, dipingeva, e portavi con te questi ricordi, dipingendo.
Beh, dipingevo sempre, piuttosto bene, da adolescente, prima di diventare un lettore, mia madre aveva studiato arte e mi incoraggiò sempre a disegnare, dipingere. Pensavo che sarei diventato un pittore, finché non frequentai una scuola d’arte e capii che altre madri dicevano ai loro figli che sarebbero diventati pittori, ed erano migliori di me.
Mark Strand e Luigia Sorrentino – Foto d’archivio – 2011
Studiavi pittura, quando diventasti improvvisamente un lettore di Stevens, uno dei maggiori poeti degli Stati Uniti del XX secolo. Cosa ti insegnò Stevens?
E’ molto difficile da dire. Il potere delle singole parole, la sua lingua straordinaria, leggi le poesie di Stevens e sei stupefatto del suo vocabolario, anche la sua musica, e la creazione di immagini, la potenza visiva delle sue poesie. Se sei un pittore, sei molto suscettibile a poesie che hanno una qualità pittorica, e di tutti i poeti del XX secolo penso che Stevens fosse il più pittorico. C’è anche un elemento esotico in Stevens, e non hai dubbi che quello che stai leggendo è poesia. Un’altra cosa molto interessante è che mi piaceva anche senza capirlo, e mi resi conto che puoi amare una poesia anche senza sapere cosa significa, che l’esperienza di una poesia non era necessariamente la conoscenza di quella poesia, che si poteva assorbire una poesia senza essere capaci di dire di cosa parlava. Quello l’ho imparato da Stevens.
Per Stevens, “poeta è colui che scrive e sostiene la domanda della vita”. Qual è la domanda della vita che scrive e sostiene Mark Strand?
A essere sincero, non lo so.
So ciò che chiedo alla vita, un altro giorno, un altro mese, un altro anno, un’altra vacanza, sempre di più, quello che la mia scrittura chiede alla vita non lo so e a dir la verità non lo voglio sapere, se lo sapessi potrei non scrivere più. Ciò che mi fa continuare a scrivere è non sapere di cosa sto scrivendo, perché sto scrivendo. Questo tipo di domanda è per i lettori, non per lo scrittore, almeno non per me.
Nel 1960 avevi 26 quando ricevesti una borsa di studio per venire in Italia, a Firenze, per studiare la poesia italiana del XIX secolo. Cosa c’era di nuovo nella tua valigia quando ripartisti dall’Italia?
L’esperienza in Italia fu fantastica. Prima di tutto vidi moltissimi dipinti che prima avevo visto solo in riproduzione e vederli dal vivo fu una rivelazione, inoltre il mio italiano era molto meglio di quanto non sia adesso quindi potevo leggere Montale, Quasimodo, Ungaretti, Palazzeschi, un po’ di Foscolo e anche Carducci. Mi concentrai molto sulla mia scrittura quando fui in Italia, fu un periodo molto produttivo, fu l’anno in cui venni pubblicato per la prima volta da un’importante rivista negli Stati Uniti.
Ti ricordi la valigia che avevi portato con te? Cosa c’era dentro?
Roba, vestiti.
Scarpe.
Solo un paio, qualche camicia, pantaloni non molti (questo detto in italiano), poca roba. Avevo una macchina da scrivere, manuale, i vestiti non volevano dire niente per me.
E negli occhi cosa c’era?
Nei miei occhi?
Cosa portavI negli occhi?
Non sono sicuro di capire bene. Portavo solo i miei occhi, senza occhiali, non portavo occhiali allora.
C’era una cosa che sentivo quando ero qui, mi sentivo molto americano, amavo l’Italia ma ero così diverso e l’Italia allora era un paese così diverso da adesso, meno automobili, i taxi erano neri e verdi, molti andavano in bicicletta e le rovine della Seconda Guerra Mondiale erano visibili ovunque. Mi comprai una Lambretta usata e imparai a bere un buon caffè. Vivevo con trecento lire al giorno, facevo un pranzo abbondante, risotto, salmì, insalata.
Fu dopo quell’esperienza in Italia a Firenze che cominciasti a pubblicare le tue prime poesie. era il 1964 quando uscì il tuo primo libro, Dormendo con un occhio aperto, (Sleeping with one eye open) insegnavi inglese, avevi 30 anni erano gli anni in cui gli Stati Uniti erano in guerra in Vietnam.
Perché scegliesti questo titolo, Dormendo con un occhio aperto?
La guerra stava appena iniziando nel 1964/1965, e io ero molto contrario alla guerra, come molti altri poeti scrivevo poesie contro la guerra ma erano brutte poesie e così, a parte una ‘The Way It Is’, le altre le buttai, ma le leggevo in questi grandi readings a gente come me convinta che non dovessimo essere in guerra. Ma quello era soprattutto a fine anni Sessanta quando la gente era arrabbiata dalla nostra presenza là, ma il titolo suggerisce adesione al mondo dei sogni e al mondo della realtà, un occhio rivolto all’interno e l’altro all’esterno e in un certo senso era obbligo della poesia tenere in equilibrio visione interna e visione esterna, e credo che il titolo indicasse un ‘modus operandi’ di tutta la vita. Ma non andrei oltre. A te sembra che abbia senso?
Una volta in un’intervista hai detto che devi la tua carriera di poeta a un altro poeta Harry Ford. Cosa ha fatto per te?
Prima di tutto, con Richard Howard, ci incontravamo tre volte la settimana per pranzo, e parlavamo dei libri che leggevamo, il mio rapporto con Richard Howard era strettamente letterario, qualche volta leggevamo le nostre poesie, ma meno frequentemente che con altri poeti, Richard era molto più avanti di me come poeta, ma con altri due amici più intimi, Charles Wright e Charles Simic,si parlava di poesia, di lavoro, di vino, di cibo, specialmente con Simic che amava mangiare e bere, e si parlava molto di poeti stranieri, il che ci portò a pubblicare un libro insieme chiamato Another Republic. Ford non era un poeta, era un editor e figurativamente parlando mi ha salvato la vita perché nel 1965-66, quando tornai dal Brasile feci domanda di un ‘grant’ e Harry Ford era nella commissione, e era anche in quella di ‘Atheneum’, e mi scrisse una lettera per dire che gli piaceva il mio manoscritto ma non poteva pubblicarlo per Atheneum perché altrimenti non avrebbero potuto darmi il grant ed era meglio avere i soldi piuttosto che la pubblicazione perché il libro l’avrebbe sicuramente pubblicato qualcun altro. Passarono due anni e nessuno aveva ancora pubblicato il mio libro, nessuno lo voleva, le mie poesie uscivano su riviste ma un libro sembrava impossibile. Poi per caso incontrai Ford a una festa a New York e mi chiese, Dov’è il tuo libro? Cosa è successo? E io dissi, Mah, nessuno lo vuole. ‘Perché non me lo mandi? Glielo mandai e due giorni dopo mi telefonò per dirmi che l’avrebbero pubblicato. E Harry Ford rimase il mio editor finché non morì.
Un altro poeta che ha giocato un ruolo fondamentale nella tua vita è stato Joseph Brodski che tu hai conosciuto negli anni ‘Settanta. Ci racconti il tipo di relazione che avesti con Brodski?
L’ho incontrato nel 1972 quando venne negli Stati Uniti e lo ammiravo molto, era stato tradotto in inglese e gli avevo mandato dei biglietti d’auguri per Capodanno e quando arrivò negli Stati Uniti gli chiesi se avesse ricevuto i miei biglietti e disse di sì, non solo ma che aveva letto le mie poesie e ne citò una mia lunga, in inglese, lui aveva una memoria prestigiosa, poteva recitare per ore, ma mentre lo ascoltavo recitare la mia poesia ne fui sopraffatto , mi volevo inginocchiare e baciargli le scarpe.
Diventammo grandi amici, la sua influenza su di me fu più grande della mia su di lui, lui mi faceva domande sull’uso della lingua, così era meglio, così più naturale, sarebbe meglio un’altra parola?
Anch’io gli facevo delle domande, e le sue risposte erano sempre molto astute, io seguivo sempre i suoi consigli, non sono sicuro che lui seguisse quello che gli dicevo io. Lo adoravo, era la persona più intelligente che io avessi mai conosciuto, la sua mente era così veloce, la sua immaginazione così fertile, sapeva sviluppare idee, ipotesi più velocemente di chiunque altro che io avessi mai conosciuto.
La sua energia intellettuale era travolgente, era un enorme piacere stare con uno così intellettualmente vivace. Stare con lui mi faceva venire voglia di scrivere. Era la stessa sensazione quando parlavamo al telefono se lui era all’estero. Un grande scambio intellettuale, poetico, più dalla sua parte che dalla mia.
Qualcuno ha scritto che la tua scrittura a un certo punto si è fatta autobiografica, anzi obliquamente autobiografica, come sarebbe avvenuto in Buio, più buio, (Darker) poema del 1970, poi via via questo io che si sentiva molto minacciato dall’esterno approda a un io più interiore, accade forse, questo lo dice la critica, nella tua poesia più famosa la ‘Denarrazione’, una poesia lunga. Cosa ha determinato il cambiamento nella tua scrittura?
Prima di tutto credo che Darker non sia così autobiografico, credo che nella poesia americana ci sia stato un movimento verso l’autobiografia a causa di tutti i poeti confessionali del tempo, e io non volevo essere lasciato fuori, almeno la parte più conformista di me, volevo farne parte, ma non è durato molto, quando uscirono i miei Selected Poems e scrissi i Nova Scotia Poems, ne avevo abbastanza di poesia confessionale, capii che non era per me, non ero un buon poeta autobiografico, e capii che dovevo indirizzare altrove la mia attenzione, ma non credo che le mie poesie autobiografiche siano le mie migliori, sono più fiction che autobiografia, la storia di una vita, fiction, che rappresenta la mia vita e stranamente, all’epoca, provai una certa forma di repulsione per quella mia poesia, non c’era niente di interessante nella mia vita che valesse la pena rivisitare, credo che la mia forza fosse più sul lato dell’ironia, della fantasia, nell’invenzione, nel raccontare vite alternative, perché scrivere della vita che facevo io quando potevo inventare delle vite più interessanti? Quindi la misi da parte.
Nel 1978 diventi poi un poeta di fama internazionale pubblicando L’ora tarda, vai a insegnare nelle più importanti università americane e tiri fuori un io ironico che fino a quel momento non era apparso nella tua poesia. Ci parli di questo cambiamento?
Beh, non accadde nel 1978. Quell’anno segnò la fine della poesia autobiografica, per cinque anni non scrissi perché non sapevo cosa dire. È facile rivolgersi all’ironia, alla fantasia … ma non succedeva niente, cominciai a scrivere articoli per riviste, scrissi libri per bambini, dei racconti, e poi ciò che mi indirizzò verso i libri successivi fu effettivamente la traduzione dell’ Eneide di Robert Fitzgerald, fece partire una esplosione interna, improvvisamente la mia lingua si fece più ricca, le frasi più elaborate e più lunghe, niente di autobiografico, mi divertivo molto a scrivere, e lo devo a Robert Fitzgerald e a Virgilio.
Hai scritto poi Il monumento rispondendo a una domanda che ti era stata posta in una conferenza, ‘Come ti piacerebbe essere tradotto tra 500 anni? E tu hai risposto scrivendo quest’opera, The Monument.
A dir la verità The Monument fu una reazione alla poesia autobiografica di cui parlavo prima. Era una specie di gesto grandioso, di come sarei stato tradotto in futuro come se potessi avere una traduzione nel futuro, e come desidererei essere letto in futuro soprattutto tra 500 anni, che è piuttosto comico nella sua grandiosità. Ma l’idea non è semplicemente della propria opera tradotta, ma di come uno è tradotto, come la propria opera rivela chi sei, fino a che punto è il traduttore il poeta, soprattutto in futuro quando il poeta non è più lì a parlare per sé ma le poesie sono là a parlare per lui, il libro esprime anche il disincanto per questo concetto di provvisoria immortalità, perché ciò che uno vuole è vivere per sempre non necessariamente attraverso la propria opera ma di persona, essere vivo, avere venticinque anni per mille anni, è impossibile, è ridicolo ma in un certo senso profondo è quello che vogliamo, possiamo non volerlo riconoscere ma è così. Non sono sicuro che tutto questo sia espresso in The Monument. In effetti The Monument è un libro che ritenevo molto divertente da leggere per la considerazione dei vari modi in cui siamo trasportati nel futuro se siamo scrittori.
Mark, secondo te la morte può essere ingannata?
No, mai. La morte è assoluta. Quando ne abbiamo parlato mesi fa era chiaro che uno può abitare la stanza dell’immortalità, ma anche lì il nostro tempo è limitato. Ci sono diverse morti. C’è la morte vera, moriamo. Poi c’è la seconda morte quando nessuno si ricorda di noi, quando nessuno dei nostri parenti si ricorda di noi, i nostri nipoti non si ricordano di noi, questa è la seconda morte, più lenta. La terza morte come scrittore è quando le tue opere sono portate via dalla biblioteca perché per loro non c’è più spazio, e tu sei dimenticato. Questa è la terza morte, inevitabile. Dobbiamo vivere con il concetto che qualunque cosa facciamo e diciamo possiamo essere sostituiti.
A un certo punto hai mollato la poesia e ti sei messo a fare altro, critico, giornalista, come se avessi voluto prendere le distanze dalla poesia. Come mai è accaduto questo?
Beh, non avevo idee, ho semplicemente smesso di scrivere perché non volevo scrivere brutte poesie, e quando smetti di scrivere per un po’ sembra che tu esca dal mondo della poesia, da quell’atteggiamento mentale da cui nasce la poesia, non è che ti manchi, ma non fa più parte della tua vita quando scrivi, non è stata una tragedia, è stato un modo di ricaricare le batterie, non puoi continuare a spendere energie in un libro dopo l’altro… Va bene, c’è gente che lo fa, ma io non ci riesco.
Poi sei ritornato di nuovo a scrivere poesie e hai pubblicato La vita ininterrotta con il quale ottieni il titolo di ‘Poeta Laureato degli Stati Uniti’ e la tua opera poetica acquista una visibilità senza precedenti. Cosa vuol dire Poeta Laureato, Mark?
Beh, essere poeta laureato non ha voluto dire molto per me. Era un titolo, sono stato anche sorpreso perché il precedente Poeta Laureato era stato molto più vecchio, io ero appena cinquantenne , in effetti non ha fatto molta differenza. Ho fatto molti reading, ho venduto molti più libri, quell’anno non ho scritto una sola poesia perché abitavo a Washington in una casa terribile, in affitto, è stato un anno di vita sociale, feste, cocktail party, cene, perché se hai un titolo a Washington allora sei qualcuno, altrimenti non sei nessuno. Poeta laureato è come stare in vetrina, come un bouquet messo su un tavolo, ero come qualcosa di frivolo da avere a un party.
Porto oscuro esce nel 1993 ed è un singolo poema diviso in 45 sezioni, poi con Tormenta al singolare nel 1999 Mark Strand si aggiudica il Premio Pulitzer per la Letteratura, consacrato ancora una volta poeta. Cosa ricordi di quel giorno?
Lo ricordo benissimo. Il mio editor, Harry Ford, era morto un mese prima e io ero a New York, seduto nel suo ufficio perché nel pomeriggio avrei dovuto leggere un ricordo, un discorso funebre in sua memoria, e per scriverlo stavo usando la sua macchina da scrivere e d’un tratto sentii il bisogno di uscire a fare una passeggiata, e finii con l’andarmi a comprare una camicia bianca, poi tornai in ufficio a finire il discorso funebre e mi resi conto che Harry Ford indossava sempre una camicia bianca, forse inconsapevolmente comprando una camicia bianca avevo reso omaggio a Harry Ford? Quando tornai in ufficio tutti vennero a congratularsi con me dicendo, Complimenti! Congratulazioni, hai vinto il Pulitzer Prize! E tornai nell’ ufficio di Harry Ford a finire il discorso. Quindi mi ricordo bene quel giorno, la camicia bianca, la macchina da scrivere, il discorso, la notizia del premio.
A cosa stai lavorando adesso?
Sto scrivendo il mio capolavoro! Sono venuto a Civitella l’anno scorso a maggio e ho cominciato a scrivere brevi brani in prosa, ho finito il libro a febbraio, otto mesi, ed è stato pubblicato negli Stati Uniti e poi qui in Italia da Nottetempo di Ginevra Bompiani. Mi è piaciuto molto scriverli, mi sono davvero divertito, è stato un vero sollievo rispetto a scrivere poesia, la poesia aveva cominciato a esercitare una forte pressione su di me, pensavo di dover essere migliore di quanto effettivamente potevo essere e avevo cominciato a pensare che le mie poesie non fossero abbastanza buone, mi davano ansia e infelicità, e così cominciai a scrivere questi pezzi in prosa, sembrava che rappresentassero chi sono in modo più enfatico della poesia, alcuni sono buffi, altri più seri, alcuni sembrano poesie – alcuni li vedono come poesie – ma io non li considero poesie, così finii in febbraio, poi mi dissi, basta pezzi in prosa, stavo per finire un memoir che avevo cominciato , ma poi cominciai a fare dei collages, ne feci quattro o cinque, li feci vedere a qualche persona, ora un paio sono in mostra in una galleria a New York, e continuo a farli. E venendo a Civitella, dove avevo cominciato i brani in prosa, ieri ne ho incominciato un altro, troppo tardi per essere incluso nel libro, ma quando ero a Milano ho parlato con Antonio Riccardi da Mondadori, che era rimasto offeso che io avessi offerto i miei brani in prosa a un altro editore, ma gli ho detto, beh, è solo un libriccino e tu eri forse troppo occupato in Mondadori per uscire con questo mio ‘grosso’ volume, ne scriverò ancora e arrivato a 100 potrai pubblicare il tutto. Quando sono arrivato qui, in questo posto, ho avuto questa idea dei brani in prosa e forse chissà ne scriverò ancora e fra un anno avrò un altro libro per Antonio.
Ora sei in un posto tranquillo, Civitella Ranieri, puoi scrivere facilmente, qui c’è silenzio, quiete, hai tutto quello che serve per poter scrivere. Ma tu riesci anche a scrivere in metropolitana, in un luogo pubblico oppure ti sentiresti troppo osservato ed emotivamente diciamo “scoperto” per poterlo fare?
Credo di aver bisogno di silenzio, di tranquillità, è un fattore molto importante, sarebbe impossibile per me scrivere in metropolitana – leggo in metropolitana – riesco a scrivere poesia solo in un posto molto tranquillo, posso scrivere lezioni, conferenze, altre cose così in aereo per esempio anche se non voglio che la persona seduta accanto a me mi veda scrivere perché non voglio avere alcuna relazione con la persona accanto a me, c’è anche l’impressione di essere visto come troppo emotivo, credo che scrivere in pubblico sia un po’ un’esibizione, sono sempre sorpreso da chi va a scrivere da Starbucks, o in un caffè, annunciando al mondo di essere scrittori, preferisco tenerlo per me, in privato.
Perché si scrive poesia e perché si legge poesia, per scoprire che il poeta vede il mondo come lo vediamo noi?
Credo che l’unica differenza tra il poeta e le altre persone sia la risposta del poeta, il poeta ha accesso alla storia della poesia, a poesie scritte prima di lui, e ha familiarità col modo in cui altri scrittori hanno espresso la loro esperienza del mondo. Questo non significa che l’esperienza del poeta sia più profonda o più ricca di quella di altre persone, altre persone hanno sentimenti, altre persone si innamorano, altre persone hanno paura del buio, non vogliono andare in guerra, è solo che il poeta scrive ciò che sente, anche altri possono qualche volta scrivere una poesia qua e là, ma il poeta ha imparato la lingua della poesia, ha la sua lingua e ha la lingua che ha ricevuto e ha anche la lingua in cui sta scrivendo. Ci sono tre fattori: la sensibilità del poeta, c’è la storia del poeta, e c’è la lingua in cui il poeta trasmette i suoi sentimenti cosicché altri possano riconoscere in loro stessi ciò che il poeta sta dicendo.
Il poeta che tipo di realtà vuole trasferire al lettore?
Questa è una domanda molto difficile. Credo sia diverso a seconda dei diversi poeti, non è nemmeno una scelta, il poeta fa ciò che può, parte della risposta è che il poeta esprime il modo in cui egli vede il mondo, ma non è solo questo, è il modo in cui NON vede il mondo, ciò che è oltre a quello che lui riesce a vedere, nelle sue poesie naturalmente il poeta presenta un mondo che è riconoscibile ad altri ma presenta anche un mondo che è interno a lui stesso, che lui ha reso proprio, il mondo della sua vita interiore, della sua soggettività, fatto soprattutto di sentimenti e di idee generate dall’interno, e lo stile della poesia è donato dall’esterno, e il miscuglio di interno ed esterno è la realtà che il poeta presenta al lettore, questo ha senso.
Quando ascoltiamo la tua poesia siamo affascinati dalla voce, dal ritmo, siamo condotti nel mondo della poesia che hai scritto, a volte però nella poesia che hai scritto accade qualcosa di inimmaginabile, o comunque ci si trova dinnanzi a qualcosa di strano, di inaspettato, quasi che la lingua della poesia prenda il sopravvento su quello che il poeta ha detto o avrebbe voluto dire, perché succede questo?
Un’altra difficile domanda. Credo che il poeta voglia sempre andare al di là, oltre ciò che è comprensibile nell’immediato, oltre ciò che è possibile dire, così ciò che il poeta vuole fare è suggerire di più di ciò che effettivamente dice, spera che la sua poesia abbia un grado di risonanza e suggerisce la possibilità di significati più grandi di quanto le singole parole possiedano. Questa è la parte mistica della poesia di cui è difficile parlare in termini concreti, molto di ciò che il poeta ha da dire è suggerito inconsapevolmente, c’è un mondo in ciascuno di noi di cui non sappiamo e che non capiamo, e a cui non sempre abbiamo accesso, appare nei sogni e spesso appare in una poesia in modo del tutto inaspettato, se le poesie fossero scritte rigorosamente dalla nostra coscienza non sarebbero mai migliori di quanto siamo, porterebbero avanti un discorso razionale dove il significato sarebbe appreso immediatamente, ma la poesia cerca di fare qualcos’altro, cerca non solo di esprimere significati concreti, ma di suggerire significati oltre il concreto, non solo significato, cosa si prova ad avere qualcosa che significa qualcosa per te.
La poesia è un’esperienza di totale immersione nel mistero dell’essere e del tempo, da dove viene la lingua della poesia, proviene dall’inconscio o dalla coscienza?
Credo che venga da entrambi, si nasce in una lingua e in una cultura, la lingua è proprietà pubblica, appartiene a tutti, per farla propria bisogna assorbirla in modo speciale. Una delle cose che il poeta fa, come ho detto prima, è investirla di qualcosa al di là della denotazione, qualcosa di misterioso, credo che debba investire la lingua di mistero, come si faccia non ne ho un’idea, la società è opposta al mistero, la società usa la lingua per convincerti di questo o di quello, la società non ha tempo per l’ambiguità, ma noi viviamo vite che sono ampiamente ambigue, che non dipendono da ciò che è assolutamente razionale, o decisioni molto chiare, viviamo vite che in qualche modo sono sospese nel mezzo, e penso che ciò che i poeti fanno è in mezzo, a volte tra l’incertezza, l’ambiguità, il mistero.
Una volta hai detto che la poesia esiste come qualcosa di diverso nell’universo, come qualcosa che il lettore non ha ancora incontrato prima di quel momento. Che cosa deve cercare questo lettore nella poesia?
Quando dico che una poesia è qualcosa di diverso nel mondo voglio dire che ciascuna singola poesia ha la propria identità ed è una cosa nuova, il poeta comincia con un foglio bianco e ci scrive sopra qualcosa, qualcosa che non è mai stato scritto prima, il significato può esistere altrove, ma il modo in cui appare su questo particolare foglio di carta non è mai apparso prima, quindi ogni poesia è qualcosa che esiste in quel momento, è un artefatto del tutto nuovo. È qualcosa che succede naturalmente e noi leggiamo la poesia del poeta perché sentiamo quella voce dentro la poesia, e con voce non intendo il suono, intendo l’identità, il fattore che identifica la poesia, ciò che la distingue dalle altre. Continua a leggere→
“La poesia può essere un messaggio in bottiglia inviato nella convinzione – certo non sempre salda – di potere chissà dove e chissà quando venire sospinto a riva”. Così auspicò Paul Celan nel 1960 ricevendo il prestigioso Premio Büchner.
Dopo il conferimento del Premio Büchner si interessarono a questo poeta più editori europei.
In Italia Mondadori, che avviò una trattativa complessa coinvolgendo a più livelli diversi poeti italiani, tra cui Sereni, Zanzotto, Fortini, Spaziani e Balestrini.
Itzhak Katzenelson e i suoi due figli uccisi dai nazisti
Quest’anno in occasione della Giornata della Memoria, ho prodotto per la Rai – con il montaggio di Simona Belliazzi – due servizi giornalistici in memoria della Shoah.
Ho scelto di ricordare questa giornata attraverso la lingua di due grandi poeti , profondamente diversi fra loro, che furono, diversamente diversamente coinvolti nella strage degli ebrei d’Europa: Itzhak Katzenelson e Paul Celan. Essi infatti, raccontarono nella loro poesia la strage degli ebrei perpetrata durante il periodo fascista e nazista, con due lingue opposte che però affermano la medesima condizione.
Katznenelson, da un punto di vista anagrafico più adulto di Celan – nato in Polonia nel 1886, viene ucciso nel campo di concentramento di Aushwitz nel 1944 – vive la deportazione e l’internamento lasciando in eredità un canto: “Il canto del popolo yiddish messo a morte”. Katzenelson quindi, racconta l’orrore con una lingua materna, un canto di culla, “affettivo”, lo yiddish, la lingua parlata da 11 milioni di ebrei d’Europa prima della Shoah e dopo la Shoah totalmente cancellata.
ITZHAK KATZENELSON
SERVIZIO di LUIGIA SORRENTINO
MONTAGGIO di SIMONA BELLIAZZI
Paul Celan
Paul Celan, invece, nato nel 1920 in Ucraina, riesce a sfuggire alla deportazione e ai campi di sterminio, anche se viene spedito in diversi campi di lavoro in Romania – figlio unico, perderà entrambi i genitori catturati dai nazisti: il padre moriràdi tifo e la madre, alla quale Celan era legatissimo, viene fucilata nel campo di concentramento di Michajlovka, in Ucraina -. Celan quindi, pur essendo un sopravvissuto, è fortemente traumatizzato dall’esperienza della Shoah. Tutte le sue memorabili poesie le scriverà in tedesco, nella lingua del suo aguzzino, come “ testo a fronte” della sua drammatica esperienza: la patria perduta, la madre morta nella deportazione, il popolo ebraico sterminato, nella cancellazione totale della lingua e dell’identità ebraica.
PAUL CELAN
SERVIZIO di LUIGIA SORRENTINO
MONTAGGIO di SIMONA BELLIAZZI
Una volta c’era uno scopo,
ho sentito dire: c’era un Dio.
Rendeva tutto un po’ meno indegno
e ci forniva il perché
che tutti cercavamo.
Verità indiscutibile.
Un motivo per essere buoni e giusti,
un motivo per il cappio
che mandava il peccatore a quel paese
e ci faceva sentire tutti meglio
nella consapevolezza che i giusti
sarebbero stati giusti per sempre.
Una volta c’era la religione e comandava.
Ce la passavamo male.
La sera ci addormentavamo nella delusione
questo era Questo e quello era Quello.
E se mai vacillava la nostra morale nella nebbia
non dovevamo far altro che consultare la Bibbia.
Ma col tempo ne abbiamo sofferto la pressione;
il grande oppressore era la religione.
E senza Dio le guerre ci sembravano più crudeli,
la vita più squallida. L’arte sembrava una sciocchezza.
La morte ora era più strana che mai.
A che serviva l’umanità? Che terrore
ci invadeva quando capivamo
che non c’era scopo, che non c’era piano?
Si viveva solo per un giorno.
Lavorare. Mangiare. Dormire. Scopare. Crepare.
Senza il timore di una punizione
scoprimmo il piacere senza sensi di colpa,
ma perdemmo il sentimento comune
che ci aveva tenuti tutti insieme.
Avevamo bisogno di un nuovo ingrediente
che riempisse il vuoto crescente;
e quale nuova fede migliore
della Libertà senza-più-limiti?
La gioia di essere quello che siamo
in virtù dei vestiti che acquistiamo.
Il sogno di arricchirci abbastanza
da vivere una vita fuori dal comune.
E ora non c’è uno scopo
che vada oltre i nostri bisogni.
Ora si venera soltanto
ciò che è comodo e veloce.
Corriamo in tondo
dove la grazia sfida l’avidità.
Tutto quel che abbiamo va al di là
della necessità che nutriamo
i nostri viziatissimi monelli
nel modo migliore che possiamo.
E poi ci meravigliamo che da grandi
conoscono solo quel che si trovano in mano.
Ora abbiamo lo Schermo
che comanda tutto.
I nostri figli perma-connessi alle sue promesse,
in ammirazione costante delle sue gemme.
E le coppie consumano i pasti
al chiarore dei suoi raggi,
lo fissiamo fino a imparare
come va il mondo.
Pre-adolescenti apprendono il batticuore.
Il batticuore s’ingozza di maiale piccante e sport.
La realtà messa in scena per essere compianta o irrisa –
ecco finalmente la mortalità! Vederci ripresi
a colori in alta definizione.
Guarda – uno storpio a un appuntamento al buio.
Guarda – giovani che fottono a Magaluf,
guarda – la madre di un figlio morto che piange e impreca,
guarda – una celebrità che mangia merda e canta Agadoo.
Una volta bruciavamo le donne che soffrivano di epilessia.
Le legavamo a un palo e le accusavamo di stregoneria.
Adesso
le mostriamo sullo schermo se hanno belle tette,
ma poi se si lasciano andare le facciamo a pezzi.
Tracciamo cerchi rossi attorno alle smagliature.
E scorriamo le immagini mangiando patatine fritte.
Si può essere una fata, una stronza o una matta,
oppure elegante, una bestia o una coatta.
Prima
si era condannati per le cose fatte,
oppure se non si viveva come il resto del villaggio.
Adesso
ci danno uno stampo e ci dicono – infilati qui dentro.
Vedrai che forse un giorno sarai famoso.
Riprese dietro le quinte
di un famoso ultimo concerto.
Dettaglio ravvicinato
dell’ultimo spasimo della cantante.
Prima che tiri fuori la pistola
e si faccia saltare le cervella.
Il mondo è il tuo parco giochi,
va’ e divertiti da matto;
basta che non sei povero,
malato o brutto.
Ci hai colto di sorpresa
come i migliori trucchi.
Una volta avevamo paura;
adesso abbiamo la cura.
(Traduzione dall’inglese di Riccardo Duranti)
La poesia di Kate Tempest Progresso, è tratta da Hold Your Own/ Resta te stessa, Edizioni E/O, 2018 con testo inglese a fronte. Traduzione di Riccardo Duranti.
Qui sotto il video live di Kate Tempest nell’interpretazione di Progress.
I vincitori della sessantaquattresima edizione del Premio Napoli sono: per la sezione “Narrativa”, Giorgio falco, con “Ipotesi di una sconfitta”, (Einaudi); per la “Saggistica” il più votato è stato Francesco Merlo, con “Il sillabario dei malintesi”, (Marsilio); per la sezione “Poesia” si è aggiudicato il prestigioso riconoscimento Guido Mazzoni, con “La pura superficie”, (Donzelli). La serata di premiazione si è svolta al Teatro Mercadante di Napoli.
Il servizio di Luigia Sorrentino
Napoli, 18 dicembre 2018
Non puoi dirlo più così.
Preoccupato della bellezza devi
uscire allo scoperto, in una radura,
e riposare. Certo, qualsiasi cosa strana ti succeda
è OK. Chiedere di più non sarebbe
da te, tu che hai così tanti amanti,
gente che ti ammira ed è pronta
a fare cose per te, ma tu pensi
non sia giusto, che se ti conoscessero davvero…
Basta cosí con l’autoanalisi. E adesso,
su cosa mettere nella tua poesia-quadro:
i fiori sono sempre belli, specie i delphinium.
I nomi di bambini conosciuti un tempo e le loro slitte,
i razzetti vanno bene – esistono ancora?
Ci sono un sacco di altre cose con le stesse proprietà
delle sunnominate. Ora si devono
trovare alcune parole importanti e molte di basso profilo,
dal suono fiacco. Lei mi contattò
perché comprassi la sua scrivania. D’improvviso la strada fu
follia pura e clangore di strumenti giapponesi.
Prosaici testamenti vennero sparpagliati tutt’attorno. La sua testa
s’allacciò alla mia. Eravamo una biciancola. Qualcosa
andrebbe scritto su come ciò ti condizioni
quando scrivi poesia:
l’estrema austerità di una testa pressoché vuota
che si scontra con il rigoglioso fogliame Rousseau-simile del suo desiderio di comunicare
qualcosa nelle intermittenze del respiro, anche se solo nell’interesse
d’altri e per il loro desiderio di capirti e disertarti
per altri centri di comunicazione, così che la comprensione
possa avere inizio, e così facendo essere disfatta.
E’ morto a Roma a 84 anni il celebre linguista Tullio De Mauro, docente universitario, già ministro della Pubblica Istruzione e presidente della Fondazione Bellonci, che organizza il premio Strega. E’ stata la stessa Fondazione a darne conferma.
Nato a Torre Annunziata il 31 marzo 1932, Tullio de Mauro, si laureò in Lettere classiche, per poi insegnare nelle università di Napoli, Chieti, Palermo e Salerno. Docente di Filosofia del linguaggio alla Sapienza di Roma, è stato poi ordinario di Linguistica generale presso la stessa università. Nel 1966 è stato tra i fondatori della Società di linguistica italiana, di cui è stato anche presidente (1969-73). È stato consigliere della Regione Lazio (1975-80), membro del Consiglio di amministrazione dell’università di Roma (1981-85), delegato per la didattica del rettore (1986-88) e presidente dell’Istituzione biblioteche e centri culturali di Roma (1996-97). Dal 2000 al 2001 è stato ministro della Pubblica Istruzione nel governo Amato.
Nel 2001 è stato nominato dal Presidente della Repubblica Cavaliere di Gran Croce al Merito della Repubblica Italiana. Per l’insieme delle sue attività di ricerca, l’accademia nazionale dei Lincei gli ha attribuito nel 2006 il premio della Presidenza della Repubblica.
Lo ricordiamo con questa intervista realizzata da Luigia Sorrentino a Napoli in occasione del Premio Napoli nel 2006.
Nel 2008 gli è stato conferito l’Honorary Doctorate dall’Università di Waseda (Tokyo). Autore di un’importante traduzione commentata del Cours de linguistique générale di F. de Saussure (1967), tra le sue opere più importanti vanno citati la Storia linguistica dell’Italia unita (1963) e Il grande dizionario italiano dell’uso. Continua a leggere→
Nel video, ideato da Gianluca Foresi, 50 cittadini di Orvieto leggono il VI Canto del Purgatorio in omaggio al Sommo Poeta in occasione del 750esimo anniversario della nascita. Continua a leggere→
Un poeta legge un poeta
a cura di
Luigia Sorrentino
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“Ho scelto questa poesia di Antonella Anedda per l’atmosfera e le immagini che suscita. Nel contesto di audio / visivo, abbiamo voluto presentare la creazione di una nuova esperienza visionaria delle parole evocate dalla poesia.”
Un poeta legge un poeta
A cura di
Luigia Sorrentino
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“Il testo di Ferrari, partendo da un concetto di degradazione necessaria (la macellazione), sa delineare la fisionomia umana nella sua complessità comprendente la ricerca del sacro, del nobile, e la convivenza con lo squallore, la fame. È una fotografia del tempo, impietosa ma non drammatica.”
Alessandro Canzian
Un poeta legge un poeta a cura di Luigia Sorrentino
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“I versi di Milo De Angelis, non solo quelli che ho scelto in questa occasione, hanno l’abile capacità di raccontare con semplicità i fatti quotidiani. Dagli spunti di una stazione, come accade in ‘Sonoancora loro’, alla dedica per un amore andato o venuto. Tutto si estende nel ritmo giusto della poesia. È così che ‘uno, esile, diventa ruggine / squarciagola… ‘. Leggendo.”
Un poeta legge un poeta
a cura di
Luigia Sorrentino
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Video realizzato da Auro e Celso Ceccobelli con Alessandro Cucchi
Abbiamo scelto la poesia “Batte Botte” di Dino Campana per il suo ritmo, dell’onda e del verso, che tutto scuote: la nave, la notte e l’animo di chi viaggia nei pensieri e nelle vibrazioni pesanti contemporanee. Questo è il nostro stato d’animo attuale: i rumori di una camminata notturna fatta da gente nervosa, resa tesa dalla generazione precedente, i 50enni di oggi non mollano l’osso, pensano di stare sempre sul pezzo, si permettono ancora di interpellarci, succhiano la nostra energia, utilizzano i nostri mezzi di comunicazione.
Tutto questo genera una società stagnante, senza slancio, poiché il vecchio si mescola con il nuovo intorbidendo le acque, le idee; gli itinerari e i progetti non risultano chiari, manca il ricambio generazionale, soprattutto nei ruoli chiave.
Ci chiediamo spesso se i genitori di voi 50enni abbiano mai utilizzato i vostri registri verbali e stilistici… Ovviamente no! I nostri Nonni andavano in chiesa e voi ascoltavate il rock’n’roll..
Noi utilizziamo internet e voi pure, questo non è salubre. Dovrebbe essere istituito un blocco tecnologico, in modo tale che chi sia oltre i 50 anni possa al massimo guardare un po’ di TV, nulla più.
Una camminata notturna serve a schiarirsi le idee, a progettare cambiamenti, alla ricerca di un’esplosiva novità.
Per partecipare a “Un poeta legge un poeta“, dovete inviae a luigia.sorrentino@rai.it dei vostri video in mp4 in cui leggete una poesia di autore italiano noto, vivente o non più vivente, del secondo Novecento.
Il video deve avere questa struttura
1. non deve superare la durata di 3 minuti;
2. la vostra voce deve essere sempre fuori campo coperta da immagini a vostra scelta;
3. le immagini devono avere un senso rispetto al contenuto della poesia:
4. i video devono essere rigorosamente senza musica, ma possono contenere effetti sonori. Continua a leggere→
Cari amici di Poesia,
Per partecipare a “Un poeta legge un poeta“, dovete inviare a luigia.sorrentino@rai.it dei vostri video in mp4 in cui leggete una poesia di autore italiano noto, vivente o non più vivente, del secondo Novecento. Il video deve avere questa struttura
1. non deve superare la durata di 3 minuti;
2. la vostra voce deve essere sempre fuori campo coperta da immagini a vostra scelta;
3. le immagini devono avere un senso rispetto al contenuto della poesia:
4. i video devono essere rigorosamente senza musica, ma possono contenere effetti sonori. Continua a leggere→
Cari amici di Poesia,
Per partecipare a “Un poeta legge un poeta“, dovete inviae a luigia.sorrentino@rai.it dei vostri video in mp4 in cui leggete una poesia di autore italiano noto, vivente o non più vivente, del secondo Novecento. Il video deve avere questa struttura
1. non deve superare la durata di 3 minuti;
2. la vostra voce deve essere sempre fuori campo coperta da immagini a vostra scelta;
3. le immagini devono avere un senso rispetto al contenuto della poesia:
4. i video devono essere rigorosamente senza musica, ma possono contenere effetti sonori. Continua a leggere→
Cari amici di Poesia,
Per partecipare a “Un poeta legge un poeta“, dovete inviare a luigia.sorrentino@rai.it dei vostri video in mp4 in cui leggete una poesia di autore italiano noto, vivente o non più vivente, del secondo Novecento. Il video deve avere questa struttura
1. non deve superare la durata di 3 minuti;
2. la vostra voce deve essere sempre fuori campo coperta da immagini a vostra scelta;
3. le immagini devono avere un senso rispetto al contenuto della poesia:
4. i video devono essere rigorosamente senza musica, ma possono contenere effetti sonori. Continua a leggere→
Cari amici di Poesia,
Per partecipare a “Un poeta legge un poeta“, dovete inviare a luigia.sorrentino@rai.it dei vostri video in mp4 in cui leggete una poesia di autore italiano noto, vivente o non più vivente, del secondo Novecento. Il video deve avere questa struttura
1. non deve superare la durata di 3 minuti;
2. la vostra voce deve essere sempre fuori campo coperta da immagini a vostra scelta;
3. le immagini devono avere un senso rispetto al contenuto della poesia:
4. i video devono essere rigorosamente senza musica, ma possono contenere effetti sonori. Continua a leggere→
[…] “qui non resta che cingersi intorno il paesaggio”
Andrea Zanzotto
L’intervista televisiva con Andrea Zanzotto è di Maddalena Labricciosa, ed è stata realizzata per Rai International nel giugno del 2009. L’incontro è avvenuto nel luogo in cui il poeta visse, l’altopiano di Pieve di Soligo, dal quale difficilmemente si allontanò.
Video realizzato in occasione della mostra: 8×8 64 when form becomes idea 7 artisti per Mario Schifano detto “Il Puma”, tenutasi a Todi nell’ottobre del 2013. Continua a leggere→
Appuntamento
–la poetica del corpo & il corpo poetico
– A cura del collettivo WSF in collaborazione con Silvia Rosa e Salvatore Sblando, presso la Libreria Belgravia in Via Vicoforte 14/d, Torino.Il programma prevede una mostra fotografica-artistica dal 29 marzo al 24 aprile; vernissage, reading poetico e videoproiezioni il 29 marzo 2014 dalle ore 18 alle 22.• cliccare qui per scaricare il manifestoIn programma: nuda sei …, un nuovo video di Maria (Felix) Korporal.
La moglie del dissidente cinese e Premio Nobel per la pace Liu Xiaobo è apparsa a sorpresa in un video girato clandestinamente e diffuso su internet e su youtube.
Nel video la donna, Liu Xia, legge una poesia che, secondo alcuni, allude alla sua condizione di prigionia. Liu Xia, è infatti detenuta nel suo appartamento di Pechino, pur essendo, in teoria, una libera cittadina, non essendo stata accusata di alcun reato dal dicembre del 2010, quando il prestigioso premio fu assegnato al marito.
Liu Xiaobo, un intellettuale critico del regime a partito unico, sta scontando una condanna a 11 anni di prigione per “sovversione”.
Nel video Liu Xia appare provata dalla prigionia, magra e pallida. Qui sotto alcuni versi della poesia che la donna legge servendosi della luce di una piccola lampada da tavolo: Continua a leggere→
[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=QxqQ_lRbY1g[/youtube]
Olanda, Amsterdam. Video presentazione di “Finestre/Vensters” l’antologia della poesia femminile italiana a cura di Gandolfo Cascio. Concerto per flauto e fagotto “Sonata in fa maggiore” di Benedetto Marcello. I musicesti erano Joukje de Boer e Remko Littooij.
Nello scaffale
–
“Ma come si fa a non prendere e stringre mani fino a sentir male, guardare fino a far lacrimare gli occhi, come si fa a vivere così, sapendo.
Sapendo che possiamo celebrare finalmente insieme la diaspora dal nostro egoismo, fare una cosa sola, o anche due, e così scendere dal calvario di una vita che intanto ci inchioda a esser soli, sordi, ciechi e scontenti.
L’ottimismo e voler resistere al male, comunque.”
– Mariapia Veladiano crede nelle parole che fanno la differenza. Le sceglie per noi, ce le affida. Affinché queste parole possano essere nostre compagne. Il libro è quasi un dizionario dei sentimenti. In esso ci sono il bene e il male che si confrontano, si osservano, si sfidano, come in questa piccola prosa che ho scelto per voi, che ha per titolo “Tenerezza”. Ha a che vedere con gli abbracci, quelli che fanno la differenza e che mancano, mancano ovunque, quando si è piccoli, ma anche quando si è adulti.
Proviamo ad ascoltare queste parole. Continua a leggere→
Debutta domani, 12 novembre 2013, al Piccolo Eliseo di Roma “Il Soccombente” con Roberto Herlitzka, principale interprete del romanzo-capolavoro di Thomas Bernhard portato per la prima volta in scena da Nadia Baldi, che ne firma la regia. La versione teatrale è curata da Ruggero Cappuccio. Accanto a Herlitzka, l’attrice Marina Sorrenti.
Teatro Ekliseo, dal 12 novembre all’8 dicembre 2013.
Nadia Fusini, una delle più autorevoli studiose e scrittrici italiane è ospite di NOTTI D’AUTORE giovedì 2 maggio 2013 alle 0:30 su Rai Radio 1. Docente di letteratura inglese e critica shakespeariana all’università La Sapienza di Roma, allieva di Agostino Lombardo e di Giorgio Melchiori, i più importanti traduttori di Shakespeare in Italia, ha poi approfondito gli studi sulla letteratura americana all’Università di Harvard e successivamente sul teatro elisabettiano e Shakespeare presso lo Shakespeare Institute di Birmingham. Nadia Fusini è anche Docente presso l’istituto di Scienze Umane che ha sede a Firenze.
Nell’intervista di Luigia Sorrentino Nadia Fusini parla in anteprima del suo nuovo romanzo appena uscito con Einaudi: “Hannah e le altre”. Hannah Arendt, Simone Weil e Rachel Bespaloff. Tre donne diverse e lontane ma dotate dello stesso intuito, “dello stesso sguardo” rispetto alla violenza, al potere, alla guerra… Tutte e tre commenteranno i vantaggi e gli svantaggi del “potere”, nel senso che esse vedono con chiarezza come “per il potere” si possa rischiare di perdere qualcosa di molto prezioso : la libertà di pensare.
L’AUDIO DELL’INTERVISTA A NADIA FUSINI di Luigia Sorrentino
Elisabetta Catalano, fotografa ritrattista, è l’artista protagonista della puntata del 28 marzo 2013 di “Notti d’autore”, il programma ideato e condotto da Luigia Sorrentino e in onda la notte tra il mercoledì e il giovedì alle 0:30 su Radio1. Elisabetta Catalano è nata a Roma dove tuttora vive, da madre napoletana e da padre pugliese. Ha fotografato dagli anni Settanta a oggi, i protagonisti del mondo della cultura, del cinema, della letteratura e dell’arte italiana e internazionale. Achille Bonito Oliva ha scritto di Elisabetta Catalano:”Se l’arte mette a nudo l’umanità, Elisabetta Catalano corre ai ripari con la sua fotografia e le fa indossare una corazza stilistica”. Una delle sue foto più famose è il ritratto di Alberto Moravia che lo scrittore aveva scelto come il ritratto della propria vita, riconoscendosi in esso a tal punto da utilizzarlo per più di trenta anni, sulle copertine dei libri che pubblicava. Elisabetta Catalano ha ritratto più volte Moravia, eppure, in ogni fotografia la sua creatività ha plasmato una quotidianità diversa dello scrittore che tutti conosciamo per le cose che ha scritto.
L’ AUDIO DELL’INTERVISTA A ELISABETTA CATALANO di Luigia Sorrentino
Appuntamento
–
La Fondazione Giorgio Cini annuncia un nuovo importante progetto espositivo che aprirà al pubblico sull’Isola di San Giorgio Maggiore il 29 maggio 2013: Marc Quinn, grande mostra personale a cura di Germano Celant e prodotta in collaborazione con l’artista. Saranno esposte oltre 50 opere, – 13 mai in prima assoluta in Italia – di Marc Quinn, uno dei più noti esponenti della generazione degli Young British Artists. Sarà possibile visitare la mostra dal 29 maggio 2013 (e fino al 29 settembre 2013) che comprende una selezione dei suoi lavori, tra cui sculture, dipinti, disegni e altri oggetti d’arte. Continua a leggere→
L’esperienza della poesia è un cammino che l’essere umano, senza distinzioni di genere, compie poco alla volta, uscendo dal torpore della propria condizione umana fino ad oltrepassare il confine che quella condizione determina. La poesia, quel grumo di parole che si forma sulla pagina, pone da sempre la stessa domanda: “Dove mi trovo?” “Qual è il mio posto nel mondo?” La poesia pone la domanda e cerca la risposta a quella domanda. E così facendo costruisce un ponte che allontana o avvicina alla risposta. Allontanandosi o avvicinandosi a quella domanda e quella risposta – nella tradizione biblica è Dio che pone ad Adamo la domanda: “Dove sei? Dove ti trovi?”- la poesia instaura un rapporto sacro con il piccolo mondo che all’uomo è stato affidato.
Papa Francesco ha dichiarato recentemente che il poeta che gli è più caro è Holderlin che trascorse gli ultimi 36 anni della sua vita rinchiuso in una torre, isolato dal mondo. Prova tenerezza Papa Francesco per questo poeta che non sapeva dove andare, ma che nella sua poesia ha racchiuso, forse più di ogni altro poeta, l’autentica visione dell’essere al mondo, una visione spirituale e religiosa al tempo stesso, che oltrepassa l’isolamento della condizione umana, al di là del confine di ogni tempo. (di Luigia Sorrentino)
In occasione dell’8 marzo 2013, Malala Yousafzai, la giovane attivista sopravissuta a un attentato dei talebani dello scorso ottobre 2012, ha esortato le donne a lottare per ottenere il rispetto dei loro diritti. Lo riferisce il giornale ‘The News’ in una corrispondenza da Londra dove la ragazza vive con la sua famiglia dopo essere stata sottoposta a diverse operazioni chirurgiche.
In un video messaggio registrato nell’ospedale dove è ricoverata per un nuovo intervento, la coraggiosa quindicenne dice che “se vogliamo che ogni ragazza sia istruita e se vogliamo la pace in tutto il mondo, allora dobbiamo lottare per questo e rimanere uniti. Non dovremmo aspettare che qualcun altro lo faccia al posto nostro”. Continua a leggere→
Appuntamento
— Navigator Nowhere, con Miltos Manetas & Paolo di Landro è un evento speciale curato da Valentina Ciarallo in occasione di ALTAROMA ALTAMODA.
0Z2O Galleria | Sara Zanin, via della Vetrina, 21 – 00186 Roma
opening
sabato 26 gennaio 2013, ore 16.00 – 21.30
domenica 27 gennaio 2013, ore 11.00 – 20.00
Durante ALTAROMA ALTAMODA, Valentina Ciarallo presenta il progetto NAVIGATOR | NOWHERE con l’artista Miltos Manetas e il designer Paolo di Landro, presso la Z2O Galleria di Sara Zanin. Per l’occasione gli spazi della galleria vengono trasformati in un laboratorio work in progress in cui gli artisti sperimentano diverse strade creative e dove il GPS, oggetto di ricerca dell’artista Miltos Manetas, si muove al confine tra arte e moda. Manetas e Di Landro realizzano insieme e dal vivo gli abiti dei nuovi NAVIGATOR, personaggi ibridi, metà umani, metà network. Continua a leggere→
Enzo Cucchi è il protagonista della terza puntata di “Notti d’autore“, in onda il 24 gennaio alle 0:30 su Rai Radio Uno. Il programma di Luigia Sorrentino che va in onda settimanalmente nella notte tra il mercoledì e il giovedi raccoglie la testimonianza esemplare ed esclusiva di un artista dallo straordinario talento visionario.
Enzo Cucchi è uno dei principali protagonisti della corrente italiana denominata dal critico Achille Bonito Oliva negli anni Ottanta “Transavanguardia”. Una corrente artistica che si proponeva il ritorno dell’arte alla manualità, al disegno, alla vera pittura, per chiudere definitivamente la parentesi dell’arte cosiddetta ‘concettuale’.
L’AUDIO CON L’INTERVISTA A ENZO CUCCHI di Luigia Sorrentino
Ravi Shankar, il più importante maestro di sitar – tipico strumento indiano a corde – non ha superato un intervento chirurgico al quale è stato sottoposto ed è morto l’11 dicembre 2012 all’età di 92 anni. Era stato ricoverato per complicazioni una settimana fa in un ospedale di San Diego, in California. Continua a leggere→
Appuntamento
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Mercoledì 28 novembre, a Palazzo Incontro (Via dei Prefetti, 22 – Roma), ore 18:00 Gianni Borgna, Furio Colombo, Dacia Maraini, Lorenzo Pavolini ricordano Pier Paolo Pasolini. Modera: Flavio Alivernini.
Nell’ambito della mostra d’arte contemporanea PPP. Una polemica inversa. Omaggio a Pier Paolo Pasolini (allestita nei piani superiori di Palazzo Incontro fino al 9 dicembre 2012, ingresso libero), in collaborazione con il Fondo Alberto Moravia, avverrà l’incontro sul tema dell’amicizia tra Pasolini e Moravia. Amici per la vita vita per almeno due validissime ragioni: la prima è che il 28 novembre ricorre il 105° anniversario dalla nascita di Moravia, la seconda attiene al lungo Continua a leggere→
La notte fra l’uno e il due novembre Pier Paolo Pasolini fu assassinato in un piazzale sabbioso all’Idroscalo di Ostia, vicino Roma. Nei giorni precedenti alla sua morte Pasolini andò prima in Svezia, poi a Parigi per curare l’edizione francese di Salò. In un’intervista rilasciata alla radio svedese Pasolini fa il punto sulla sua produzione filmica offrendo la sua chiave di lettura: “Adesso io ho fatto un film che non so bene perché l’ho fatto che si chiama Salòo le120 giornate di Sodoma tratto da De Sade e ambientato nella Repubblica di Salò, che sono gli ultimi mesi di vita di Mussolini […] Fatto sta che qui il sesso è ancora usato, ma anziché essere usato, come nella trilogia della vita, come qualcosa di gioioso, di bello e di perduto, è usato come qualcosa di terribile, è diventato la metafora di quella che Marx chiama la mercificazione del corpo. Quello che ha fatto Hitler brutalmente, distruggendo i corpi, la civiltà consumistica… l’ha fatto sul piano culturale, ma in realtà è la stessa cosa.”
IL VIDEO-SERVIZIO di Luigia Sorrentino è stato girato alla mostra d’arte contemporanea in corso a Roma al Palazzo Incontro della Libreria Fandango (Via dei Prefetti, 22) ispirata alla poesia di Pier Paolo Pasolini dal titolo “PPP Una polemica inversa” a cura di Flavio Alivernini: 22 artisti elaborano creativamente, pur provenendo da generazioni diverse, 11 poesie di Pasolini. Fra di loro alcuni fra i più importanti pittori, scultori e fotografi operanti nel panorama italiano e internazionale.
E’ opportuno segnalare che la voce fuori campo che nel video-servizio legge la poesia “Marilyn” di Pier Paolo Pasolini è di Giorgio Bassani.