WALTER SITI SULLA POESIA DI KIKUO TAKANO
La prima cosa da fare, credo, ragionando intorno alle poesie di Kikuo Takano, è difenderle contro una lettura banalmente “poetica”: il vuoto, lo smarrimento dell’anima, il miracolo della natura (“rabbrividiscono i fiori di mimosa”),l’amore per la vita – genericità che potrebbero richiamare, e soddisfacendo le nostre basse voglie di sublime, certo ermetismo attardato di provincia. La sua poesia è invece per eccellenza grammatica e antisentimentale, violenta asimmetrica esigente; una poesia che non ha paura di riconoscersi contraddittoria, di tacere quando è il caso, e che non cerca il facile plauso. Non per niente nasce, storicamente, dal disastro del Giappone post bellico; Takano ricorda, lui diciottenne, l’incontro in treno con una sopravvissuta di Hiroshima. La poesia si riconosce spezzata come in quel momento il paese, la sintassi è squassata, il metro ( per quanto si può capire dalle traduzioni, e posto che il paradigma di linearità che vige laggiù sia confrontabile al nostro) si disarticola in membri brevissimi e lunghissimi, il verso libero e contundente si impone come esigenza psicologica; “Arechi”, Il nome della rivista che ospita le sue prime prove e mature, in giapponese significa letteralmente “deserto”, “terra desolata”. Aridità, desolazione, frammentazione sono prima di tutto di bei dati fisici, creaturali – per salvarsene esprimendoli l’unica via è quella della cultura, che per Takano è fin dall’inizio, una cultura razionale, lucida, di matrice filosofica e scientifica (mai dimenticare che è stato un buon matematico, autore di importanti ricerche sulla formula del pi greco). Continua a leggere